venerdì 31 maggio 2019
I Greci in India - Arte Indo-Greca
"Ma è nel teatro che alcuni hanno pensato di potere percepire in modo più consistente il modello greco. Se ci furono insediamenti Greci in India, ci furono anche rappresentazioni di drammi greci in India. Non è pensabile che, tra tutti i Greci, solo i Greci che abitavano in India rinunciassero alle rappresentazioni di drammi o ai festival drammatici [100]. Del resto, i drammi greci erano rappresentati anche al di fuori dell’ambito culturale greco se, come ci attesta Plutarco [101], la testa di Crasso dopo la battaglia di Carre poté essere usata a Susa come appropriato attrezzo scenico per una rappresentazione delle Baccanti di Euripide. Siamo alla corte regale dei Parti, non siamo nel mondo greco, ma anche qui la produzione teatrale greca evidentemente è conosciuta e viene apprezzata. Del fatto che il teatro greco, e in particolare le tragedie di Sofocle, fosse noto in India abbiamo la certezza documentaria: a Peshawar è stato trovato un frammento di vaso (oggi conservato nel museo di Lahore) fabbricato in loco sul quale è rappresentata una scena dell’Antigone (Emone che prega Creonte di non condannare a morte Antigone). Secondo quanto notava Weber, nell’esercito di Alessandro c’erano mimi, giocolieri, artisti da circo, che Alessandro intendeva usare come “mezzo per l’ellenizzazione dell’Oriente” [102]. Tra dramma indiano e commedia nuova sembrano sussistere dei legami. Non è solamente la presenza delle yavanī, le raffinate danzatrici greche (o forse rinomate etere, da cui le colleghe indiana, a quanto pare, avrebbero avuto molto da imparare) che nei drammi di Kālidāsa fan sempre parte del séguito del re, o il fatto che yavanikā ‘greca’ sia il nome dato al tendaggio che fa da sfondo alla scena, a motivare questa impressione. Sta di fatto che sia la nea sia il dramma indiano hanno una consonanza singolare nella formulazione degli intrecci: le vicende amorose di una coppia, che per una qualunque motivo si separa, le peripezie che portano allo scioglimento dell’azione e al ritrovarsi dei due amanti, e soprattutto, spesso il riconoscimento dell’identità dell’altro per mezzo di un oggetto che era stato smarrito. Anche la presenza di personaggi fissi che presentano caratteristiche somiglianti (p.es. lo schiavo della commedia greco-romana e il vidūṣaka, un brahmano compagno di sollazzi, e soprattutto di pranzi, del protagonista) è un’altra coincidenza importante [103]. Nella Śakuntalā riconosciuta di Kālidāsa, per citare il più apprezzato esempio di dramma indiano e il più noto anche nella tradizione occidentale, l’oggetto indispensabile per il riconoscimento è l’anello che il re Duėyanta aveva lasciato alla donna nel momento di allontanarsi da lei e che viene perso durante un’abluzione rituale, così che la donna non può opporre all’amante, immemore di lei per le conseguenze di una maledizione, lo strumento che farebbe cadere il velo d’oblio che gli offusca la memoria: l’anello ricomparirà in séguito, pescato nel ventre di un pesce, e la sua vista riporterà alla memoria del re l’episodio della donna che ha colpevolmente abbandonato insieme col bambino che aveva in seno. La conclusione positiva (dal momento che il dramma indiano presuppone sempre una conclusione positiva e aborrisce qualunque situazione violenta o sanguinosa) avverrà in questo caso per altra via. Ma si è visto che anche nel Mudrārakṣasa, che pure ha una posizione anomala nella storia del teatro indiano, è l’anello col sigillo del ministro, perso dalla sua consorte, a costituire il fulcro essenziale della trama. Sarebbe indubbiamente semplicistico e riduttivo attribuire semplicemente all’imitazione del teatro greco la nascita di una tradizione teatrale in India [104]. Altre ipotesi sono state fatte: dal progressivo sviluppo di situazioni dialogate quali si hanno fin dagl’inni vedici, alla crescente popolarità di un teatro di ombre o di un teatro di marionette che si svolge sulle pubbliche piazze, alle rappresentazioni di mimi. Senza pervenire a conclusioni eccessive, si può benissimo pensare a un’azione catalizzatrice che il dramma greco poté avere sul nascente teatro indiano. Tra i più antichi autori di drammi si annoverano il già citato Aśvaghoṣa e Bhāṣa: autore di drammi apprezzati e citati nel periodo antico (Kālidāsa lo nomina espressamente come uno dei suoi predecessori), quest’ultimo ha conosciuto un lungo periodo d’oblio, e solamente all’inizio del XX secolo sono tornati alla luce alcuni dei suoi drammi. Purtroppo l’impossibilità di determinare delle coordinate cronologiche precise (per Bhāṣa si suppone un’epoca che va dal II sec. a.C. al II sec. d.C.) non consente neppure di stabilire se tra la definitiva maturazione del teatro indiano e la presenza dei Greci in India c’è o meno un rapporto cronologico. L’ipotesi dell’influsso greco fu formulata fin dalle prime stampe occidentali della Śakuntalā di Kālidāsa: Weber nel 1851, poi Windisch nel Congresso degli Orientalisti tenutosi a Berlino nel 1881, poi altri studiosi avevano osservato alcune coincidenze tra dramma indiano e la commedia nuova; l’ipotesi poi trovò sempre meno consenso tra gli studiosi [105]. Se si potesse in qualche modo avvalorare la tesi di Lévi, secondo cui la forma definitiva del dramma indiano sarebbe stata fissata a Mathurā nel I sec. a.C. [106], l’ipotesi di un influsso greco sulla nascita del teatro indiano farebbe un grosso balzo in avanti. Purtroppo questa ipotesi, benché affascinante, ha poche probabilità di essere provata in modo definitivo, e così il problema del possibile rapporto greco continua ad essere, per chi si pone nella prospettiva dell’India, nient’altro che una questione irritante [107]." FONTE: I GRECI IN INDIA http://www.rivistazetesis.it/India.htm
Lo storico geniale!
Santo
Mazzarino è stato uno dei maggiori storici (e fra i più geniali) che
l'Italia abbia mai avuto. La fine del mondo antico, dato alle stampe nel
1959; è un libro assolutamente "rivoluzionario" in cui viene delineata
la storia delle idee di "decadenza" e di "morte di Roma" da Polibio ai
nostri giorni, e viene al contempo fornita anche un'interpretazione
"moderna" della rovina del mondo antico.
La storia diventa, grazie a Mazzarino, oltre che "cronaca di fatti", soprattutto "vicenda" di idee, di sentimenti, di civiltà, in cui il fattore religioso e il fattore culturale hanno una parte mai inferiore, e qualche volta addirittura superiore, al fattore politico: così da giustificare, per esempio, la definizione che lui dà dell'epoca dei Severi, come epoca di Ippolito e di Callisto.
Ma l'interesse di questo storico è andato ben oltre la storia romana imperiale rivolgendosi ben presto anche alla storia greca, alla storia romana arcaica e a quella dell'antico Mediterraneo, come nei volumi Fra Oriente e Occidente e Dalla monarchia allo stato repubblicano, cogliendo sempre, al di là della successione degli avvenimenti, le problematiche connesse con lo sviluppo, spesso complicatissimo, della civiltà umana. La genialità stimolante del pensiero del Mazzarino appare come un invito continuo a non rifugiarsi sempre e solo nella certezza dei "fatti" ma a lasciarsi andare, qualche volta e senza timore, anche al fascino dell'interpretazione, su di un terreno pericoloso e scosceso che, grazie alla sua guida, appare però sempre dotato di un fascino "sicuro"....
La storia diventa, grazie a Mazzarino, oltre che "cronaca di fatti", soprattutto "vicenda" di idee, di sentimenti, di civiltà, in cui il fattore religioso e il fattore culturale hanno una parte mai inferiore, e qualche volta addirittura superiore, al fattore politico: così da giustificare, per esempio, la definizione che lui dà dell'epoca dei Severi, come epoca di Ippolito e di Callisto.
Ma l'interesse di questo storico è andato ben oltre la storia romana imperiale rivolgendosi ben presto anche alla storia greca, alla storia romana arcaica e a quella dell'antico Mediterraneo, come nei volumi Fra Oriente e Occidente e Dalla monarchia allo stato repubblicano, cogliendo sempre, al di là della successione degli avvenimenti, le problematiche connesse con lo sviluppo, spesso complicatissimo, della civiltà umana. La genialità stimolante del pensiero del Mazzarino appare come un invito continuo a non rifugiarsi sempre e solo nella certezza dei "fatti" ma a lasciarsi andare, qualche volta e senza timore, anche al fascino dell'interpretazione, su di un terreno pericoloso e scosceso che, grazie alla sua guida, appare però sempre dotato di un fascino "sicuro"....
Mostri inconcepibili
Dalla
fusione tra Alitalia e MotelAgip, nasce il supercolosso alberghiero
AlitAgip, la cui finalitá, come si evince anche dal nome, è dare respiro
alle casse dello Stato. Gli hotel, che come da tradizione offrono
servizi a due stelle al prezzo di un cinque, sono realizzati
sovrapponendo gli aeromibili dismessi ai vecchi motel autostradali ed
hanno la peculiaritá di potersi autotrasferire di localitá in localitá
secondo la moda del momento, ottimizzando i costi e limitando i rischi
d'impresa. Il primo oggi si trova ad Antalya.
Le prove estreme per provare l'innocenza o la ragione
Con
l'urteil (sentenza, giudizio) divenuto poi nel latino medievale
ordàlium, alcune popolazioni barbariche costringevano i presunti
colpevoli di reati a prove fisiche estreme (passaggio nel fuoco,
immersione in olio o acqua bollente, appendimento a lacci con pesi
ecc...) che, con il loro eventuale (e assai raro) esito positivo,
avrebbero dovuto dimostrare, di fronte a dio, l'innocenza di chi veniva
sottoposto a tali prove.
L'ordalìa (detta anche giudizio di dio) era in antico considerata rigorosamente personale, essa riguardava cioè sempre e solo un individuo. L'applicazione ad interi villaggi, città, o addirittura ad intere popolazioni non era compendiata nel rito.
Quest'ultima è pratica moderna….
L'ordalìa (detta anche giudizio di dio) era in antico considerata rigorosamente personale, essa riguardava cioè sempre e solo un individuo. L'applicazione ad interi villaggi, città, o addirittura ad intere popolazioni non era compendiata nel rito.
Quest'ultima è pratica moderna….
Il patrimonio archeologico dei Latini
COSE MAI VISTE
Il patrimonio archeologico dei Latini
Il poeta Virgilio, duemila anni fa, aveva fatto un appello all’umanità invitando le future generazioni a “non ignorare i Latini” (Eneide, VII, 202). La sfortuna degli antichi Latini è stata quella di essere confusi con i Romani ed ancora oggi sono ignorati e sconosciuti. A Roma, periodicamente, si organizzano mostre sugli Etruschi, mentre sugli antichi Latini c’è la “damnatio memoriae” per evitare di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica locale, nazionale ed internazionale sull’esistenza di uno straordinario patrimonio archeologico appena fuori dal centro storico della capitale d’Italia. Nel raggio di 20, 30, 40 chilometri a sud di Roma c’è, infatti, una realtà archeologica chiusa, occultata, “protetta” da qualsiasi sguardo come se fosse una vergogna da nascondere. I responsabili di questa situazione o non sanno o si vergognano che si sappia la verità su tutto quello che avrebbero dovuto fare nell’interesse generale e non hanno fatto. L’unica cosa che sanno fare bene è tanta, ma propria tanta retorica sul beni culturali e sulla loro tutela e valorizzazione: un mare di chiacchiere inutili!!! Per scavare e “valorizzare” il patrimonio archeologico dei Latini, come ad esempio quello esistente nel territorio dei comuni di Pomezia e di Ardea, sono stati spesi decine di milioni di euro senza riuscire a portare un solo turista in queste zone archeologiche appena fuori Roma. Nel corso degli anni, per “giustificare” i soldi spesi, è stata fatta qualche inaugurazione di apertura con tanto di taglio del nastro e benedizione religiosa, ma un mese dopo era tutto chiuso, abbandonato ed invaso dalle erbacce.I casi più clamorosi, tra i tanti, sono quelli del santuario federale dei Latini a Pratica di mare (antica Lavinium) con i tredici altari e dell’Afrodision di Ardea (Castrum Inui) con la scoperta di quattro templi a poche centinaia di metri dalla riva del mare....Solo queste aree archeologiche, se aperte al pubblico, farebbero la fortuna di qualsiasi comunità civile non solo da un punto di vista sociale e culturale, ma anche turistico ed economico. Quello che si fa, invece, è questo: si scava, si riporta alla luce e si abbandona tutto venendo meno a qualsiasi codice etico e deontologico. Qualche tempo dopo, anche in seguito alle giuste denunce dei cittadini, i responsabili di questi misfatti archeologici tornano su quel sito archeologico con altri soldi pubblici per ricominciare tutto da capo: si ri/scava, si restaura qualcosa e si abbandona tutto. E le cose, nel Lazio virgiliano, vanno così da anni senza arrivare mai ad una valorizzazione di questo patrimonio collettivo che è un bene di tutti.La professoressa Andreina Ricci, docente all’università di Tor Vergata, ha scritto un libro- denuncia nel 2006, con il titolo “Attorno alla nuda pietra”, per spiegare la causa di tutto questo: “Oggi è consentito conferire incarichi per dirigere un cantiere di scavo, direttamente sulla fiducia, anche al di fuori di qualsiasi graduatoria di merito, di qualsiasi titolo professionale o curriculum che garantisca le competenze e renda trasparenti le scelte adottate. Per non parlare del caso, ormai ben noto, delle ”ditte di fiducia” alle quali vengono affidati lavori cantieristici in aree considerate di interesse archeologico. In sintesi occorre riflettere sul fatto che quello dei beni archeologici del territorio è un “ unicum”: l’unico caso in cui uno stesso soggetto può legittimamente imporre, eseguire e collaudare una qualsiasi opera”. E’ necessario dare atto e rendere onore a tutti quei cittadini che a Pomezia e ad Ardea (e, più in generale, nel Lazio virgiliano) hanno avuto ed hanno ancora il coraggio di denunciare queste situazioni nonostante intimidazioni ed emarginazioni. Grazie a questi cittadini, radicati nel territorio ed animati da un forte senso di appartenenza, è stato possibile fare e documentare preziose esperienze di cittadinanza attiva con progetti educativi e proposte di itinerari per assicurare un futuro al patrimonio archeologico dei Latini. Prima o poi si raccoglieranno i frutti di tanto impegno civico per il bene comune “se la Giustizia (come scriveva Virgilio) è ancora tra noi”.
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Il patrimonio archeologico dei Latini
Il poeta Virgilio, duemila anni fa, aveva fatto un appello all’umanità invitando le future generazioni a “non ignorare i Latini” (Eneide, VII, 202). La sfortuna degli antichi Latini è stata quella di essere confusi con i Romani ed ancora oggi sono ignorati e sconosciuti. A Roma, periodicamente, si organizzano mostre sugli Etruschi, mentre sugli antichi Latini c’è la “damnatio memoriae” per evitare di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica locale, nazionale ed internazionale sull’esistenza di uno straordinario patrimonio archeologico appena fuori dal centro storico della capitale d’Italia. Nel raggio di 20, 30, 40 chilometri a sud di Roma c’è, infatti, una realtà archeologica chiusa, occultata, “protetta” da qualsiasi sguardo come se fosse una vergogna da nascondere. I responsabili di questa situazione o non sanno o si vergognano che si sappia la verità su tutto quello che avrebbero dovuto fare nell’interesse generale e non hanno fatto. L’unica cosa che sanno fare bene è tanta, ma propria tanta retorica sul beni culturali e sulla loro tutela e valorizzazione: un mare di chiacchiere inutili!!! Per scavare e “valorizzare” il patrimonio archeologico dei Latini, come ad esempio quello esistente nel territorio dei comuni di Pomezia e di Ardea, sono stati spesi decine di milioni di euro senza riuscire a portare un solo turista in queste zone archeologiche appena fuori Roma. Nel corso degli anni, per “giustificare” i soldi spesi, è stata fatta qualche inaugurazione di apertura con tanto di taglio del nastro e benedizione religiosa, ma un mese dopo era tutto chiuso, abbandonato ed invaso dalle erbacce.I casi più clamorosi, tra i tanti, sono quelli del santuario federale dei Latini a Pratica di mare (antica Lavinium) con i tredici altari e dell’Afrodision di Ardea (Castrum Inui) con la scoperta di quattro templi a poche centinaia di metri dalla riva del mare....Solo queste aree archeologiche, se aperte al pubblico, farebbero la fortuna di qualsiasi comunità civile non solo da un punto di vista sociale e culturale, ma anche turistico ed economico. Quello che si fa, invece, è questo: si scava, si riporta alla luce e si abbandona tutto venendo meno a qualsiasi codice etico e deontologico. Qualche tempo dopo, anche in seguito alle giuste denunce dei cittadini, i responsabili di questi misfatti archeologici tornano su quel sito archeologico con altri soldi pubblici per ricominciare tutto da capo: si ri/scava, si restaura qualcosa e si abbandona tutto. E le cose, nel Lazio virgiliano, vanno così da anni senza arrivare mai ad una valorizzazione di questo patrimonio collettivo che è un bene di tutti.La professoressa Andreina Ricci, docente all’università di Tor Vergata, ha scritto un libro- denuncia nel 2006, con il titolo “Attorno alla nuda pietra”, per spiegare la causa di tutto questo: “Oggi è consentito conferire incarichi per dirigere un cantiere di scavo, direttamente sulla fiducia, anche al di fuori di qualsiasi graduatoria di merito, di qualsiasi titolo professionale o curriculum che garantisca le competenze e renda trasparenti le scelte adottate. Per non parlare del caso, ormai ben noto, delle ”ditte di fiducia” alle quali vengono affidati lavori cantieristici in aree considerate di interesse archeologico. In sintesi occorre riflettere sul fatto che quello dei beni archeologici del territorio è un “ unicum”: l’unico caso in cui uno stesso soggetto può legittimamente imporre, eseguire e collaudare una qualsiasi opera”. E’ necessario dare atto e rendere onore a tutti quei cittadini che a Pomezia e ad Ardea (e, più in generale, nel Lazio virgiliano) hanno avuto ed hanno ancora il coraggio di denunciare queste situazioni nonostante intimidazioni ed emarginazioni. Grazie a questi cittadini, radicati nel territorio ed animati da un forte senso di appartenenza, è stato possibile fare e documentare preziose esperienze di cittadinanza attiva con progetti educativi e proposte di itinerari per assicurare un futuro al patrimonio archeologico dei Latini. Prima o poi si raccoglieranno i frutti di tanto impegno civico per il bene comune “se la Giustizia (come scriveva Virgilio) è ancora tra noi”.
Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia
Hegel racconta Filone:
Dio determina se stesso ed il generato, quel che è determinato da lui in se stesso e che appartiene a lui. L'altro, che Dio distingue da sé, è un aspetto di se stesso. È necessario pensare Dio in modo concreto. Dunque, da un lato, l'idea di Dio è limitata a Dio stesso. Dapprima Dio è l'uno, il quale è però indeterminato, mentre Dio è concreto, vivente, Dio distingue in sé stesso, si determina: nel λόγος, nel figlio primogenito. Pertanto si può affermare che si Dio fosse solo l'ὄν, non potrebbe venir conosciuto; che esiste si potrebbe solo vedere, constatare. Questo è assolutamente gusto. Il conoscere concerne il sapere circa Dio che determina se medesimo, Dio che si determina entro se stesso, Dio come Dio vivente».
Innanzi tutto c'è la luce originaria, l'essenza, la sostanza che riempie ed abbraccia tutto. Una luce piena di sé, αὐτὸς ἐαυτοῦ (πλήρωμα), mentre il resto è bisognoso e vuoto. «La sostanza riempie ed abbraccia tutto ciò che è vuoto, tutto ciò che è negativo: è uno e tutto. L'uno è l'astratto, il tutto è pienezza assoluta. Ma la pienezza è essa stessa ancora astratta, non è ancora concreta. Il concreto è il λόγος. Dio vive solo nell'eone, nell'archetipo, nel concetto puro del tempo. L'intelletto, il λόγος, è ciò che è capace di determinare, ciò che contiene l'essere determinato: il regno del pensiero, l'angelo della luce; è l'uomo delle origini, l'uomo celeste, l'uomo in Dio, il lógos, se con questo termine si rappresenta l'attività dello spirito; è il sorgere del sole. Il λόγος, si scinde nelle idee, che da Filone sono chiamate anche 'angeli'. L'uomo originario, il lógos primigenio, è il mondo del pensiero in quiete. Da esso si differenzia il λόγος προφοριχός, il lógos prοduttivo, attivo, che esprime l'efficienza, la creazione del mondo: come nella conservazione del mondo esso è lógos che permane. Rispetto alla coscienza di sé, esso è maestro di saggezza, è il sommo sacerdote, è lo spirito della divinità che insegna agli uomini il ritorno cosciente dello spirito all'interno di se stesso.
Dio determina se stesso ed il generato, quel che è determinato da lui in se stesso e che appartiene a lui. L'altro, che Dio distingue da sé, è un aspetto di se stesso. È necessario pensare Dio in modo concreto. Dunque, da un lato, l'idea di Dio è limitata a Dio stesso. Dapprima Dio è l'uno, il quale è però indeterminato, mentre Dio è concreto, vivente, Dio distingue in sé stesso, si determina: nel λόγος, nel figlio primogenito. Pertanto si può affermare che si Dio fosse solo l'ὄν, non potrebbe venir conosciuto; che esiste si potrebbe solo vedere, constatare. Questo è assolutamente gusto. Il conoscere concerne il sapere circa Dio che determina se medesimo, Dio che si determina entro se stesso, Dio come Dio vivente».
Innanzi tutto c'è la luce originaria, l'essenza, la sostanza che riempie ed abbraccia tutto. Una luce piena di sé, αὐτὸς ἐαυτοῦ (πλήρωμα), mentre il resto è bisognoso e vuoto. «La sostanza riempie ed abbraccia tutto ciò che è vuoto, tutto ciò che è negativo: è uno e tutto. L'uno è l'astratto, il tutto è pienezza assoluta. Ma la pienezza è essa stessa ancora astratta, non è ancora concreta. Il concreto è il λόγος. Dio vive solo nell'eone, nell'archetipo, nel concetto puro del tempo. L'intelletto, il λόγος, è ciò che è capace di determinare, ciò che contiene l'essere determinato: il regno del pensiero, l'angelo della luce; è l'uomo delle origini, l'uomo celeste, l'uomo in Dio, il lógos, se con questo termine si rappresenta l'attività dello spirito; è il sorgere del sole. Il λόγος, si scinde nelle idee, che da Filone sono chiamate anche 'angeli'. L'uomo originario, il lógos primigenio, è il mondo del pensiero in quiete. Da esso si differenzia il λόγος προφοριχός, il lógos prοduttivo, attivo, che esprime l'efficienza, la creazione del mondo: come nella conservazione del mondo esso è lógos che permane. Rispetto alla coscienza di sé, esso è maestro di saggezza, è il sommo sacerdote, è lo spirito della divinità che insegna agli uomini il ritorno cosciente dello spirito all'interno di se stesso.
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Una iscrizione sul Duomo di Barga
Su
questa iscrizione scolpita sullo stipite destro della porta di ingresso
del Duomo di Barga, si sono cimentati "molti valenti uomini, dottori,
teologi et gran pratichi in lingua caldea et ebrea". Nel corso dei
secoli nessuno è riuscito a darne un'interpretazione convincente. La
stessa iscrizione si trova anche sullo stipite della porta laterale che
dà sull'Arringo.
Il Duomo di Barga, o meglio la costruzione che diede poi origine all'attuale Duomo fu iniziata nel IX secolo, rimaneggiata fino al XIV secolo
Gli stipiti citati con le loro iscrizioni costituiscono la parte più antica dell'edificio.
Iscrizioni simili, ma poste sugli stipi di sinistra, si trovano in altre chiese di Pisa
Il Duomo di Barga, o meglio la costruzione che diede poi origine all'attuale Duomo fu iniziata nel IX secolo, rimaneggiata fino al XIV secolo
Gli stipiti citati con le loro iscrizioni costituiscono la parte più antica dell'edificio.
Iscrizioni simili, ma poste sugli stipi di sinistra, si trovano in altre chiese di Pisa
giovedì 30 maggio 2019
Stragi, la verità ufficiale non regge
I silenzi di Riina - Neppure agli altri boss spiegò i motivi per colpire Falcone in Sicilia anziché a Roma e di anticipare l’attentato a Borsellino
di Roberto Scarpinato | 22 Maggio 2019 - Il Fatto Quotidiano
Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico consegni alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché uomini simbolo di uno Stato che con le condanne inflitte con il maxiprocesso aveva sferrato un colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta. La tenuta di tale narrazione semplificata è di anno in anno sottoposta a dura prova, per le crescenti difficoltà di epurare il discorso pubblico da ogni riferimento alla pluralità di risultanze probatorie che, tra mille difficoltà e resistenze, si vanno accumulando nei processi (da ultimo il processo c.d. Borsellino quater, quello sulla “trattativa Stato-mafia” e quello sulla “’ndrangheta stragista) e che, nel loro sommarsi, lumeggiano una storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante, intessuta di segreti a tutt’oggi irrisolti a causa del pervicace silenzio di coloro che ne sono custodi e della sequenza di depistaggi – processualmente accertati – realizzati in vari modi per occultare l’emersione di verità che vanno oltre il livello mafioso.
Le complesse motivazioni della campagna stragista del 1992/1993 sono rimaste nella conoscenza esclusiva di un ristrettissimo numero di capi perché furono in buona misura tenute segrete sia agli esecutori materiali che alla quasi totalità degli stessi componenti della Commissione provinciale di Palermo, l’organo decisionale di vertice della mafia palermitana. A costoro furono comunicate solo le causali interne all’organizzazione, cioè la necessità di vendicarsi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino perché artefici del maxiprocesso, e di punire i referenti politici che non avevano mantenuto la promessa di far annullare in Cassazione le condanne inflitte nel maxi. Ad alcuni fu anche detto che si voleva costringere lo Stato a trattare.
A tutti furono taciute le causali esterne di quella campagna stragista, in parte coincidenti con gli interessi dell’organizzazione, in parte invece talmente divergenti da alimentare progressivamente in taluni capi e persino negli esecutori, la certezza che Riina e i suoi fedelissimi, tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, componenti di quella che Riina aveva definito la “Super Cosa”, non dicevano loro tutta la verità,
Nessuno dei numerosi collaboratori di giustizia della mafia palermitana, per esempio, ha mai riferito alcunché delle riunioni che nel 1991 si svolsero nelle campagne di Enna e nel corso delle quali i massimi vertici regionali della mafia discussero dell’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne. In quelle riunioni fu anche stabilito che gli omicidi e le stragi sarebbero stati rivendicati con la sigla “Falange armata”, così come in effetti poi avvenne.
Riina e i suoi fedelissimi non comunicarono nulla delle decisioni assunte in quella sede agli altri capi della Commissione provinciale di Palermo nella riunione svoltasi nel dicembre del 1991 nella quale – come hanno concordemente dichiarato i capi mandamento poi divenuti collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi e Antonino Giuffrè – l’unica causale esternata dell’avvio della sequenza di fatti di sangue programmati fu appunto solo quella interna della vendetta per l’esito del maxiprocesso che si sapeva già sarebbe stato infausto.
E neppure Riina spiegò in seguito perché aveva ordinato l’improvviso rientro da Roma del gruppo di fuoco capeggiato da Matteo Messina Denaro che si apprestava a uccidere Giovanni Falcone a colpi di arma da fuoco nella Capitale dove egli si muoveva spesso senza scorta, e aveva deciso di cambiare completamente strategia con l’esecuzione di una strage eclatante la cui realizzazione richiedeva complesse capacità tecniche in materia di esplosivi e che, proprio per questo motivo, presentava un rischio significativo di insuccesso; rischio invece pressoché inesistente o ridotto ai minimi termini se l’esecuzione dell’omicidio fosse stato eseguito a Roma da killer di micidiale e sperimentata abilità.
E neanche Riina spiegò agli altri capi perché nel luglio del 1992 aveva improvvisamente cambiato programma decidendo di dare esecuzione in tempi rapidissimi alla strage di via D’Amelio. Una decisione irrazionale e assolutamente controproducente se valutata esclusivamente alla luce degli interessi di Cosa Nostra. Il 9 agosto 1992 scadeva infatti il termine per convertire in legge il decreto legge n, 306 voluto da Falcone che aveva introdotto il famoso 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Come è stato accertato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, si aveva la certezza che il decreto legge non sarebbe stato convertito in legge perché in Parlamento esisteva una solida maggioranza garantista che riteneva quell’articolo in contrasto con i principi costituzionali. Era evidente, dunque, che la decisione più conforme agli interessi di Cosa Nostra sarebbe stata quella di attendere l’esito del voto parlamentare del 9 agosto e incassare il risultato della vanificazione del 41 bis. Invece eseguire la strage prima del 9 agosto, cambiando i programmi, era assolutamente controproducente perché – come infatti puntualmente avvenne – era prevedibile che l’ondata di sdegno popolare conseguente alla seconda strage avrebbe indotto molti parlamentari a retrocedere dalla loro precedente decisione, convertendo il decreto legge.
Di fronte alla motivate perplessità degli altri capi, Riina tagliò corto assumendosi la responsabilità di quanto sarebbe accaduto. E fu a quel punto che alcuni di loro capirono che Riina taceva qualcosa che evidentemente non poteva dire neanche a loro. All’uscita dalla riunione in cui era stato comunicato quel cambio di programma, Raffaele Ganci, prestigioso capo mandamento, aveva commentato: “Questo è pazzo, ci vuole rovinare tutti quanti”, come ha riferito il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi. Lo stesso Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio, ha dichiarato: “Io ho capito che Riina aveva preso un impegno e doveva rispondere a qualcuno”. In altri termini aveva capito che Riina stava assecondando interessi che non coincidevano con quelli di Cosa Nostra e anzi li ponevano in secondo ordine. Come è stato rilevato nella motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l’intuizione di Cancemi è stata confermata dallo stesso Riina il quale nel corso di una conversazione intercettata il 6 agosto 2013 all’interno del carcere Opera di Milano, confidò al suo interlocutore che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio era stata invece “studiata alla giornata”, perché, come aggiunse in una successiva conversazione del 20 agosto: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh… Ma rici… macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io… rammi un poco di tempo ca…”. E cioè era arrivato qualcuno che aveva detto che bisognava fare quella strage “subito, subito” e Riina aveva chiesto di dargli un poco di tempo.
Erano dunque improvvisamente sopravvenute ragioni che non consentivano di attendere la manciata di giorni che mancavano al fatidico 9 agosto 1992; ragioni che Riina non poteva esternare ad altri capi e che lo indussero ad assumersi la responsabilità di quanto sarebbe inevitabilmente accaduto. Assunzione di responsabilità che derivava dal fatto che, in ogni caso, l’organizzazione “aveva le spalle coperte”, come Filippo Graviano, organizzatore della strage e fedelissimo di Riina, assicurò al capo mandamento Vito Galatolo, il quale divenuto collaboratore di giustizia nel riferire tale circostanza ha poi aggiunto che gli uomini d’onore di livello detenuti in carcere erano pervenuti alla conclusione che “…non è stata Cosa nostra a volere queste Stragi, ma sono stati… è stato… sono stati dei pezzi dello stato deviati che hanno costretto cosa nostra a fare questi favori diciamo”.
Ma cosa si apprestava a fare Borsellino prima di quel 9 agosto di talmente irrimediabile e compromettente da “studiare la strage alla giornata” pagando l’elevatissimo prezzo dello scontato effetto boomerang che ne sarebbe conseguito?
In quei giorni Paolo Borsellino aveva programmato due appuntamenti importanti. Doveva ritornare dal collaboratore Gaspare Mutolo, braccio destro di Rosario Riccobono noto come “il terrorista” per i suoi rapporti con i servizi deviati, il quale gli aveva anticipato che avrebbe finalmente dichiarato a verbale quanto gli aveva in precedenza confidato informalmente sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e la mafia. Inoltre doveva recarsi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta per dichiarare quel che aveva appreso sulla strage di Capaci sulla quale dal 23 maggio non aveva mai smesso di indagare, raccogliendo una serie di informazioni che lo avevano profondamente turbato. Nel luglio aveva incontrato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, appartenente alla mafia di Caltanissetta, il quale era a conoscenza del piano segreto di destabilizzazione che era stato discusso a Enna dai vertici regionali della mafia nel 1991 e che aveva avuto il suo incipit con la strage di Capaci. Anche lui, come Mutolo, aveva chiesto espressamente di parlare con Borsellino e non aveva ancora messo a verbale quanto sapeva.
Da altre fonti rimaste sconosciute Borsellino aveva poi appreso notizie sulla complicità con la mafia di soggetti appartenenti ai massimi vertici delle Forze di Polizia, come confidò alla moglie Agnese, alla quale raccomandò significativamente di tenere abbassate in casa le tende delle finestre perché temeva di essere osservato dai servizi segreti che avevano una postazione al castello Utveggio di Palermo. Ma non bastava uccidere Borsellino, occorreva fare sparire anche l’agenda rossa dove egli aveva annotato tutte le informazioni confidenziali che aveva acquisito e che gli avevano fornito chiavi di lettura della strage di Capaci e di quel che si preparava, tali da pervenire alla drammatica conclusione che accanto alla mafia si muovevano altre forze. La stessa conclusione a cui sarebbe pervenuta nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia trasmettendo alla magistratura una informativa nella quale si comunicava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Se quella agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, Borsellino avrebbe provocato gravi danni anche da morto e lo scopo dell’accelerazione della sua uccisione sarebbe stato vanificato. Era assolutamente consequenziale dunque che dopo l’esplosione di via D’Amelio soggetti che certamente non appartenevano alla mafia ma ad apparati istituzionali, intervenissero sul luogo con un un’unica mission: fare sparire l’agenda rossa. Le pagine dedicate nella sentenza del c.d. Borsellino quater alla “caccia” all’agenda rossa che si scatena pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba, sono agghiaccianti. Un pullulare di agenti segreti giunti sul luogo ancor prima delle Forze di Polizia, totalmente indifferenti ai feriti e ai cadaveri e freneticamente intenti solo alla ricerca dell’agenda che scomparirà dalla borsa di Paolo Borsellino lasciata all’interno dell’autovettura in fiamme. Ed è altrettanto conseguenziale alla certezza dei vertici corleonesi di avere “le spalle coperte” che all’esecuzione della strage abbiano partecipato soggetti esterni. Circostanza questa nota a Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santo Di Matteo, che – come viene ampiamente riportato nella sentenza citata – in un drammatico colloquio intercettato il 14 dicembre 1993, poco dopo il rapimento del loro figlio undicenne Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati della polizia” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Infiltrati rimasti senza volto ma uno dei quali fu ben visto in volto dal Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage, il quale ha rivelato che alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato un soggetto esterno la cui identità era stata tenuta segreta. Lo stesso Spatuzza ha dichiarato che le stragi eseguite nel 1992 e nel 1993 gli erano apparse talmente anomale per le eclatanti modalità terroristiche prescelte (esplosione di autobombe collocate nelle pubbliche vie con la conseguente uccisione di cittadini innocenti) da avere avvertito la necessità di esternare i suoi dubbi sulla loro utilità per Cosa Nostra a Giuseppe Graviano il quale lo aveva rassicurato chiedendogli, significativamente, se lui sapesse qualcosa di politica, materia nella quale egli, a differenza dello Spatuzza, si era dichiarato abbastanza preparato. A tutto ciò si aggiunge che nella motivazione della sentenza del processo Borsellino quater la Corte di Assise di Caltanissetta dopo avere accertato che “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, si è interrogata sulle finalità di tale depistaggio, lasciando aperti i seguenti interrogativi inquietanti:
“….è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:
– ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
– alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.
Interrogativi ancora senza risposta e che forse possono spiegare anche il pervicace silenzio mantenuto dai fratelli Graviano sui segreti delle stragi che coinvolgono centri di potere rimasti temibili e la straordinaria longevità della latitanza di Matteo Messina Denaro.
*Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo
Fonte:
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-...regge/5197802/
Tutto ciò che è vivo vibra in simpatia.....
Esiste un ritmo biologico, un palpito universale presente in ogni cellula, indipendentemente dagli stimoli biochimici che ogni unità biologica recepisce.
Che cosa intendo con questa affermazione? Mi spiego meglio. Siamo abituati a pensare che ogni cellula del nostro organismo reagisca solo sotto l’influenza di stimoli esterni, vuoi di natura biochimica, vuoi di natura fisica-ambientale. Enzimi, ormoni, neurotrasmettitori attivano o spengono le nostre funzioni biologiche, agendo su recettori cellulari. La luce, il buio, la rotazione terrestre, la temperatura, la latitudine, la longitudine si sa che influiscono sulle funzioni circadiane delle nostre unità biologiche.
Pare esista invece una funzionalità autonoma, non così causale, dipendente cioè da elementi esterni o di controllo centrale. Intendo dire che ogni nostra cellula possiede facoltà sue proprie “on” “off” di attivazione e spegnimento, una sorta di autofunzionalità, di autocompetenza e autoconsapevolezza e ciò è per me meraviglioso.
Un dio nascosto in ogni cellula dirige un’orchestra autonoma e di concerto collettiva, come se ogni nostra unità biologica avesse un’anima sua propria, un diapason oscillante in risonanza o dissonanza con la Sorgente.
I santi successori degli dei
Pierre
Saintyves era lo pseudonimo di Émile Nourry. Figlio di librai, con
l’intenzione mai realizzata di farsi prete, si specializzò negli studi
di folklore e a lui si devono non pochi saggi che trattano, per esempio,
della leggenda di Faust o delle concezioni magiche che stanno alla base
di credenze o miracoli. Nato nel 1870 ad Autun, nella regione della
Borgogna-Franca Contea, ebbe una sua libreria prima a Digione e poi a
Parigi. Nel 1936, l’anno dopo la morte, il rettore dell’Accademia di
Parigi, Sébastien Charléty, così ne scriveva sulla Revue de folklore
française: «Aveva ottenuto dai suoi studi la serena filosofia della
saggezza. La sua fisionomia, a volte grave a volte sorridente,
traspirava bontà. Calmo, si animava subito nella conversazione e
qualunque fosse l’argomento, stupiva sempre per l’immensità del sapere».
Di Nourry, o meglio di Saintyves, esce ora, a cura di Vittorio Fincati, la traduzione italiana di un saggio del 1907: I santi successori degli dei. In esso si scava nel culto degli eroi o dei morti, ovviamente in quello dei santi; si indaga sulle filiazioni verbali (usando tra l’altro il metodo astronomico) e si va alle radici della civiltà cristiana cercando, per esempio attraverso lo studio delle festività, quegli dei pagani che anticiparono talune tradizioni. Saintyves parte dal libro dell’abate di Saint Michel, don Cabrol, dedicato alle Origini della liturgia; riprende le argomentazioni che sovente derivano da Loisy («Posto che si possa dimostrare l’origine pagana di un certo numero di riti cristiani, tali riti hanno cessato di essere pagani quando sono stati accettati e interpretati dalla Chiesa»), altre volte ricorre a quella miniera di notizie lasciata da Tillemont in Mémoires pour servir a l’Histoire ecclésiastique. Senza elencare tutte le fonti e indipendentemente dal metodo, che non rispecchia criteri filologici, il lavoro di Saintyves tocca argomenti di notevole interesse e le numerose citazioni riportano l’attenzione su ricerche preziose riguardanti eroi o santi intercessori o tutelari, sul ritrovamento delle reliquie e le loro traslazioni, le inevitabili falsificazioni. Così come Agostino si lamenta dei monaci girovaghi che vendono frammenti di ossa raccolte non si sa dove, allo stesso modo Pausania segnala dei resti degli argonauti Linceo e Ida che si conservavano a Sparta e che si era liberi di considerare con sospetto.
E poi ecco storie degne di essere conosciute. Come quella del Sudario di Lirey, che vide i canonici della città intentare una causa a Roma per avere il diritto di continuare l’ostensione della reliquia: papa Clemente VII fece aggiungere l’obbligo che a ogni esposizione occorreva proclamare che non si trattava del vero sudario di Cristo ma di un dipinto. Ci sono anche i furti dei corpi dei santi, già presenti prima del cristianesimo e riguardanti personaggi divenuti mitici. O le reliquie curiose: non è difficile tentare paragoni tra i frammenti che si esponevano della scrofa bianca con i suoi trenta porcelli sacrificata da Enea ad Alba e due o tre lische di pesce con cui il Salvatore saziò cinquemila persone, mostrate nella cattedrale di Marsiglia.
Un libro ricco di sorprese e curiosità. Per conoscere meglio le nostre radici e per non dimenticare che il sacro è indispensabile all’uomo.
(Pierre Saintyves, I santi successori degli dei , Arkeios)
Di Nourry, o meglio di Saintyves, esce ora, a cura di Vittorio Fincati, la traduzione italiana di un saggio del 1907: I santi successori degli dei. In esso si scava nel culto degli eroi o dei morti, ovviamente in quello dei santi; si indaga sulle filiazioni verbali (usando tra l’altro il metodo astronomico) e si va alle radici della civiltà cristiana cercando, per esempio attraverso lo studio delle festività, quegli dei pagani che anticiparono talune tradizioni. Saintyves parte dal libro dell’abate di Saint Michel, don Cabrol, dedicato alle Origini della liturgia; riprende le argomentazioni che sovente derivano da Loisy («Posto che si possa dimostrare l’origine pagana di un certo numero di riti cristiani, tali riti hanno cessato di essere pagani quando sono stati accettati e interpretati dalla Chiesa»), altre volte ricorre a quella miniera di notizie lasciata da Tillemont in Mémoires pour servir a l’Histoire ecclésiastique. Senza elencare tutte le fonti e indipendentemente dal metodo, che non rispecchia criteri filologici, il lavoro di Saintyves tocca argomenti di notevole interesse e le numerose citazioni riportano l’attenzione su ricerche preziose riguardanti eroi o santi intercessori o tutelari, sul ritrovamento delle reliquie e le loro traslazioni, le inevitabili falsificazioni. Così come Agostino si lamenta dei monaci girovaghi che vendono frammenti di ossa raccolte non si sa dove, allo stesso modo Pausania segnala dei resti degli argonauti Linceo e Ida che si conservavano a Sparta e che si era liberi di considerare con sospetto.
E poi ecco storie degne di essere conosciute. Come quella del Sudario di Lirey, che vide i canonici della città intentare una causa a Roma per avere il diritto di continuare l’ostensione della reliquia: papa Clemente VII fece aggiungere l’obbligo che a ogni esposizione occorreva proclamare che non si trattava del vero sudario di Cristo ma di un dipinto. Ci sono anche i furti dei corpi dei santi, già presenti prima del cristianesimo e riguardanti personaggi divenuti mitici. O le reliquie curiose: non è difficile tentare paragoni tra i frammenti che si esponevano della scrofa bianca con i suoi trenta porcelli sacrificata da Enea ad Alba e due o tre lische di pesce con cui il Salvatore saziò cinquemila persone, mostrate nella cattedrale di Marsiglia.
Un libro ricco di sorprese e curiosità. Per conoscere meglio le nostre radici e per non dimenticare che il sacro è indispensabile all’uomo.
(Pierre Saintyves, I santi successori degli dei , Arkeios)
Battistero Misterioso
Nel Piemonte più appartato resistono vestigia di un’antica, segreta devozione popolare d’esaltazione del vigore maschile, e Biella non è esente da questi segni della tradizione.
Nel lontano passato della cristianizzazione è stato inglobato nel Battistero romanico un singolare bassorilievo litico d’origine incerta ma verosimilmente d’età romana. Raffigura due misteriosi personaggi di sesso maschile, entrambi nudi e coi genitali in mostra, uno con una fronda in mano e l’altro abbracciato ad una colonna dall’inequivocabile forma fallica.
Cosa rappresenti davvero questa singolare scultura non si è mai capito anche se i due fanciullini esibiscono anch’essi i genitali, sembrano voler agitare una fronda ed eseguire un passo di danza.
Nel 1881 lo storico Severino Pozzo sostenne che l’arcaica scultura avrebbe raffigurato l’eroico guerriero Ercole assieme al dio Bacco mentre Giuseppe Fontanella nella “Guida al Biellese nel turismo e nell’industria” lo ritiene “un bassorilievo marmoreo raffigurante Ercole con amorini, soggetto pagano dell’epoca dei Cesari, probabilmente proveniente da tombe romane preesistenti nelle adiacenze”.
Un noto esperto come Gianni Carlo Sciolla ha più correttamente spiegato che nella lastra sono raffigurati due “eroti”, dunque dei personaggi al centro delle pratiche sessuali (anche oscene) del mondo pagano.
L’erudito nobiluomo britannico Richard Payne Knight che alla fine del ‘700 scopriva sorpreso la sopravvivenza di culti fallici nel santuario di Cosma e Damiano ad Isernia notava acutamente che il membro maschile è stato l’unico organo umano raffigurato come dotato di vita indipendente. In effetti, uccelli-mostri e satiri sono i soli “mostri” raffigurati in scene con personaggi umani e la scultura biellese non fa eccezione; accentua anzi l’autonomia del fallo, raffigurato gigantesco, turgido e ritto.
La lastra con la colonna fallica benché d’origine oscura non è stata collocata in un museo ma orna il portale d’ingresso del più antico edificio religioso cittadino ancora in piedi, il battistero preromanico posto accanto al duomo della città.
Perché i biellesi abbiano cristianizzato proprio questa lapide non è dato sapere.
Ma ad accrescere il mistero di quella collocazione si aggiunge il fatto che al centro della piazza del duomo su cui si affaccia il Battistero è stata collocata nell’Ottocento una fontana sovrastata da una statua dello scultore biellese Giuseppe Bottinelli che raffigura Mosè con le famose “corna di luce” che gli spuntano dal capo come nell’analoga statua di Michelangelo e che Knight aveva interpretato come un esempio di permanenza del modello satirico-priapesco. Costretto a rappresentare nel marmo l’immateriale chiarore lo scultore, senza volerlo, doveva fornire al personaggio biblico le protuberanze sul capo che paiono davvero l’attributo più rappresentativo dell’ambivalente natura animalesca di creature ibride come i satiri sessualmente disinibiti di Roma antica o i “Salvèj” dell’emarginazione montana.
(da biellanews)
mercoledì 29 maggio 2019
L'affresco di San Giorgetto a Verona
MARIA HORTUS CONCLUSUS nell'affresco di Falconetto a Verona.
Da quando, nel XII secolo, Bernardo di Chiaravalle disserrò lo scrigno del Cantico dei Cantici e il soldato, tra una guerra e l’altra, lentamente apprese a gioire dei richiami di cuor gentile, divenne naturale applicare a Maria il simbolo dell’«Hortus Conclusus»
L’Hortus Conclusus è prima di tutto il paradiso terrestre:
un luogo circondato da mura o da siepi, quindi invalicabile, riservato a chi lo abita. Puro da ogni contaminazione, offre riparo, intimità, pienezza di sé...un luogo protetto e privilegiato, riservato a Dio e alle anime divine che nel Paradiso entrano in rapporto privilegiato con Dio.
Ma il giardino chiuso di Maria altro non è che il simbolo della sua verginità, spirituale piuttosto che materiale, il giardino è l'utero, paradisiaco, con la porta aurea ( i cinesi la chiamano la porta d'oro, la vagina) sigillata .....perchè ogni porta si apre solo con la giusta chiave.
E per chi entra nell'hortus conclusus della vergine di spirito, si apriranno le porte del paradiso.
Giardino chiuso tu sei, fontana sigillata.......in ogni Donna, celata, è la via che conduce l'uomo al Divino.
Da quando, nel XII secolo, Bernardo di Chiaravalle disserrò lo scrigno del Cantico dei Cantici e il soldato, tra una guerra e l’altra, lentamente apprese a gioire dei richiami di cuor gentile, divenne naturale applicare a Maria il simbolo dell’«Hortus Conclusus»
L’Hortus Conclusus è prima di tutto il paradiso terrestre:
un luogo circondato da mura o da siepi, quindi invalicabile, riservato a chi lo abita. Puro da ogni contaminazione, offre riparo, intimità, pienezza di sé...un luogo protetto e privilegiato, riservato a Dio e alle anime divine che nel Paradiso entrano in rapporto privilegiato con Dio.
Ma il giardino chiuso di Maria altro non è che il simbolo della sua verginità, spirituale piuttosto che materiale, il giardino è l'utero, paradisiaco, con la porta aurea ( i cinesi la chiamano la porta d'oro, la vagina) sigillata .....perchè ogni porta si apre solo con la giusta chiave.
E per chi entra nell'hortus conclusus della vergine di spirito, si apriranno le porte del paradiso.
Giardino chiuso tu sei, fontana sigillata.......in ogni Donna, celata, è la via che conduce l'uomo al Divino.
A Roma la Basilica rupestre di San Valentino
BASILICA DI SAN VALENTINO (Chiesa rupestre – IV secolo)
Località: Roma-Pinciano (RM)
La basilica di San Valentino risale al IV secolo, epoca in cui ampliando la galleria principale delle preesistenti omonime catacombe, venne creata una nuova cripta poi decorata ed arricchita con splendidi affreschi dell’iconografia cristiana. L’edificio, a tre navate, constava di un’ampia abside semicircolare, addossata alla collina e sopraelevata rispetto al vecchio piano di calpestio. Venne ancora modificata nel VII secolo, rialzando il presbiterio e creando una piccola esedra in corrispondenza dell’altare, dalla quale tramite una fenestella confessionis i fedeli potevano osservare le reliquie del Santo, almeno fino a quando non saranno traslate in Santa Prassede con il conseguente abbandono e declino della basilica ipogea. Per quanto concerne i rivestimenti pittorici altomedievali, concentrati per lo più nelle quattro pareti basilicali, in quella di fondo, i soggetti rappresentano il tema iconografico della Natività con al centro, inquadrato da una nicchia, il busto nimbato della Vergine Maria con in braccio il Bambino, a sinistra, la Visitazione di Maria ad Elisabetta, e sulla destra, la levatrice Salomè nell’atto di lavare il Bambino; mentre sul lato destro della parete di fondo, frammenti di una Crocifissione si accompagnano ad altri, sulla parete opposta, di un san Giovanni che sorregge un codex....
Località: Roma-Pinciano (RM)
La basilica di San Valentino risale al IV secolo, epoca in cui ampliando la galleria principale delle preesistenti omonime catacombe, venne creata una nuova cripta poi decorata ed arricchita con splendidi affreschi dell’iconografia cristiana. L’edificio, a tre navate, constava di un’ampia abside semicircolare, addossata alla collina e sopraelevata rispetto al vecchio piano di calpestio. Venne ancora modificata nel VII secolo, rialzando il presbiterio e creando una piccola esedra in corrispondenza dell’altare, dalla quale tramite una fenestella confessionis i fedeli potevano osservare le reliquie del Santo, almeno fino a quando non saranno traslate in Santa Prassede con il conseguente abbandono e declino della basilica ipogea. Per quanto concerne i rivestimenti pittorici altomedievali, concentrati per lo più nelle quattro pareti basilicali, in quella di fondo, i soggetti rappresentano il tema iconografico della Natività con al centro, inquadrato da una nicchia, il busto nimbato della Vergine Maria con in braccio il Bambino, a sinistra, la Visitazione di Maria ad Elisabetta, e sulla destra, la levatrice Salomè nell’atto di lavare il Bambino; mentre sul lato destro della parete di fondo, frammenti di una Crocifissione si accompagnano ad altri, sulla parete opposta, di un san Giovanni che sorregge un codex....
lunedì 27 maggio 2019
Il nostos dei Dardani
Gli
Etruschi definiscono sè stessi "Dardani", dimostrando di essere al
corrente della leggenda, tramandata da Virgilio, secondo la quale
Dardano sarebbe partito dall'Etruria, (da Cortona, per la precisione)
per fondare Troia: il viaggio di Enea in Italia era quindi un ritorno
alle origini.
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domenica 26 maggio 2019
Il farmaco risolutore
La teriaca: ‘un rimedio per ogni male ‘
l nome di teriaca deriverebbe dal greco theriaké, che vuol dire “rimedio contro i morsi di animali velenosi . Si trattava di un intruglio spacciato per medicamento ma destinato a tener banco per oltre duemila anni. Sarebbe stato inventato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone , il quale descrisse la sua ricetta in 175 versi elegiaci, a che temendo di essere avvelenato, si fece preventivamente preparare dal suo medico cretese un pharmakòn da prendere in piccole dosi “per immunizzarsi da ogni veleno”
Andromaco non avrebbe fatto altro che aggiungere al “polifarmaco” carne di vipera, che faceva cuocere in olio, vino e aceto. In complesso, la sua teriaca prevedeva 54 ingredienti diversi a seconda delle indicazioni: ad esempio incenso, mirra, oppio, pepe nero, anice, cannella, genziana, valeriana, finocchio.
In epoche successive, a che il composto finale risultasse una vera e propria panacea, le componenti giunsero anche a superare il centinaio, ciascuna scelta in base alle sue presunte proprietà terapeutiche: ad esempio, il succo di liquirizia “addolcisce le asprezze della Canna del Polmone”; lo zafferano “rallegra il cuore”; l’iris “alleggerisce gli umori vischiosi e grossolani”, l’agarico “purga il flegma e tutti gli umori grossolani”, il cinnamomo “dà impulso agli animi”.
Va detto per inciso che mentre la triaca destinata ai benestanti conteneva un numero più o meno elevato di ingredienti, quella destinata alle classi meno abbienti poteva contarne anche molti di meno. Tant’è che la cosiddetta “teriaca dei poveri” aveva assai poco a che fare con la teriaca vera e propria ed era semplicemente un estratto acquoso di bacche di ginepro.
Ma l’ingrediente che non poteva assolutamente mancare era la carne di vipera. Perché? Il “razionale” su cui si basava il suo impiego si rifaceva al principio ippocratico del similia similibus, secondo cui è possibile curare una malattia somministrando piccole dosi della sostanza che sempre ippocratico, del contraria contrariis .
Come “controprova” delle virtù antiveleno della carne viperina venivano evidenziati due fatti: in primo luogo le vipere non vengono uccise dal proprio veleno, per cui questo dev’essere dotato di virtù protettive contro se stesso; per di più le vipere, vivendo a lungo nella profondità della terra senza nutrirsi di alcun cibo, attirano a sé “gli spiriti solforei e vegetabili, li quali compartiscono l’anima et la vita a tutte le cose”, caricandosi “di un balsamo prezioso et radicale nel grandissimo seno della Natura rinchiuso”, assumendo quindi mirabili proprietà terapeutiche. Ergo, la persona che assume carne di vipera viene protetta da qualsiasi agente “tossico” causa di malattia.
Il commercio delle vipere era pertanto quanto mai fiorente; in Italia esse arrivavano plenis navibus dall’Egitto. Galeno il grande medico greco vissuto a Roma nel II secolo d.C., nutriva tanta fiducia nella teriaca da definirla domina medicinarum; ne preparò varie dosi per l’imperatore Marco Aurelio, che temeva anche lui di essere avvelenato.
A dare un’idea di quali e quante fossero le indicazioni della teriaca basta questa lista relativa ad un solo tipo di teriaca in uso in Francia alla fine del Seicento: morso o puntura di animali velenosi, peste, varicella, morbillo, dissenteria, colera, coliche, mal di stomaco, indigestioni, dolori uterini, e articolari, febbri, paralisi, epilessia, ictus cerebrale, impotenza sessuale. La fede nel veleno di vipera come antidoto era talmente radicata, che, sempre in quell’epoca, per guarire dalla malaria era uso mangiare carne di capponi morti in seguito al morso di vipere.
L’uso della teriaca continuò trionfale fino almeno alla metà dell’Ottocento figurando in testa alle hit dei farmaci ufficiali. Nella Repubblica di Venezia veniva preparata una volta l’anno con una pomposa cerimonia alla presenza dei Priori e dei Consiglieri del medici, e a Bologna dinanzi al popolo e alle massime Autorità nel cortile dell’Archiginnasio. E già a quell’epoca era d’obbligo ogni anno una specie di “sperimentazione pubblica” in vivo: si faceva mordere un animale da una vipera, e se esso non moriva voleva dire che la teriaca era di ottima qualità, e che era quella pertanto… una buona annata. Tutti esultavano per i buoni affari che si prospettavano: medici, farmacisti, autorità sanitarie e …ciarlatani.
Per questi ultimi in particolare era piuttosto facile eludere le ferree leggi esistenti per l’“esclusiva” della preparazione e del commercio della teriaca. Una norma contenuta nello Statuto di Pisa del 1453, ad esempio, precisa che “niuna persona sottoposta a tale arte non possa comperare né fare comperare per nessuno triacha di Genova o di qualunque altro luogo fossi fatta fora della città di Pisa, et solamente debba vendere alla sua bottega triacha fatta in Pisa et mescolata insieme co medici et tutta l’Auctorità di detta arte”, pena il pagamento di multe salatissime. Tali norme rimasero valide per tutto il 1700. La teriaca che giungeva clandestinamente a Firenze da Genova veniva sequestrata e arsa pubblicamente, e lo speziale condannato a pagare 20 soldi di multa per libbra di teriaca acquistata fuori città. Lo stesso avveniva a Venezia, ove gli ordinamenti prevedevano leggi severe -addirittura il rogo, per chi fosse stato scoperto a commerciare preparazioni sofisticate.
Nonostante i tanti dubbi che nei decenni andavano addensandosi sulla reale efficacia della teriaca, facendole perdere gradualmente terreno, ancora nel 1904 l’autorevole Bulletim de Thérapeutique assicurava che la teriaca “è dotata di virtù antisettiche e diuretiche”. Difficile anche per l’Uomo di Scienza rinunciare alle proprie illusioni.
l nome di teriaca deriverebbe dal greco theriaké, che vuol dire “rimedio contro i morsi di animali velenosi . Si trattava di un intruglio spacciato per medicamento ma destinato a tener banco per oltre duemila anni. Sarebbe stato inventato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone , il quale descrisse la sua ricetta in 175 versi elegiaci, a che temendo di essere avvelenato, si fece preventivamente preparare dal suo medico cretese un pharmakòn da prendere in piccole dosi “per immunizzarsi da ogni veleno”
Andromaco non avrebbe fatto altro che aggiungere al “polifarmaco” carne di vipera, che faceva cuocere in olio, vino e aceto. In complesso, la sua teriaca prevedeva 54 ingredienti diversi a seconda delle indicazioni: ad esempio incenso, mirra, oppio, pepe nero, anice, cannella, genziana, valeriana, finocchio.
In epoche successive, a che il composto finale risultasse una vera e propria panacea, le componenti giunsero anche a superare il centinaio, ciascuna scelta in base alle sue presunte proprietà terapeutiche: ad esempio, il succo di liquirizia “addolcisce le asprezze della Canna del Polmone”; lo zafferano “rallegra il cuore”; l’iris “alleggerisce gli umori vischiosi e grossolani”, l’agarico “purga il flegma e tutti gli umori grossolani”, il cinnamomo “dà impulso agli animi”.
Va detto per inciso che mentre la triaca destinata ai benestanti conteneva un numero più o meno elevato di ingredienti, quella destinata alle classi meno abbienti poteva contarne anche molti di meno. Tant’è che la cosiddetta “teriaca dei poveri” aveva assai poco a che fare con la teriaca vera e propria ed era semplicemente un estratto acquoso di bacche di ginepro.
Ma l’ingrediente che non poteva assolutamente mancare era la carne di vipera. Perché? Il “razionale” su cui si basava il suo impiego si rifaceva al principio ippocratico del similia similibus, secondo cui è possibile curare una malattia somministrando piccole dosi della sostanza che sempre ippocratico, del contraria contrariis .
Come “controprova” delle virtù antiveleno della carne viperina venivano evidenziati due fatti: in primo luogo le vipere non vengono uccise dal proprio veleno, per cui questo dev’essere dotato di virtù protettive contro se stesso; per di più le vipere, vivendo a lungo nella profondità della terra senza nutrirsi di alcun cibo, attirano a sé “gli spiriti solforei e vegetabili, li quali compartiscono l’anima et la vita a tutte le cose”, caricandosi “di un balsamo prezioso et radicale nel grandissimo seno della Natura rinchiuso”, assumendo quindi mirabili proprietà terapeutiche. Ergo, la persona che assume carne di vipera viene protetta da qualsiasi agente “tossico” causa di malattia.
Il commercio delle vipere era pertanto quanto mai fiorente; in Italia esse arrivavano plenis navibus dall’Egitto. Galeno il grande medico greco vissuto a Roma nel II secolo d.C., nutriva tanta fiducia nella teriaca da definirla domina medicinarum; ne preparò varie dosi per l’imperatore Marco Aurelio, che temeva anche lui di essere avvelenato.
A dare un’idea di quali e quante fossero le indicazioni della teriaca basta questa lista relativa ad un solo tipo di teriaca in uso in Francia alla fine del Seicento: morso o puntura di animali velenosi, peste, varicella, morbillo, dissenteria, colera, coliche, mal di stomaco, indigestioni, dolori uterini, e articolari, febbri, paralisi, epilessia, ictus cerebrale, impotenza sessuale. La fede nel veleno di vipera come antidoto era talmente radicata, che, sempre in quell’epoca, per guarire dalla malaria era uso mangiare carne di capponi morti in seguito al morso di vipere.
L’uso della teriaca continuò trionfale fino almeno alla metà dell’Ottocento figurando in testa alle hit dei farmaci ufficiali. Nella Repubblica di Venezia veniva preparata una volta l’anno con una pomposa cerimonia alla presenza dei Priori e dei Consiglieri del medici, e a Bologna dinanzi al popolo e alle massime Autorità nel cortile dell’Archiginnasio. E già a quell’epoca era d’obbligo ogni anno una specie di “sperimentazione pubblica” in vivo: si faceva mordere un animale da una vipera, e se esso non moriva voleva dire che la teriaca era di ottima qualità, e che era quella pertanto… una buona annata. Tutti esultavano per i buoni affari che si prospettavano: medici, farmacisti, autorità sanitarie e …ciarlatani.
Per questi ultimi in particolare era piuttosto facile eludere le ferree leggi esistenti per l’“esclusiva” della preparazione e del commercio della teriaca. Una norma contenuta nello Statuto di Pisa del 1453, ad esempio, precisa che “niuna persona sottoposta a tale arte non possa comperare né fare comperare per nessuno triacha di Genova o di qualunque altro luogo fossi fatta fora della città di Pisa, et solamente debba vendere alla sua bottega triacha fatta in Pisa et mescolata insieme co medici et tutta l’Auctorità di detta arte”, pena il pagamento di multe salatissime. Tali norme rimasero valide per tutto il 1700. La teriaca che giungeva clandestinamente a Firenze da Genova veniva sequestrata e arsa pubblicamente, e lo speziale condannato a pagare 20 soldi di multa per libbra di teriaca acquistata fuori città. Lo stesso avveniva a Venezia, ove gli ordinamenti prevedevano leggi severe -addirittura il rogo, per chi fosse stato scoperto a commerciare preparazioni sofisticate.
Nonostante i tanti dubbi che nei decenni andavano addensandosi sulla reale efficacia della teriaca, facendole perdere gradualmente terreno, ancora nel 1904 l’autorevole Bulletim de Thérapeutique assicurava che la teriaca “è dotata di virtù antisettiche e diuretiche”. Difficile anche per l’Uomo di Scienza rinunciare alle proprie illusioni.
Il popolo dimenticato dei Cimbri: la storia degli ultimi “Barbari” d’Italia
Mappa della distribuzione storica (in giallo) e attuale (in arancio) della minoranza cimbra. Immagine via Wikipedia:
https://www.vanillamagazine.it/il-popolo-dimenticato-dei-cimbri-la-storia-degli-ultimi-barbari-d-italia/?fbclid=IwAR2OD9xLhnBNYOxTtWsvPbSYQLXsVbvuEpbcfsju04vmkVokMNVnFy2uz1g
A Chester un antichissimo Santuario Romano dedicato alla Dea Minerva
A Chester si trova un antichissimo Santuario Romano dedicato alla Dea Minerva
l santuario di Minerva è l’unico luogo di culto romano scavato nella roccia sopravvissuto in Gran Bretagna
Il santuario si trova precisamente nella zona di Handbridge, che è separata dall’antica Deva Victrix dal fiume Dee. I lavoratori della XX Legione Valeria Victrix (che completarono la costruzione di Deva Victrix dopo i primi lavori della II Legione Adiutrix) portavano i propri omaggi a Minerva e pregavano affinché li proteggesse dal loro rischioso lavoro
https://www.vanillamagazine.it/a-chester-si-trova-un-antichissimo-santuario-romano-dedicato-alla-dea-minerva..................................................................................................................../?fbclid=IwAR3YDof8H4ZuZwfbFHaNOWnPz8WOzzxSadk3KWjhZv2cZzzc2vwuTyB-yc0
sabato 25 maggio 2019
CATTEDRALE SAINT-JULIEN DU MANS
sacri luoghi di energia...
La cattedrale gotica di Saint-Julien du Mans è romanica nella navata e gotica nel coro e nel transetto; la caratteristica di questa cattedrale è un menhir alto 4,55 m conosciuto localmente come la Pierre Saint Julien (Pietra di San Giuliano), posto sull’angolo destro della facciata ovest. L’invecchiamento naturale della pietra arenaria ha dato la superficie del menhir, un aspetto insolito, vista nella giusta angolazione, e nella giusta luce, per tutti sembra essere un uomo vestito con mantello e cappuccio che staziona davanti all’ingresso a questo luogo sacro. Le Mans anticamente popolata dai Celti è situata alla confluenza dei fiumi Sarthe e Huisne, sullo sperone roccioso che sin dall’epoca gallica ha accolto la città fortificata, “la collina bianca fortificata”. Sin dai tempi antichi, si trattava di un luogo sacro, come lo testimonia il menhir eretto 4000 - 5000 anni prima della nostra era. Questo simbolo considerato dai Cristiani, pagano, è stato salvato nel IV secolo dalla distruzione da San Giuliano, che ha posto una croce su di esso. Il menhir faceva parte di un dolmen chiamato la pietra latte. Il menhir di Le Mans fu affiancato dalla cattedrale Saint-Julien durante la sua costruzione che era posto davanti al portale reale. La pietra è stata trasferita nella facciata ovest nel 1778, dopo che il dolmen di cui aveva fatto parte fu fatto demolire dai canonici. Da 7.000 anni, in questa piazza, il menhir veglia sul destino della città, degli abitanti e dei visitatori.
Gli antichi, sapevano che le radiazioni locali positive potevano essere imbrigliate, rafforzate, rese ancora più potenti, e questo doveva essere fatto attraverso la forma e i materiali dell’edificio e l’orientamento dell’edificio. Porre in determinati luoghi pietre, torri, colonne o anche piantare un albero equivaleva a fare un vero e proprio lavoro di agopuntura per imbrigliare e mantenere sane le forze vitali. Il luogo di culto era uno strumento per conservare e rendere ancora più valide le forze naturali, una vera e propria cassa di risonanza. Dai menhir, che collocati a terra, attiravano a se le energie cosmiche, fino a riequilibrare la salubrità del luogo, si è arrivati via via alle cattedrali, che con le loro strutture, hanno non solo riequilibrato il tasso vibrazionale, ma anzi, l’hanno elevato. I costruttori di templi di ogni epoca, hanno costantemente affinato le loro tecniche fino al punto di manipolare, indirizzare e trasmettere le energie in punti prestabiliti. I Druidi e i Celti innalzavano questi Menhir, che sono delle vere e proprie iniezioni del Cielo dentro la Terra, in luoghi dove si trovano delle sorgenti terapeutiche. Le possenti torri poste in facciata delle cattedrali gotiche, possono essere viste come possenti menhir realizzati dall’uomo. In varie parti del mondo, con culture molto differenti, si ritrova la medesima tradizione di associare alle grandi pietre, blocchi monolitici infissi nel terreno, la capacità di propiziare la fertilità a quelle donne che si recano a strofinarsi sopra, per tale motivo erano chiamate pietre di fecondità. Queste pietre hanno anche proprietà taumaturgiche, come quelle di lenire reumatismi e dolori in genere. Le pietre sono da sempre considerate le “ossa della Madre Terra”, come l’acqua ne è il sangue, e non sono altro che connettori naturali che attingono alle correnti telluriche sotterranee e le accumulano come condensatori, irradiandone all’esterno i loro benefici influssi.
Questo patrimonio rischia di venire represso attenuato in quest’epoca cosiddetta moderna: si eseguono interventi tecnici che hanno lo scopo di spegnere cattedrali, come ad esempio Notre-Dame di Chartres , Notre-Dame di Parigi, Santiago di Compostela e Santa Maria di Collemaggio, per annullare antichi luoghi d’iniziazione. Vengono colpiti luoghi sacri naturali o costruiti dagli antichi iniziati. Viene persino usato il “martello” del turismo di massa per abbattere con le folle di persone inconsce e disattente il livello vibrazionale di certi luoghi, come le piramidi, le cattedrali gotiche, o i grandi templi...
La cattedrale gotica di Saint-Julien du Mans è romanica nella navata e gotica nel coro e nel transetto; la caratteristica di questa cattedrale è un menhir alto 4,55 m conosciuto localmente come la Pierre Saint Julien (Pietra di San Giuliano), posto sull’angolo destro della facciata ovest. L’invecchiamento naturale della pietra arenaria ha dato la superficie del menhir, un aspetto insolito, vista nella giusta angolazione, e nella giusta luce, per tutti sembra essere un uomo vestito con mantello e cappuccio che staziona davanti all’ingresso a questo luogo sacro. Le Mans anticamente popolata dai Celti è situata alla confluenza dei fiumi Sarthe e Huisne, sullo sperone roccioso che sin dall’epoca gallica ha accolto la città fortificata, “la collina bianca fortificata”. Sin dai tempi antichi, si trattava di un luogo sacro, come lo testimonia il menhir eretto 4000 - 5000 anni prima della nostra era. Questo simbolo considerato dai Cristiani, pagano, è stato salvato nel IV secolo dalla distruzione da San Giuliano, che ha posto una croce su di esso. Il menhir faceva parte di un dolmen chiamato la pietra latte. Il menhir di Le Mans fu affiancato dalla cattedrale Saint-Julien durante la sua costruzione che era posto davanti al portale reale. La pietra è stata trasferita nella facciata ovest nel 1778, dopo che il dolmen di cui aveva fatto parte fu fatto demolire dai canonici. Da 7.000 anni, in questa piazza, il menhir veglia sul destino della città, degli abitanti e dei visitatori.
Gli antichi, sapevano che le radiazioni locali positive potevano essere imbrigliate, rafforzate, rese ancora più potenti, e questo doveva essere fatto attraverso la forma e i materiali dell’edificio e l’orientamento dell’edificio. Porre in determinati luoghi pietre, torri, colonne o anche piantare un albero equivaleva a fare un vero e proprio lavoro di agopuntura per imbrigliare e mantenere sane le forze vitali. Il luogo di culto era uno strumento per conservare e rendere ancora più valide le forze naturali, una vera e propria cassa di risonanza. Dai menhir, che collocati a terra, attiravano a se le energie cosmiche, fino a riequilibrare la salubrità del luogo, si è arrivati via via alle cattedrali, che con le loro strutture, hanno non solo riequilibrato il tasso vibrazionale, ma anzi, l’hanno elevato. I costruttori di templi di ogni epoca, hanno costantemente affinato le loro tecniche fino al punto di manipolare, indirizzare e trasmettere le energie in punti prestabiliti. I Druidi e i Celti innalzavano questi Menhir, che sono delle vere e proprie iniezioni del Cielo dentro la Terra, in luoghi dove si trovano delle sorgenti terapeutiche. Le possenti torri poste in facciata delle cattedrali gotiche, possono essere viste come possenti menhir realizzati dall’uomo. In varie parti del mondo, con culture molto differenti, si ritrova la medesima tradizione di associare alle grandi pietre, blocchi monolitici infissi nel terreno, la capacità di propiziare la fertilità a quelle donne che si recano a strofinarsi sopra, per tale motivo erano chiamate pietre di fecondità. Queste pietre hanno anche proprietà taumaturgiche, come quelle di lenire reumatismi e dolori in genere. Le pietre sono da sempre considerate le “ossa della Madre Terra”, come l’acqua ne è il sangue, e non sono altro che connettori naturali che attingono alle correnti telluriche sotterranee e le accumulano come condensatori, irradiandone all’esterno i loro benefici influssi.
Questo patrimonio rischia di venire represso attenuato in quest’epoca cosiddetta moderna: si eseguono interventi tecnici che hanno lo scopo di spegnere cattedrali, come ad esempio Notre-Dame di Chartres , Notre-Dame di Parigi, Santiago di Compostela e Santa Maria di Collemaggio, per annullare antichi luoghi d’iniziazione. Vengono colpiti luoghi sacri naturali o costruiti dagli antichi iniziati. Viene persino usato il “martello” del turismo di massa per abbattere con le folle di persone inconsce e disattente il livello vibrazionale di certi luoghi, come le piramidi, le cattedrali gotiche, o i grandi templi...
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