giovedì 29 agosto 2013

L'equivoco delle apparizioni della Dea Bianca alla Maria cristiana

In origine era la DEA BIANCA poi i cristiani la sostituirino forzatamente con Maria o Miryam  e i luoghi sacri dei pagani, dove questa antichissima Dea era venerata, furono sostituiti da santuari mariani. Una lenta sostituzione , una confusione voluta per alterare il fenomeno e dargli un connotato essenzialmente cristiano, anche se la DEA BIANCA si manifesta da sempre.

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                                                       Immagine della Madonna di Guadalupe

Molti sono i dubbi che ancora avvolgono la fondazione del santuario di Nostra Signora di Guadalupe, presso Città del Messico, e la collina di Tepeyac sulla quale sorge, e che prima della conquista spagnola era sede di un tempio della dea Tonatzín, la "venerata Madre" degli aztechi. 

C'è chi osserva - con ragione - che molti santuari mariani del nostro Mediterraneo sorgono là dove, prima della vittoria del cristianesimo sui culti pagani, si trovavano templi dedicati alla Magna Mater Cibele, alla Virgo Diana, alla Pothnia Theron Afrodite, alla Basilissa Theon Hera, a Iside Stella Maris. Sincretismo, grida con scandalo qualche bell'anima. Acculturazione, replicano gli antropologi

Nell’area andina la Vergine Maria viene abitualmente identificata, nel mondo dei contadini e dei montanari, con la Pachamama, la "Madre Terra". L’eliminazione delle chiese dedicate alla Madonna è un "vanto" dei missionari delle sette protestanti che, negli ultimi trent’anni - ambiguamente sostenuti dalla lobby della United Fruits, dai gorillas come il tristo generale Rios Montt e dalla Cia -, sono riusciti a convertire la metà dei contadini guatemaltechi fino ad allora cattolici e, come sottolinea la Christian Coalition, "seguaci di residuali culti sincretistici tra paganesimo e superstizione cattolica".

A Cuzco, assolata antica capitale del Perù, a 3.476 metri d'altezza, ogni anno si celebra la festa del Corpus Domini, qui dedicata anche alla patrona locale, sant' Anna. La processione che si snoda per le strade mostra una formidabile commistione di abiti, arredi e simboli barocchi e quechua, ovvero incaici. A Cuzco, al pari di Guadalupe, basta guardarsi intorno per rendersi conto di essere circondati da indios discendenti degli aztechi e dei quechua

Attenzione: qui non c'è nulla della paccottiglia per turisti delle riserve indiane statunitensi. A Cuzco si celebra, né più né meno, la festa dell'Inti Raimi, il sole incaico che si riflette negli ostensori raggianti dell’oreficeria barocca spagnola e che è assolutamente il Christus Sol dell'impero romano e cristiano: nel quale tuttavia gli eredi dell’Inca si riconoscono al punto che i loro maggiorenti portano ancora con fierezza le corone adorne degli amaru, i serpenti rituali dell’antico culto.

Guadalupe e Cuzco sono solo due esempi di un’ “'acculturazione pagano-cattolica” che non ha nulla a che fare con il sincretismo. Con tale secondo termine s'intende la commistione di credenze di culti: non v’è dubbio, ad esempio, che nel voodoo haitiano o nell'umbanda brasiliana si presentino forme sincretistiche affascinanti ma religiosamente parlando pericolose, nelle quali angeli e santi cristiani vengono mischiati con le divinità africane degli ex-schiavi. A Guadalupe, sotto la tilma (mantello) d'agave e il volto brunito d'una ragazza azteca, quella che si venera non è la dea Tonatzín, bensì con certezza la Vergine Maria, e non c'è campesino che lo ignori. E a Cuzco l'lnti Raimi della tradizione incaica è Gesù di Nazareth, morto e risorto, Re e Giudice. 

La guatemalteca Rigoberta Mençhu ci va da anni ripetendo che gli spagnoli hanno rubato l'anima agli indios. Potremmo risponderle, con i versi di Pablo Neruda - insospettabile di tenerezza nei confronti dei conquistadores e della Chiesa -, facendole notare come lei stessa, tessendo le lodi dell' antico e pacifico popolo amerindo precolombiano e formulando le sue durissime accuse contro gli invasori, si esprima a suo agio nella loro lingua: e non perché abbia dimenticato l'idioma materno, ma perché sente quella lingua profondamente connaturata al suo essere

Confrontando con ciò che è accaduto negli Stati Uniti ai nativi, se ne deduce che i conquistatori spagnoli hanno certo imposto il loro idioma, ma non hanno mai preteso di "rubare l'anima"sottraendo agli indios le loro lingue originarie (com'è accaduto ai nativi americani). E questo perché, almeno nella Mesoamerica, la conquista non è stata accompagnata dal genocidio

È fuor di dubbio che milioni di indios siano morti, nei primi cento anni, a causa delle fatiche sopportate nel lavoro forzato minerario e del contagio delle malattie di cui gli iberici erano portatori. Ma il carattere generalizzato del meticciato presente tra Messico e Bolivia dimostra che mai le autorità spagnole pensarono di ricorrere al sistematico sterminio. Questo avvenne, è vero, nell'Ottocento tra Argentina e Cile, ma ne fu responsabile il ceto dirigente delle borghesie criollas - quei sudamericani d'origine iberica ribelli alle leggi della corona spagnola garantiste nei confronti degli indigeni - desiderose di adeguarsi alla politica statunitense. 

Non c'è dubbio che la conquista ispano-portoghese dell'America meridionale sia coincisa con l'avvio di un lungo periodo di schiavizzazione e di stragi. Ma gli ingredienti fondamentali di una politica di massacro, per poterla definire genocida, sono la sistematicità e l'intenzionalità. Va riconosciuto che ciò non accadde nei vicereami che la corona di Spagna stabilì nel Nuovo Mondo all'indomani della conquista del Messico da parte di Hernan Cortés, tra 1519 e 1521, e del Perù da parte del più feroce Francisco Pizarro, tra 1531 e 1534, mentre tra 1535 e 1537 Almagro sottometteva la Bolivia, tra 1535 e 1538 Quesada conquistava la Colombia, nel 1544 Orellana esplorava il Rio delle Amazzoni e tra 1540 e 1554 Valdivia giungeva in Cile. 

Insieme con Cortés c'erano veterani delle "guerre more" dell'Andalusia della fine del Quattrocento: e non c'è dubbio che tra i rudi conquistadores spirasse una specie di “vento di crociata”.Quando Cortés dovette assistere, a Tenochtitlan (Città del Messico) al sacrificio di migliaia di indios prigionieri di guerra degli aztechi, che venivano squartati e ai quali veniva strappato il cuore ancora palpitante, il duro ma generoso cavaliere si convinse di assistere a una cerimonia demoniaca. E si può comprendere come intervenisse per porvi fine. 

Cortés vinse la sua guerra contro gli aztechi militarizzando indios che, come i vicini tlaxlaltechi, odiavano i loro oppressori. Ma, a parte gli stermini cui si dettero i conquistadores, la corona di Spagna e i suoi funzionari applicarono letteralmente il principio enunziato col trattato di Tordesillas del 1494, che fissava a 370 miglia a ovest delle Azzorre la linea verticale di demarcazione tra gli imperi spagnolo (a ovest) e portoghese (a est): “A Dio le anime, al re la terra”. Da allora conquistadores e missionari - soprattutto francescani e domenicani, poi gesuiti - procedettero di pari passo, per quanto spesso in disaccordo. 

In un primo tempo gli indios furono ridotti in schiavitù, per quanto fosse nato tra dotti e teologi un dibattito sulla legittimità di togliere ai popoli pagani la libertà e gli averi: cosa che la filosofia di Tommaso d'Aquino negava con decisione, in quanto l'una e gli altri appartenevano al diritto naturale

Già dal terzo decennio del XVI secolo il Paese venne diviso in encomiendas, cioè in concessioni (in origine vitalizie) di territori a conquistadores e nobili o imprenditori provenienti dalla Spagna con il diritto di esigere tributi e prestazioni di lavoro che, in pratica, coincidevano con la schiavizzazione, a fronte dell' obbligo di provvedere alla “difesa” e all'evangelizzazione. 

Le cifre sui massacri e i decessi "naturali" parlano di molti milioni, ma si tratta di fonti poco attendibili. Certo è che, se l'ampiezza del fenomeno ci sfugge, la sua gravità è lampante. Del resto fin dal 1510 si era cominciato a importare schiavi dall' Africa per ovviare al diradarsi della popolazione india. 

La situazione si rivelò ben presto insostenibile, per quanto molti membri della Chiesa spagnola divenuti prelati nelle colonie d’oltreoceano, per complicità o per vigliaccheria, tacessero. A denunziarla fu il missionario domenicano Bartolomé de Las Casas, nato a Siviglia nel 1474, che nel 1516 il cardinale Francisco de Cisneros aveva nominato "Protettore degli indios". In seguito alle sue denunzie, riassunte nel trattato Brevísima relación de la destrucción de las Indias, tra il 1542 e il 1545 l'imperatore Carlo V promulgò le Nuevas Leyes in base alle quali gli indios venivano dichiarati liberi vassalli della corona e s'istituivano aree protette nelle quali avrebbero potuto insediarsi con sicurezza (le reducciones).

Nel 1544 De Las Casas fu nominato vescovo di Chiapa, tra Messico e Guatemala, e come tale difese con coraggio i diritti dei nativi. Minacciato e perseguitato dagli encomenderos, fu costretto a tornare in Spagna, da dove continuò ad agire con energia fino alla scomparsa, nel 1566. L’imperatore lo ascoltava con grande attenzione: le violenze che De Las Casas denunziò andarono a costituire la materia prima della leyenda negra sulla ferocia del dominio spagnolo. Peccato solo che non sia mai esistito un De Las Casas protestante, che raccontasse cose raccapriccianti sulle violenze colonialistiche dei cristiani riformati inglesi e olandesi, dall'America all'Australia.

Molti furono i missionari che s'impegnarono nella distruzione delle tradizioni “pagane” degli indios; ma vi fu anche chi, come padre Cristóbal de Molina con il suo volume Fábulas y ritos de los Incas(1574), fece al contrario opera antropologica, contribuendo alla conservazione e allo studio delle tradizioni indigene. 

Vanno altresì ricordati i domenicani Francisco de Vitoria e Domingo de Soto e i gesuiti Luis de Molina e Francisco Suárez, che con profonda dottrina tanto teologica quanto giuridica ebbero il coraggio di contrastare le pretese della monarchia di Spagna e del Pontefice, tese ad affermare il diritto al “potere universale” delle massime autorità cattoliche, e contrapporre loro con forza le ragioni del “diritto naturale” degli indigeni alla libertà sociale e politica nonché alla proprietà economica.

Tra XVI e XVIII secolo l’America meridionale fu territorio di tensione e di scontro tra funzionari della corona e missionari da una parte, che proteggevano i nativi, e gli encomenderos e gli imprenditori crillos dall’altra, che li angariavano e li riducevano in schiavitù. Nel 1609 Filippo II di Spagna concesse alla Compagnia di Gesù il diritto di riunire gli indios guaranì in Paraguay nonché tra Brasile e Argentina settentrionale. 

Nacquero le reducciones, che si presentarono come piccole città-modello, organizzate secondo criteri che ricordano quelli proposti nella Città del Sole di Tommaso Campanella. Nel 1634 le missioni così gestite erano già 38, e raggruppavano 50 mila persone. Contro di esse si accanirono gruppi di avventurieri armati provenienti dalla città portoghese di Sao Paulo, i cosiddetti bandeirantes: ma gli indios, armati e istruiti dalla Compagnia di Gesù, li sconfissero ripetutamente. 

La situazione cambiò nel 1750, quando col Trattato di Madrid l'area delle reducciones passò sotto la sovranità portoghese. Il ministro illuminista marchese di Pombal, convinto protettore degli schiavisti che gli assicuravano crescita di ricchezza e di produzione e sostenuto da speculatori europei, riuscì ad avere ragione della resistenza india e nel 1759 cacciò dalla regione i gesuiti

Gli episodi sudamericani furono parte integrante della campagna di calunnia organizzata in tutta Europa dai governi "illuminati" contro i gesuiti, che condusse alla loro espulsione da molti Stati e infine alla soppressione della Compagnia, decretata nel 1773 da papa Clemente XIV. Voltaire, che aveva speculato acquistando cedole azionarie a sostegno della spedizione militare portoghese filoschiavista, non esitò a calunniare nel suo Candide i "reazionari" e "oscurantisti" gesuiti: le sue calunnie furono due secoli dopo riprese alla lettera nel racconto Il barone rampante di Italo Calvino, lettura che professori democratici amano propinare ai ragazzi del liceo. È così che, ancor oggi, s'insegna la storia.

Il messaggio araldico

Sul simbolismo araldico


di Giovanni Balducci




La scienza del blasone o Araldica è ritenuta una delle scienze ausiliarie della storia, essa consiste nello studio degli stemmi e può – a ragione – essere considerata come un sistema coerente di identificazione non solo di persone, ma anche di linee di discendenza.
L’Araldica europea, così come la conosciamo, è la creazione della società cavalleresca degli inizi del XII secolo: non a caso Robert Viel nel suo Le origini simboliche del blasone inizia il suo discorso sull’Araldica occidentale dal campo di battaglia di Hastings, teatro dello scontro tra Normanni e Sassoni, dove il duello mortale tra Guglielmo di Normandia e il re sassone Harold, diventa anche lo scontro tra i simboli del drago e delloswastika.È molto significativo, a proposito delle origini dell’araldica, che esse abbiano coinciso con i primi contatti tra cavalieri europei e mondo islamico, attraverso le crociate e l’occupazione araba della Spagna. Infatti l’uso di dipingere elementi grafico-simbolici su scudi, cotte d’armi, gualdrappe e bandiere, per identificare una persona, una famiglia, un gruppo, fu introdotto in Europa tra il 1100 e il 1115, dai Crociati, che lo avevano desunto dai Cavalieri Arabi in Terra Santa.Tale usanza prese facilmente piede in una società organizzata in classi sociali, mestieri, regni e comuni, e dove frequenti erano guerre e tornei. Il repertorio cui si attingeva per comporre un blasone era quello del simbolismo tradizionale tardo-antico e cristiano; diffuso era anche il ricorso a Bestiari, Lapidari ed Erbari. Mentre i grandi miti del Medioevo: il Graal, Artù, Lancillotto e Parsifal, segneranno l’introduzione di nuove figure fantastiche. Le figure presenti nel blasone si possono suddividere in Araldiche, Naturali e Ideali. Delle Figure Araldiche fanno parte le Partizioni, le Pezze Onorevoli e le Pezze Araldiche, come: la fascia, il palo, la banda, la sbarra, lo scaglione, il cantone, la losanga, il lambello, il capo, ecc. Nelle Figure Naturali rientrano quelle che fanno parte di Scienze come l’Antropologia, l’Avifauna, l’Ittiologia, la Geologia, l’Astrologia, la Meteorologia, e delle Arti e dei Mestieri. Delle Figure Ideali fanno parte le Figure della Agiologia, Demonologia, Mitologia ed i Mostri.Le figure spesso sono utilizzate quali “stemmi parlanti”, stemmi cioè che ricordino il cognome famigliare attraverso immagini (ad esempio: l’orso per la famiglia Orsini), ma possono essere anche utilizzate per il loro significato simbolico. È da precisare inoltre che in araldica la simbologia è sempre positiva e si riferisce quindi senza eccezione alle caratteristiche positive dell’animale, della pianta o dell’oggetto raffigurati.

L’Araldica ha avuto un ruolo fondamentale, sia in Oriente che in Occidente, anche nella conservazione del deposito iniziatico-simbolico. L’utilizzo dei simboli, infatti, fu un’arte che rispondeva a una pratica di trasmissione del significato e del sapere riguardante determinate conoscenze tra cui anzitutto l’ermetismo, come dimostrano gli interessanti studi di F. Cadet de Gassicourt e Du Roure de Paulir resi noti nell’operaL’hermetisme dans l’art heraldique, e quelli più recenti di Gerard de Sorval divulgati ne Le langage secret du blason.


Guardando alcune illustrazioni alchemiche, infatti, pare di trovarci di fronte a disegni araldici senza scudo: draghi, aquile bicipiti (aquila bicipite, simbolo, ad esempio, degli Asburgo, ma anche stante a designare la pietra filosofale), soli, lune, stelle, corone, gigli, croci, ecc. sono tutti presenti in entrambi i sistemi, ma è ovvio che se un qualsiasi simbolismo ermetico è individuabile nell’arte araldica, esso deve essere precedente all’araldica stessa e non viceversa.

A tal proposito, René Guénon in uno scritto afferma, riferendosi all’opera di J-H Probst-Biraben dal titoloL’ésotérisme héraldique et les symboles, come i simboli esoterici siano stati introdotti negli scudi dagli stessi nobili: «Che chierici e anche artigiani abbiano collaborato a volte alla composizione degli stemmi, è cosa di certo assai probabile; ma solo giacché c’erano tra loro e i nobili relazioni di ordine iniziatico di cui si incontrano indizi…soprattutto nella sfera dell’ermetismo».


sabato 24 agosto 2013

Cacciari e il colpo di grazia a Venezia

La morte di Venezia: un libro accusa Massimo Cacciari

Arriva finalmente in libreria Il politico della domenica. Ascesa e caduta di Massimo Cacciari. Da qualche tempo questo mirabile pamphlet dello storico veneziano Raffaele Liucci circolava per email: visto che non si era trovato un editore abbastanza anticonformista e coraggioso. Ma ora, grazie a Stampa Alternativa, con un euro si può comprare un piccolo, ma prezioso, pezzo di verità sull’Italia di oggi.
«La prima elezione a sindaco di Cacciari, nel lontano 1993 – ammette Liucci – suscitò in città enormi speranze (quorum ego), all’indomani della caduta in disgrazia del «doge» De Michelis. Ma il bilancio della sua discesa in campo è stato assai deludente, al pari di quanto accaduto con l’altra illustre discesa nell’agone politico, quella del cavalier Berlusconi». E oggi, continua lo storico:
«I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Venezia non è più una città in declino, ma una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo, simboleggiato dalle gigantesche navi da crociera che solcano il delicatissimo canale e la Giudecca e proseguono il loro viaggio costeggiando Piazza San Marco e rilasciando nell’aria l’equivalente di 14.000 veicoli al giorno».
Si dovesse scegliere un luogo-simbolo del disastro perpetrato dal Cacciari amministratore, bisognerebbe indicare il Lido: «Se Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, potesse un giorno non remoto risorgere e far ritorno al Lido, si sparerebbe un colpo di pistola alla tempia. Annichilito non da un efebico biondino polacco, ma dal paesaggio sanguinante». Perché «per reperire i fondi necessari alla costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, il Comune – allora retto da Cacciari e con l’attivo coinvolgimento dell’assessore al Patrimonio, Mara Rumiz – ha ceduto agli immobiliaristi spiagge, parchi, forti, antichi edifici: tutti beni, sulla carta, super tutelati».
Il disprezzo per le regole nutrito dal guru della sinistra televisiva italiana conosce il vertice nella incredibile vicenda del Ponte di Calatrava, sul Canal Grande: che «secondo Cacciari, avrebbe dovuto «far concorrenza a Trinità dei Monti», e «invece s’è rivelato un ponte maledetto, di debolissima ‘costituzione’. Realizzato talmente male (problemi di statica, un’ovovia mai partita, scivolosissimi gradini di vetro all’origine di numerosi infortuni, per i quali sono già state aperte una quarantina di cause per danni) che persino l’architetto spagnolo ne ha poi preso le distanze (lo stesso era accaduto con i progettisti del Palazzo del Cinema, che non avevano mai pianificato la distruzione di una bellissima pineta, per la cui salvezza s’erano invano mobilitati anche gli attori di Hollywood). Non basta. Il “quarto ponte sul Canal Grande” ha registrato pure un vertiginoso lievitare dei costi, pare dell’ottanta per cento. Tanto che, è notizia di questi ultimi mesi, sono stati citati in giudizio per danno erariale (quasi 4 milioni di euro), lo stesso Santiago Calatrava e tre ingegneri, responsabili del procedimento o direttori dei lavori. Ma il procuratore regionale della Corte dei Conti, Carmine Scarano, ha criticato pesantemente anche l’ex sindaco Cacciari, che avrebbe cercato di “nascondere [...] una serie incredibile di errori gravi commessi dalla stessa amministrazione a partire dalla fase progettuale”».
Dopo aver demolito il sindaco, Liucci atterra il filosofo, non fermandosi neanche di fronte al santuario intoccabile anche per i più liberi polemisti italiani, e cioè il potere clericale: «Cacciari – ateo fra virgolette – è il filosofo prediletto dai clericali di casa nostra. Una fitta schiera, che va dall’ex patriarca di Venezia Angelo Scola (il ‘padre spirituale’ dei ciellini, che non ha mai fatto mistero di reputare Renato Farina alias Agente Betulla il miglior giornalista italiano) a don Verzé («primo prete capomafia della storia d’Italia», come ha avuto l’audacia di definirlo il pur moderato Francesco Merlo. Il quale don Verzé, non a caso, una decina di anni fa ha chiamato Cacciari a Milano a dirigere, in qualità di prorettore, la facoltà di Filosofia del San Raffaele (in via Olgettina)».
Filosofo del nulla, opportunista di natura!

Dallo sciamanesimo la via regale filosofica della Katabasis


Il primo filosofo che, nel suo poema, tratta la discesa agli inferi è Parmenide. Tutto il mondo greco è permeato da questo viaggio, la katabasis, necessaria per poi risalire nell'alto dei cieli, è lo stesso viaggio di Dante e di Pound. Senza ombra di dubbio questa sequenza di discesa e risalita è il nostoi dai luoghi oscuri dello sciamanesimo, la prima ed unica forma di conoscenza e consapevolezza che l'umanità conosca, il fondamento di tutte le religioni del mondo.
Nel poema sulla Natura di Parmenide (il padre dei filosofi), il primo scritto che tratta la katabasi e implicitamente l'anabasi, si narra della discesa agli Inferi dove le porte di questo occulto luogo sono custodite dalla Giustizia e che vengono aperte da Persefone,un "viaggio" intrapreso su di un carro condotto dalle figlie del Sole. Persefone accoglie a braccia aperte lo Iatromante Parmenide...e non ci sono demoni che fuggono terrorizzati quando si cerca di entrare nelle profondità dell'uomo e dell'umanità intera esista la determinazione di entrare in questi luoghi pericolosi preparati nel saper ritornare.

Bisognerebbe pero' capire cosa significa Morire in Vita e cosa sono gli Inferi o Regno dei Morti e cosa e' il Corpo di Gloria che ogni uomo potenzialmente potrebbe manifestare.
Anche Cristo prima di risorgere e salire poi al cielo scende agli inferi come i grandi Dèi-Eroi greci: Orfeo, Ercole, Dioniso.......

mercoledì 21 agosto 2013

Alla mostra di Padova sui PaleoVeneti rimane in disparte la massima divinità REITIA


VENETKENS sminuisce l'importanza di REITIA

Penso che ad una lettura critica della mostra di Padova sui Veneti antichi si noti come la dea Reitia venga posta sullo stesso piano di divinità minori maschili e le venga perciò tolto il primato di somma dea dei Veneti. Viene quindi snobbata la caratteristica genuina del culto veneto che nasce proprio da una persistenza dell'antica religione matriarcale. Il simbolo della Chiave di Reitia, emblema della Barca solare, viene presentato invece come un simbolo "araldico" di una famiglia di antichi veneti. Confondere la Barca solare con un simbolo araldico è una sentenza tragicomica: comica perché parlare di simboli araldici presso i Veneti antichi è assolutamente ridicolo; tragico perché evidenzia la totale ignoranza e presuntuosa sottovalutazione dei temi reali della Tradizione spirituale veneta. A qualcuno la verità interessa poco, essendo troppo impegnato a gestire potere e denaro, con la sola preoccupazione di non perdere il controllo della situazione. Dunque alla "festa privata" di Venetkens, che la somma dea veneta venga pure tenuta in disparte, magari fuori della porta.

domenica 18 agosto 2013

Cose da pazzi: quando la realtà supera ogni buon senso

Rimini. Prete pedofilo fugge con la madre della vittima. Padre muore di crepacuore

DALLA VIOLENZA SESSUALE AI FIORI D?ARANCIO Fuga d?amore col prete che abusò del figlio | Corriere Romagna .it



DALLA VIOLENZA SESSUALE AI FIORI D’ARANCIO
Fuga d’amore col prete che abusò del figlio

La donna ha aspettato che scontasse la condanna ed è andata a vivere con lui, lontano da tutti I giudici credettero al ragazzino, ma la madre no: al processo testimoniò in favore dell’imputato 
di ANDREA ROSSINI
RIMINI. L’ex prete accusato di pedofilia ha finito di scontare la pena, dimezzata in appello a quattro anni, e ad attenderlo ha trovato l’unica persona che ha sempre creduto alla sua versione come si crede a una verità di fede o alle parole dell’amato, cioè al di là dell’esistenza di prove a favore o contro. Si tratta anche dell’ultima persona che ti aspetti pronta ad accoglierlo: la mamma del ragazzino di cui l’uomo, quando era ancora sacerdote, aveva abusato sessualmente. Lo ha atteso per andare via con lui, lontano, lasciando tutto e tutti: i due adesso vivono insieme come una coppia qualsiasi. L’uomo lavora come insegnante, la donna si occupa della casa, e – da devoti cristiani - progettano prima o poi di sposarsi. Quasi un lieto fine se alle loro spalle non si fossero lasciati le macerie di una famiglia riminese distrutta e le ferite di una vicenda controversa, sebbene chiara dal punto di vista processuale. Forse non esistono verità semplici.
La scelta della donna, che ha segnato per sempre anche il rapporto con il figlio, avvenne in udienza: testimoniò in favore del religioso. Davanti al giudice rivelò per la prima volta i suoi sentimenti e la natura del loro legame nascosto, allontanando così da lei, per sempre, sia l’adolescente sia l’uomo che all’epoca era ancora suo marito (questi provato dalla separazione, dal dolore per quanto accaduto al ragazzo e dallo stress del giudizio morì di lì a poco). La difesa adombrò la tesi che a innescare le accuse del minore fosse stata l’esplosione di un conflitto tra i genitori provocato proprio dall’irruzione dell’ex sacerdote nelle loro vite, fino ad allora tranquille. Una vendetta per punire il seduttore della madre, responsabile del disfacimento familiare.L’incontro tra i due, una specie di colpo di fulmine nonostante il contesto (un pellegrinaggio) avvenne a bordo del pullman diretto al santuario mariano di Medjugorie. Il religioso non ha mai esercitato nella diocesi di Rimini, ma all’epoca collaborava con un parrocchia della zona e si occupava di assistenza agli anziani. Non diceva messa, né indossava il clergyman ma si sentiva sacerdote a tutti gli effetti e infatti lo era nonostante un conflitto con la propria congregazione di carattere formale perché aveva intrapreso degli studi personali a Roma senza il “permesso” dei superiori. Fu il padre del ragazzo ad aprirgli le porte di casa: lo invitò a stare vicino al ragazzo, a fargli da guida spirituale e culturale, a limitarne esuberanza e fame di esperienze, tipiche dell’adolescenza e all’origine di tante discussioni tra lui e la moglie. Le cose sembravano funzionare, fino a quando il minore parlò degli interessi morbosi del religioso verso di lui. Atteggiamenti strani (dall’assistenza in bagno alle passeggiate tra i viado) e abusi descritti nel dettaglio. «Spero che non capiti più a nessun altro». L’ex prete ha sempre negato. Non fu interpretata in chiave a lui favorevole la propria storia personale: un’infanzia travagliata, insidiata da un adulto. Per l’accusa, un classico: aveva ripetuto quanto subito da bambino. Lo psichiatra della difesa, Alessandro Meluzzi, parlò invece di “vittima designata”, proprio in quanto prete (l’avvocato difensore era Vincenzo Gallo). Nel 2009 l’imputato venne condannato a otto anni di reclusione per violenza sessuale aggravata nei confronti del minore di 14 anni (parte civile, avvocato Moreno Maresi). Poi la Corte d’appello dimezzò la pena a quattro anni riqualificando i fatti, ma confermando la sua colpevolezza e disponendo l’arresto in aula. Tornato allo stato laico e scontata la condanna, l’ex prete è da qualche tempo un uomo libero. Libero di vivere la propria storia d’amore con la madre del ragazzino che avrebbe violentato.