lunedì 30 aprile 2012

Dal santuario pagano al santuario cristiano

Castel San Pietro a Verona come il Santuario della Madonna di Monte Berico a Vicenza

Il Santuiario della Madonna di Monte Berico a Vicenza


La caserma austriaca posta su Castel San Pietro

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 Sul colle di Monte Berico a Vicenza dove ora sorge un santuario dedicato alla Madonna, certamente il più importante di Vicenza e tra i più famosi d’Italia, precedentemente poteva essere l'acropoli della città dove trovavano posto templi e culti di divinità pagane. Collocato a meridione della città su di un poggio panoramico e ameno, molto simile a Castel San Pietro di Verona. Per secoli è stato richiamo di innumerevoli pellegrinaggi legati oggi alla Maria cristiana e un tempo agli Dei Olimpici, come a divinità venetiche. I colli o promontori accostati alle città fin dall'antichità erano coronati da un santuario o da un tempio insigne. Ben note sono le acropoli etrusche e greche dove sorgevano monumentali edifici di culto agli dei, per non parlare dei templi romani a noi più vicini. Gli storici vicentini parlano di un tempietto ad Apollo e a Diana collocato a protezione della “Vicetia” romana sulle pendici del colle Berico. Non abbiamo sufficienti elementi per affermarlo, probabilmente perché i reperti antichi di cui si parla andarono dispersi o perduti. Con molta probabilità il cristianesimo nascente cercò di eliminare e nascondere le testimonianze e cancellare i culti precedenti. Fra i pochissimi reperti salvati ci è pervenuta una iscrizione in lingua venetica, incisa su pietra, rinvenuta nei pressi di Villa Guiccioli sui Colli Berici, a testimonianza di una popolazione della prima epoca paleoveneta. Pure nell’incertezza dell’interpretazione, oggi si ritiene trattarsi di un monumento dedicato agli dei terminali da un dedicante rivestito da una carica pubblica o sacerdotale. Nel Colle di Monte Berico si avvicendarono nuove divinità con l'avvento del cristianesimo il un luogo era da millenni meta incessante di pellegrinaggi. In epoca cristiana sorse il santuario dedicato alla Vergine Maria, che giunge ai giorni nostri col titolo di Basilica della Madonna di Monte Berico.

Il monte Summano: Montagna Sacra

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Un Cristo che sembra saluti romanamente ha invaso i luoghi dell'arcaica sacralità. UNA SOSTITUZIONE INGIUSTA! La morbosa invadenza cristiana romana è arrivata a erigere un crocefisso clamorosamente atipico(senza contare che il vertice del monte Summano era stato occupato precedentemente da un convento legato al culto mariano) un cristo con una sola mano inchiodata, l'altra resa verso l'alto con le dita aperte. Questo cristianesimo invasivo e onnipresente posizionato nei luogo e nei santuari del paganesimo, in maniera da far perdere il significato originale del luogo e le tracce delle religioni precedenti. Anche a Verona si sta alterandoo il grandioso santuario acropoli di Colle di San Pietro e la Fondazione sta ultimando l'opera distruttiva iniziata da Napoleone affinché lentamente si perda la memoria. LASCIATE ALMENO LE ULTIME RESIDUE TRACCE DEL PAGANESIMO PLUMILLENARIO. NON CANCELLATE I SEGNI DEL MISTICISMO PAGANO.Risultati immagini per Foto degli ultimi lavori intrapresi a Colle San Pietro a Verona

Foto degli ultimi lavori intrapresi a Colle San Pietro per ricavare dalla cisterna una sala sotterranea con il pericolo di distruggere le poche tracce che ci sono dall'antica Verona romana. Del Colle concepito nell'età augustea non si vuole nemmeno riproporre una seppur piccola traccia, tutto si sacrifica per il polo museale quasi a cancellare la grandezza e la sacralità della prima Roma imperiale.
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Foto dei recenti scavi sul monte Summano............................................................................. Ancora sul monte Summano: Da antica tradizione, in cima al Summus Manium ("Mani" era una religione persiana diffusa tra i romani) si trovava un tempietto pagano in onore di Plutone, il sommo deo degli inferi. La forma conica bicuspide del monte ricorda infatti un vulcano, sebbene si tratti di una struttura prealpina calcarea/dolomitica. Non mancano tuttavia intrusioni basaltiche che ne formano il substrato e, per alcuni aspetti, lo accomunano alle vicine colline "Bregonze" a Zugliano, e alla dorsale collinare dei porfidi vicentini (Malo). Il Summano si erge isolato tra la valle dell'Astico e l'alta pianura vicentina ed è visibile da tutto il Veneto centrale, inevitabile che fosse un vero faro mistico fin dalla preistoria, dove in ogni altura prealpina significativa s'insediava un castelliere o un tempio sacro. A conferma, nei pressi della cima sono stati ritrovati reperti preistorici e ricca documentazione archeologica di epoca romana. Sulle pendici del monte, nel covolon di Bocca Lorenza (Santorso), sono stati rinvenuti numerosi reperti paleoveneti. Ai piedi del monte si estendeva una centuriazione di epoca romana e un importante insediamento militare denominato 'Campo Romano', nell'area dell'attuale zona industriale Schio-Santorso. Un tesoro sacro nel Summano SCHIO. In una serata illustrati gli importantissimi rinvenimenti archeologici tra cui due statuine d'argento di età romana. Rinvenuti anche un panetto di incenso di 60 grammi e un astragalo, un oggetto oracolare dell'età del Ferro tra il VI e IV a.C. 28/03/2011 E-MAILPRINT A Un momento delle campagne di scavo sul monte Summano. FERRARI| Un altro particolare degli scavi Schio. Il Monte Summano ha svelato sotto di sé un tesoro archeologico che conferma la sacralità insita in questo monte che sovrasta Schio e i comuni vicini. Grazie ad una serie di scavi archeologici compiuti con la collaborazioni della amministrazioni comunali di Santorso, Schio e Piovene, della Provincia di Vicenza e della Sovrintendenza archeologica, sono stati infatti ritrovati importanti reperti archeologici che confermano come il monte sia stato un probabile luogo di culto fin dall'età del ferro. I risultati degli scavi verranno illustrati in una serie di conferenze intitolate "Le montagne sacre: testimonianze archeologiche sui santuari alpini", organizzate dal Gruppo Archeologico dell'Alto Vicentino in collaborazione con il Museo Archeologico di Santorso. Il primo appuntamento, dedicato a "Le recenti scoperte archeologiche sul santuario del Monte Summano", ha visto la partecipazione di Mariolina Gamba, direttrice degli scavi, e di Rosario Salerno, responsabile degli stessi. «I lavori sono iniziati nel 2007 con una prima serie di recuperi occasionali - ha spiegato la dottoressa Gamba - Dopodiché dal 2008 al 2010 abbiamo compiuto tre campagne di scavo che hanno portato al rinvenimento di oggetti importantissimi». Tra questi due statuine di 4 cm in argento, risalenti all'età romana, una raffigurante un Marte-Ercole, l'altra una divinità femminile, simbolo di fertilità e salute. Accanto a questi, i ritrovamenti di frammentazioni di oggetti, offerti in dono, di un panetto di incenso di 60 grammi e di un astragalo, un oggetto oracolare, databile all'età del Ferro tra il VI e il IV secolo a. C. «La prospettiva - ha continuato Gamba-, dopo lo studio e la datazione di tutti i reperti, è quella di arricchire il nucleo archeologico dell'Alto-Vicentino e di valorizzare l'area del sito archeologico». Soddisfatto anche l'archeologo Rosario Salerno, che si è detto d'accordo con la definizione del Monte Summano come di un santuario. I prossimi appuntamenti del ciclo saranno giovedì 31 marzo alle 20.15 con i "Luoghi di culto in area alpina", a cura diFranco Marzatico dell'Università di Trento, e sabato 9 aprile con "L'archeobotanica e i risultati delle analisi svolte sui campioni del monte Summano". Entrambi gli incontri nella sala conferenze del museo archeologico di Santorso. Silvia Ferrari

Bagnasco l'ingordigia fatta carne!

Bagnasco, pensione da generale: articolo di Riccardo Bianchi
I cappellani militari costano allo stato oltre 15 milioni di euro l'anno. E tra loro abbondano i vescovi babypensionati con emolumenti d'oro. Tra cui anche l'attuale presidente della Conferenza episcopale italiana(27 aprile 2012)All'interno della cittadella militare della Cecchignola c'è un seminario. Vi nascono i futuri cappellani militari, preti che per l'esercito italiano sono anche ufficiali. Il seminario è cattolico, ma a pagare la formazione degli attuali otto seminaristi ci pensa lo stato italiano. Perché la «Scuola allievi cappellani militari» fa parte dell'ordinariato militare, una speciale diocesi che però è anche una struttura delle forze armate e i cui soli uffici centrali romani pesano per 2 milioni di euro sul bilancio del ministero della Difesa. Sembrano tanti, ma pensioni e stipendi di tutti i sacerdoti e, soprattutto dei vescovi che comandano, toccano la cifra di ben 15 milioni di euro all'anno. E abbondano i casi di babypensionamenti. Tra questi babypensionati spunta il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Angelo Bagnasco, che dal 2003 al 2006 è stato anche arcivescovo ordinario militare, cioè reggente della diocesi, per legge equiparato ad un generale di corpo d'armata. Un ruolo del genere si aggira sui 190mila euro lordi di stipendio all'anno, quello che riceve l'ordinario attuale, monsignor Vincenzo Pelvi. Come pensione, si parla di oltre 4mila euro lordi al mese, ma Bagnasco prende di meno perché non è arrivato ai venti anni di servizio. Detto questo, raggiungendo nel 2006 i sessantatre anni d'età ha avuto diritto al vitalizio sostanzioso con soli tre anni di contributi, e come lui tre generali predecessori: i monsignori Gaetano Bonicelli (sette anni di contributi), Giovanni Marra (otto anni) e Giuseppe Mani (otto anni). Il problema delle pensioni dei cappellani è un vero dilemma: interrogato da Maurizio Turco dei Radicali, il ministro della difesa Di Paola ha risposta che l'Inpdap non sa dire a quanto ammontino, ma ha stimato che la media degli assegni per i 160 religiosi, di cui 16 alti graduati, si aggiri sui 43 mila euro lordi annui. Sommandoli agli 8,6 milioni di euro che costano i 184 cappellani in attività, vescovi compresi, si arriva a 15 milioni. Un bel costo per «l'assistenza spirituale delle forze armate». «Il governo parla di tagliare 30-40 mila posti tra militari e civili al ministero della Difesa, ma i cappellani dovevano scendere a 116 e invece superano ancora i 180». spiega Luca Comellini del partito per la tutela dei diritti dei militari, che con Turco ha sollevato il caso delle spese. C'è un sacerdote alla Croce Rossa e ce ne sono al fronte: «Per altro quando dicono messa la domenica ricevono l'indennità di lavoro festivo e se vanno in guerra quella di missione». L'unico che nella storia ha sciolto i cappellani è stato Mussolini il giorno dopo la marcia su Roma dell'ottobre 1922. Temeva fossero infiltrati del Vaticano, ma negli anni '30 iniziò a riaprire le truppe alla presenza dei preti. Poi nessuno ci ha rimesso mano. Anzi, nel 1997 il governo di centrosinistra di Romano Prodi ha alzato i gradi e con loro lo stipendio dei religiosi: il vicario generale, secondo della gerarchia dell'ordinariato, passò da generale di brigata a generale di divisione, gli ispettori da tenenti colonnello a generali di brigata. Furono creati altri ruoli di rango elevato, così che se prima i sacerdoti erano tenenti, capitani o maggiori, adesso possono essere anche colonnelli e tenenti colonnello. Un discorso a parte, anzi un articolo a parte, meriterebbe tutta la discussione interna alla Chiesa sul valore dei cappellani. Nel '65 un gruppo di loro scrisse di ritenere «un insulto alla Patria e ai suoi Caduti la cosiddetta «obiezione di coscienza», che, «estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Ci pensò Don Lorenzo Milano a rispondere che «E' troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa». Da anni, dai tempi di monsignor Tonino Bello, Pax Christi chiede di smilitarizzarli e di passare la cura delle anime dei soldati alle parrocchie in cui ha sede la caserma. Insomma, all'interno delle curie è un tema che fa discutere. Ma un altro si presenterà allo stato laico: stanno arrivando soldati di fede diversa, ma l'ordinariato è un ufficio puramente cattolico. Come farà a garantire l' «assistenza spirituale delle forze armate» che non credono in Cristo o almeno non nel papa? Sarà un altro bel dilemma.

domenica 29 aprile 2012

La storia mai raccontata

Non trovando in rete nessuna immagine di Antonio Gramsci devo, accontentarmi di riportare quella dell'arcinoto fratello! Pochi sanno che Antonio Gramsci, storico ideologo del Partito Comunista Italiano, osannato e idolatrato dalle sinistre ed entrato (a ragione o a torto) a far parte dell’olimpo culturale italico del ’900, aveva un fratello minore, che lungi dall’essersi tesserato al PCI, fu un fedele fascista della prima ora, e rimase tale fino alla fine, arruolandosi anche nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Come avrete intuito dal titolo, il suo nome era Mario. Mario Gramsci. Diversamente dal fratello, morì in solitudine e dimenticato da tutti, anche per l’opera di cancellazione storica e mistificazione operata dai cosiddetti “vincitori”. Mario venne messo da parte, quasi come fosse una vergogna per la memoria del fratello, seppure il Gramsci di serie “B” non commise mai nella sua vita — almeno secondo i pochi dati storici a disposizione — alcun crimine e alcun reato contro il popolo italico per il quale combatté tre guerre, tranne quello di essere stato fascista convinto fino alla morte. Come il più famoso fratello, nacque in Sardegna, a Sorgono, nel 1893, dove vi visse fino alla Prima Guerra Mondiale. Si arruolò e combatté per l’Italia con il grado di sottotenente. Quando il conflitto terminò, divenne un convinto sostenitore del Fascismo al quale aderì, partecipando alla marcia su Roma e diventando poi segretario federale del PNF di Varese. L’adesione al Partito Fascista gli procurò diversi problemi con il più noto fratello. Antonio infatti tentò vanamente di convincerlo a convertirsi al Comunismo, o quantomeno tentò di fargli rinunciare all’ideale fascista. Ma Mario era una persona tutta d’un pezzo. Un forte idealista come lo stesso Antonio, e diversamente dal fratello, era un convinto sostenitore del Fascismo. Perciò non cambiò (mai) idea, nonostante venne pure picchiato e ridotto in fin di vita per questo. Questa diversità di vedute politiche causò una frattura fra i due, che non verrà mai sanata. Ciononostante, Antonio nel 1927 scrisse dalla prigione una lettera alla madre, esprimendo il desiderio di ringraziare Mario per l’interessamento che aveva avuto in relazione alle sue condizioni di salute. La storia però ci dice che Mario fece qualcosa di più: con altri socialisti convertitisi al fascismo, premettero con il regime affinché l’intellettuale comunista potesse avere le migliori cure e potesse ottenere una prigionia meno pesante. E non a caso, così accadde. Ad Antonio Gramsci venne riconosciuta una sorta di libertà condizionata che gli permetteva una maggiore libertà. Intanto Mario lasciato l’incarico di segretario provinciale del PFN si dedicò al commerciò, almeno fino al 1935, quando decise di partire volontario per la guerra di Etiopia. Avventuriero e convinto sostenitore dell’ideale fascista, combatté anche in Libia fino alla disfatta del 1943. Allora tornò in patria, ma l’Italia stava perdendo la guerra. Mussolini aveva fondato la Repubblica Sociale. Mario Gramsci vi aderì senza alcun tentennamento, combattendo nell’esercito della RSI, finché non venne catturato dagli inglesi che lo trasferirono in un campo di concentramento in Australia, dove venne torturato e seviziato. Vi rimase per due anni, poi fu ricondotto in Italia nel 1945, a guerra finita. Morì fascista e dimenticato da tutti nel 1947, in seguito ai traumi subiti durante la prigionia. Articolo italiano recente di Jester Feed

L'ultima lettera di Gheddafi a Berlusconi

Premetto che non ho mai stimato Gheddafi, agevolato nel colpo di stato dagli americani e che inoltre (per i legami italiani con Libia) fu anche in Italia all'Accademia di Modena. Un ingrato che ci costrinse a riportare in patria anche i corpi dei nostri morti in Libia.
l'ultima lettera di gheddafi a BerlusconiCaro Silvio------- ti faccio pervenire questa lettera per il tramite di tuoi concittadini, venuti in Libia per portarci il loro sostegno in un momento così difficile per il popolo della Grande Giamahiriya. Sono rimasto sorpreso dall’atteggiamento d’un amico con cui avevo già siglato un trattato d’amicizia favorevole ai rispettivi popoli. Avrei sperato, da parte tua, che almeno t’interessassi ai fatti e tentassi una mediazione, prima di dare il tuo sostegno a questa guerra. Non ti biasimo per ciò di cui non sei responsabile, perché so bene che non eri favorevole a quest’azione nefasta, che non fa onore né a te né al popolo italiano. Ma credo che tu abbia ancora la possibilità di fare marcia indietro e di far prevalere l’interesse dei nostri due popoli. Stai certo che io ed il mio popolo siamo disposti a voltare e dimenticare questa pagina nera nelle relazioni privilegiate che legano il popolo libico e il popolo italiano. Ferma i bombardamenti che uccidono i nostri fratelli libici ed i nostri figli. Parla con i tuoi amici ed alleati affinché cessi quest’aggressione contro il mio paese. Spero che Dio onnipotente ti guidi sul cammino della giustizia

sabato 28 aprile 2012

Nell'oralità si nasconde la vera tradizione

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La parola scritta nasconde il trucco, quella di mistificare e il potere usa ogni mezzo per agevolarsi il mantenimento e il dominio sulle genti. Ormai è stato scritto tutto, miliardi di parole, e ancora vogliamo prenderle a testimonianza un segno tutto da interpretare. Come se la tradizione orale fosse inutile. Gli indiani D'america, ed in genere le culture considerate minori posseggono una tradizione orale profonda e altrettanto sacra. Felici sono i popoli che non hanno tradizione scritta, La scrittura è in realtà una forzatura che si adatta benissimo alla mistificazione, ma gli ignorati la chiamano : Parola del signore o addirittura di Dio, sono solo parole e Dio è un'altra cosa......

giovedì 26 aprile 2012

I protestanti peggio dei cattolici Romani

Il martirio di Michele Serveto che fuggi sia dalla sua Patria, la Spagna, andando in Italia. Non sentendosi sicuro perso di trovare un porto sicuro nella Svizzera di Calvino: un grave errore. Serveto si recò a Ginevra per avviare un dialogo con Calvino, fondatore del Calvinismo. Serveto infatti non aveva nessun altro fine, se non quello di spiegare la sua posizione antitrinitaria (De trinitatis erroribus). A quel tempo però la teoria calvinista era molto chiusa e non aperta al dialogo, inoltre l'offesa alla trinità era considerata, anche dai protestanti, uno dei più gravi delitti di cui potesse macchiarsi un cristiano. Pertanto calvino che allora si era dovuto scontrare con i massimi esponenti della chiesa per far sì che potesse fondare questa sua nuova religione protestante, vide 'scomodo' Serveto e la sua posizione antitrinitaria e pensò bene (oggi diremo male) di condannarlo al rogo da vivo. Il martirio di serveto non fu tuttavia inutile, perchè molti dotti religiosi aprirono successivamente un dibattito sulla tollranza religiosa. I protestanti sono molto peggio dei cristiani Romani, hanno ucciso giustificando sempre le loro azioni disumane. L'America dei pionieri aveva la bibbia in una mano e il fucile nell'altra.
Immagine di Michele Serveto: filosofo e medico spagnolo che teologicamente negò la trinità.

Ci stanno facendo diventare razzisti nostro malgrado

Ci stanno facendo diventare razzisti nostro malgrado di Francesco Lamendola - 31/08/2011 Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] Il popolo italiano non è mai stato razzista. Il popolo friulano, presso il quale sono nato, e il popolo veneto, presso il quale mi sono stabilito, non sono mai stati razzisti. Al contrario: il Patriarcato di Aquileia, come crocevia di popoli delle tre principali stirpi europee - la neolatina, la germanica, la slava - e la Repubblica di Venezia, come crocevia di commerci - fra Occidente e Oriente, fra Nord e Sud del continente - vantano entrambi una storia plurisecolare di incontri, di scambi, di apertura verso qualunque popolo e qualunque fede. E ciò vale anche per le altre regioni e per le altre popolazioni d’Italia, sia quella continentale, sia quella peninsulare ed insulare. Nel Sud vi sono addirittura delle oasi linguistiche greche e albanesi, relitti di intere popolazioni che, molti secoli addietro, fuggirono dalla Penisola Balcanica invasa dai Turchi e si trasferirono in Italia, per vivere in pace e in sicurezza. Fra XIX e XX secolo, poi, furono gli Italiani a prendere la via dell’emigrazione, sia temporanea che permanente, sotto la spinta crudele di una modernizzazione che imponeva nuovi ritmi di vita e nuove modalità di produzione: a centinaia di migliaia, a milioni. Emigranti friulani e veneti costruirono la ferrovia transiberiana e contribuirono a realizzare il Canale di Suez e il Canale di Panama, la ferrovia transcontinentale americana, le dighe più grandi del mondo, dal Sud America all’Africa; coltivarono le savane e fecero fiorire i deserti, con un prodigio di dedizione e amore. Ovunque si fecero rispettare e stimare per le loro doti di grandi lavoratori, per la sobrietà, per il loro spirito di sacrificio; non sempre vennero ricompensati come avrebbero meritato, anzi, in certi casi vennero spogliati di tutto; quelli che tornarono a casa, comunque, portarono con sé un prezioso bagaglio di esperienze umane, di tolleranza, di capacità di dialogo con le altre culture. Mai gli Italiani si sono mostrati razzisti, lo ripetiamo: non avrebbero potuto, considerata la loro storia, la loro civiltà, la loro istintiva accoglienza e la loro generosità, legata ai valori religiosi e patriarcali delle vecchie famiglie contadine. Da qualche tempo, però, le cose stanno cambiando; e non per colpa loro. Una immigrazione strabocchevole, selvaggia, indiscriminata, sta mettendo a durissima prova il loro tradizionale senso di ospitalità, la loro naturale benevolenza verso l’altro: una immigrazione che non è stata proposta, ma imposta e calata dall’alto, come un diktat, e gestita come peggio non si sarebbe potuto, mostrando una dissennata tolleranza verso qualunque comportamento deviante, a cominciare dal fato stesso dell’immigrazione clandestina. Non è che tutti gli immigrati si comportino male, sia chiaro; ma il numero di quelli che si comportano male è alto, troppo alto; e a ciò si aggiungono la faciloneria, il pressapochismo, l’incomprensibile permissivismo di cui i governi, di destra e di sinistra, hanno dato prova nel corso degli ultimi tre decenni. Troppo spesso gli stranieri non vengono qui in atteggiamento umile e rispettoso, ma con arroganza e quasi con sfida: aprono moschee abusive, praticano il commercio clandestino, adottano stili e comportamenti quotidiani irrispettosi della quiete e della tranquillità dei loro vicini di casa; il tutto nella maniera più aperta e sfacciata e, quasi sempre, senza che giunga la benché minima reazione da parte delle pubbliche autorità, vuoi per carenza di uomini e mezzi delle forze di sicurezza, vuoi per un ben preciso disegno politico. Interi quartieri delle nostre città sono ormai abbandonati a se stessi, in balia di spacciatori di droga e prostitute, terrorizzati da quotidiani scontri fra bande di malviventi stranieri o, nel migliore dei casi, da quotidiani episodi di ubriachezza, di risse, di microcriminalità: al punto che i residenti, la sera specialmente, ma ormai anche di giorno, hanno paura ad uscire di casa. La situazione va peggiorando di giorno in giorno e se qualcuno si azzarda a farla presente, si vede immediatamente bollato di razzismo e ridotto al silenzio, sotto una montagna di frasi fatte e insipide a base di diritti umani, di civiltà, di arricchimento culturale; stuoli di economisti ci spiegano che di questi immigrati noi abbiamo assoluto bisogno (strano, vista la disoccupazione ormai dilagante) e frotte di politici e di pretesi intellettuali ci rintronano gli orecchi con i loro ditirambi sulla bellezza della società multietnica e multiculturale. Si vede che la rivolta di Los Angeles nel 1992, quella delle banlieue francesi nel 2005 e quella di Londra del 2011 non hanno insegnato nulla a nessuno. Intanto, in molte classi delle nostre scuole la presenza di alunni stranieri è diventata così numerosa, che i nostri figli vi si trovano in minoranza, quasi tollerati e costretti ad adeguarsi a programmi scolastici penosamente ridotti, visto che molti dei loro compagni stranieri non padroneggiano neppure i rudimenti della nostra lingua; e alcune solerti maestre decidono di rinunciare al presepio e ai canti di Natale, per non offendere l’altrui sensibilità. Un preside della mia zona ha voluto regalare, con i soldi della scuola, una bicicletta nuova a un alunno marocchino che aveva cercato di rubare quella di un compagno: eppure, a parte il messaggio sommamente antieducativo che è stato dato, ci sono anche dei bambini italiani che devono rinunciare alla bicicletta, perché i genitori non possono comperargliela; anche da noi esistono la povertà e l’indigenza, senza che ciò autorizzi moralmente al furto. Ebbene, tutto ciò non ha niente a che fare con l’accoglienza e con lo spirito di fratellanza: è un suicidio culturale, puramente e semplicemente. Il rispetto dovuto alle altre culture è una cosa ben diversa e dovrebbe andare congiunto, fino a prova contraria, con il rispetto che esse devono alla nostra, cioè a quella che ha accolto e sfamato tanti dei loro membri. Quei signori che parlano e blaterano di integrazione e ci decantano le meraviglie della società multietnica non sanno letteralmente di che cosa stanno parlano: o sono immensamente, totalmente ignoranti e sprovveduti, oppure sono in malafede e vogliono farci trangugiare una minestra che non serve alla nostra salute e al nostro benessere, ma che risponde semmai agli occulti interessi di qualche potere invisibile, che sta perseguendo un suo inconfessabile disegno di dominio globale, passando sulla testa dei liberi cittadini. Vorrei citare una esperienza diretta per rendere più chiaro il discorso, anche se chiunque, purtroppo, potrebbe citarne di simili. Un mio amico ristoratore è stato truffato, l’altro giorno, da una numerosa famiglia di zingari: quattordici persone che si sono presentate a pranzo, si sono fatte servire e poi, al momento di pagare, con la scusa che la carta di credito non funzionava, se ne sono andate promettendo che avrebbero saldato, mentre sono sparite senza più farsi vedere. Un episodio quasi insignificante, se vogliamo, specialmente se confrontato ad altri in cui emerge anche l’elemento della violenza; e, tuttavia, un episodio che si aggiunge a una serie di altri episodi analoghi, tutti caratterizzati da un fatto evidente: quando si incontrano bruscamente due culture, in una delle quali fregare il prossimo è una cosa bella e buona ed una in cui si praticano il rispetto e l’onestà, la seconda, inevitabilmente, soccombe. Quel mio amico è una persona niente affatto razzista, né potrebbe esserlo, essendo nato all’estero e avendo vissuto, egli stesso, per tanti anni da emigrante. Tutti i clienti sono uguali, per lui: il ricco e il povero, l’Italiano e lo straniero; con tutti è gentile e disponibile e si fa in quattro per servirli nel migliore dei modi, senza alcuna discriminazione. Il lavoro è la sua passione e il tratto umano e gentile è la sua caratteristica più evidente. Però, dopo una serie di episodi spiacevoli come quello appena ricordato, la sua fiducia nel prossimo e la sua benevolenza verso il diverso stanno incominciando a scricchiolare. L’amarezza e lo scoraggiamento sono aggravati dalla consapevolezza che lo Stato, sempre lento quando si tratta di intervenire a difesa della legalità, è tuttavia prontissimo a farlo, quando si tratta di trovare il pelo nell’uovo per erogare multe o per esigere sempre nuove tasse e balzelli. Fino a che punto devono arrivare le cose, prima che ci si renda conto che stiamo giocando col fuoco e che, presto o tardi, ci bruceremo malamente? Perché una moschea abusiva viene tollerata dai sindaci e dai prefetti, come niente fosse, mentre la più piccola irregolarità da parte di un cittadino italiano viene subito sanzionata con multe pesantissime o con il deferimento all’autorità giudiziaria? Perché uno straniero, entrato illegalmente nel nostro Paese, non appena ottiene lo status di rifugiato (e lo ottengono quasi tutti, a migliaia, a decine di migliaia ogni anno), ha diritto a un generoso sussidio di mantenimento, ovviamente a spese del contribuente; mentre certi nostri pensionati possono anche crepare di fame o venire sfrattati in qualsiasi momento, per l’impossibilità di pagare l’affitto di casa? Si stanno creando le condizioni per spingere un popolo accogliente e generoso, come l’italiano lo è sempre stato, a diventare prevenuto, diffidente, maldisposto verso gli stranieri: e di tutto ciò bisogna ringraziare i nostri folli demagoghi che, con irresponsabile leggerezza, hanno spalancato le porte del nostro Paese, così, da un giorno all’altro, a masse di immigrati delle più diverse provenienze, i quali, sovente, assumo atteggiamenti da conquistatori, più che da ospiti. Se anche fosse vero che la nostra economia ha bisogno di manodopera straniera, dovrebbero essere il governo a stabilire quanti e di quale provenienza, fissando un tetto massimo per ciascuna etnia e badando, come è giusto e naturale anzitutto agli interessi del nostro Paese. Gli immigrati cinesi, per fare un esempio, non investono un euro che sia uno nella nostra economia: per il loro commercio si riforniscono direttamente in Cina e poi vendono le merci a prezzi stracciati, facendo una concorrenza insostenibile ai nostri commercianti. Intanto, nei laboratori clandestini, operai e operaie cinesi lavorano in condizioni disumane quattordici ore al giorno per una paga di pochi euro: ed ecco spiegato il “miracolo” di quei prezzi così incredibilmente bassi. Se, poi, si chiede loro di rispettare le regole e di non parcheggiare abusivamente nel centro cittadino, eccoli pronti a scatenare una rivolta in piena regola, come quella di Milano del 2007, innalzando le bandiere della Repubblica Popolare Cinese sulle barricate, mentre le autorità di Pechino, per bocca del loro ambasciatore, si permettevano di intromettersi e raccomandare “moderazione” al nostro governo. La domanda che dovremmo farci, più che legittima, è quale vantaggio ricavi l’economia italiana da tutto ciò. Qualcuno, certamente, si metterà a strepitare che badare ai nostri interessi è una forma di bieco egoismo nazionale: certo che lo è; ma quale Stato degno di questo nome non pone i propri interessi al di sopra di ogni altra considerazione? Se non si vuole essere ipocriti, non è esattamente quello che ognuno di noi fa riguardo alla propria famiglia: prima si preoccupa della sicurezza e del benessere dei suoi cari e poi, se può, anche di quelli degli altri? Non c’è nulla di male, nulla di vergognoso e, tanto meno, nulla di razzista in un simile modo di ragionare: e chi afferma il contrario o è uno sciocco, o è in malafede. I nodi stanno venendo al pettine, non possiamo permetterci di perdere altro tempo. L’immigrazione va frenata, controllata, gestita in maniera responsabile; bisogna fare di tutto per incoraggiare gli immigrati a tornare nei Paesi di provenienza, anche incentivandoli economicamente, in modo che possano impiantare a casa loro delle piccole attività commerciali o acquistare un pezzo di terra da lavorare. Non possiamo farci carico di tutta la miseria del mondo, di tutte le guerre che infuriano, di tutte le foreste che scompaiono o di tutti i deserti che avanzano. Se non vogliamo scomparire anche noi.

mercoledì 25 aprile 2012

L'invenzione della Trinità

LA DOTTRINA DELLA TRINITÀ Forse non tutti sanno che la dottrina della trinità non era "predicata" dai primi cristiani, ma nasce molto dopo la morte di Cristo e per molti il concetto di trinità è una eresia. Il concetto di trinità si sviluppò durante e dopo il concilio di Nicea (325 d.C.). Gli ideatori principali della trinità furono Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Basilio. Il termine fu coniato da Tertulliano e Agostino di Ipponia stabili definitivamente la trinità definedola teologicamente come "dogma". Nel 380 d.C. la dottrina della trinità diventa parte integrante del cristianesimo, o meglio del cattolicesimo Romano. Una religione che non si potrebbe dire monoteista, poi se mettiamo i santi, si comprende il forte legame con la terra di nascita Mediterranea pagana, a differenza dell'arianesimo assunto dai popoli nordici

La kermesse del venticinque aprile è in crisi

Articolo di Marcello Veneziani Sul Quotidiano "Il Giornale" titolato "Promemoria per un 25 aprile condiviso" del 25 aprile 2012 Mentre le iene ululano mi chiedo: quando avremo una memoria condivisa? Quando riconosceremo che uccidere Mussolini fu una necessità storica e rituale per fondare l'avvenire, ma lo scempio di Piazzale Loreto fu un atto bestiale di inciviltà e un marchio d'infamia sulla nascente democrazia. PartigianiIngrandisci immagine Quando riconosceremo che Salvo d'Acquisto fu un eroe, ma non fu un eroe Rosario Bentivegna. Quando ricorderemo i sette fratelli Cervi, partigiani uccisi in una rappresaglia dopo un attentato, e porteremo un fiore ai sette fratelli Govoni, uccisi a guerra finita perché fascisti. Quando diremo che tra i partigiani c'era chi combatteva per la libertà e chi per instaurare la dittatura stalinista. Quando distingueremo i partigiani combattenti sia dai sanguinari che dai partigiani finti e postumi. Quando onoreremo quei partigiani e chiunque abbia combattuto lealmente, animato da amor patrio, senza dimenticare il sangue dei vinti. Quando celebrando le eroiche liberazioni, chiameremo infami certi suoi delitti come per esempio l'assassinio del filosofo Gentile. Quando celebrando la Liberazione ricorderemo almeno tre cose: che nel ventennio nero furono uccisi più antifascisti italiani nella Russia comunista che nell'Italia fascista (lì centinaia di esuli, qui una ventina); che morirono più civili sotto i bombardamenti alleati che per le stragi naziste; che ha mietuto molte più vittime il comunismo in tempo di pace che il nazismo in tempo di guerra, shoah inclusa. La pietas copra tutti quei volti violati senza coprire o violare la verità della storia.

martedì 24 aprile 2012

Le Massonerie

Riporto un interessante articolo ripreso di di Andrea Carancini. Anche se non mi trova pienamente d'accordo ha degli spunti interessanti nel suo insieme. Credo che non tutta la Massoneria sia da buttare, vorrei ricordare il grande impegno estremamente disinteressato e spirituale della Massoneria Pitagorica inscindibile dal Grande Arturo Reghini, e le Massonerie speculative legate alla ricerca esoterica disinteressata e in parte allo sviluppo dell'Uomo.
DOMENICA 22 APRILE 2012 I massoni(un certo tipo di massoni), più dei partiti, sono la rovina della RAI Enzo Decaro Enzo Decaro intervistato a Fiction Magazine. Arianna Ciampoli gli chiede un’opinione sul “Giornalino di Gian Burrasca”[1], lo storico sceneggiato RAI del 1964. La risposta di Decaro: «Quella era la bella televisione»[2]. Rita Pavone ne "Il giornalino di Gian Burrasca" E l’intervistatrice: «“Quella era la bella televisione”. Vuol dire che quella di oggi non ti piace?». Al che, il noto attore risponde con una critica garbata ma seria alla tv attuale: «In quel tempo era la televisione che trainava certi valori della società. Oggi … sono alcuni valori della società che trainano la televisione». Il giudizio di Decaro, però, da noi che non abbiamo i vincoli di diplomazia imposti ad un attore che con la tv ci lavora, può essere espresso da una parola sola: brutta. La tv di oggi, a cominciare proprio dalla RAI (pur con qualche eccezione), è brutta. Brutta, soprattutto in quelli che all’epoca erano i punti di forza della RAI, gli sceneggiati, che oggi si chiamano fiction e che vengono realizzati da quella sinistra struttura che si chiama Rai Fiction[3]. Prendiamo ad esempio la fiction di qualche anno fa su Rino Gaetano. La "character assassination RAI di Rino Gaetano Tremenda nelle sue inesattezze sul personaggio che avrebbe dovuto descrivere. Tralasciando le implicazioni politico-esoteriche della questione (su cui a suo tempo Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti espressero considerazioni interessanti[4]) ho letto giorni fa su un blog, in cui si parlava proprio del trattamento riservato a Gaetano, alcuni giudizi di carattere generale sulle fiction RAI che condivido in toto: “Io trovo queste biography-fiction totalmente inutili,così come quella di tenco,dalida,callas,ecc.ecc. Non aggiungono nulla a questi personaggi,anzi tralasciando molti episodi salienti della loro vita ,li banalizzano. ciao”. “Perfettamente d'accordo. Aridatece "Il Commissario Montalbano", secondo me l'ultimo esempio di prodotto davvero ben fatto (quasi "unico", direi) in casa RAI. ;)”[5] Il Commissario Montalbano: l’ultimo esempio di prodotto davvero ben fatto … Esatto. Ma, domanda, come mai oggi la televisione è così brutta? Prima di esprimere un giudizio sulla causa politica di tale degrado vorrei puntualizzare due aspetti sul come ci si è arrivati. Innanzitutto, nell’epoca d’oro della RAI (gli anni ’60 e ’70), i registi degli sceneggiati si misuravano con i grandi maestri della storia del cinema (dai grandi russi degli anni ’20 a Antonioni), mentre oggi il modello espressivo delle fiction sono gli spot pubblicitari. In secondo luogo, è il concetto stesso di fiction ad essere fuorviante e degradante. Mentre infatti nella RAI che fu i registi avevano ancora il gusto di esplorare la realtà e di raccontarla, i canoni della fiction impongono di nascondere la realtà e di sostituirla con storielle di tipo propagandistico: l’epoca che stiamo vivendo sembra davvero, televisivamente, una riedizione dei “telefoni bianchi”[6]. Prodotti di regime non per spettatori consapevoli ma per sudditi, come si confà ad una nazione colonizzata come la nostra. Colonizzata anche nell’immaginario. Come uscire da questa situazione? La risposta degli opinionisti di regime la conosciamo bene: se la RAI non va la colpa è dei partiti, “il vero cancro”, secondo gli “esperti”[7]. Ma le cose stanno davvero così, davvero è tutta colpa dei partiti? Strano, perché all’epoca di Bernabei[8] i partiti erano già fortissimi eppure quella era una RAI che trasmetteva in prima serata persino il King Lear di Shakespeare diretto da Peter Brook! Io avrei una spiegazione diversa, un tantino più impopolare, che coincide peraltro con quella espressa anni fa da Sandro Curzi proprio nella sua qualità di consigliere d’amministrazione – e finita subito nel dimenticatoio ad onta della fama del suo autore: Sandro Curzi “Intervista a L'Espresso: influenza Mediaset, Massoneria Roma, 7 lug. (Apcom) - Per il consigliere anziano della Rai Sandro Curzi la Rai " e'sull'orlo del precipizio". La dichiarazione e' contenuta in una intervista "L'Espresso". Chi governa la Rai oggi? "C'e' la politica, ci sono i partiti - rincara Curzi - ma c'e' dell'altro. Roba che ai tempi non era cosi' forte. C'e' il controllo e il filo diretto di Mediaset. Per esempio - racconta Curzi - il cda si era messo d'accordo su Fabio Fazio come conduttore di 'Affari tuoi', al posto di Paolo Bonolis, star che la Rai ha vistosamente lasciato scappare. Poi Fabrizio del Noce, senza dire nulla, blocca Teo Teocoli che stava a Mediaset. Ma l'influenza della tv berlusconiana e' nota. Qualcos'altro mi ha fatto impressione. Gli incappucciati. Era gia' un obiettivo della P2 il dissolvimento della Rai. Quasi ci siamo. Il peso degli incappucciati nella tv pubblica e' enorme. La massoneria si e' infiltrata e ha preso grande potere approfittando dello sfilacciamento dell'orgoglio e dell'appartenenza aziendale. Hanno fatto carriera, hanno scalato il palazzo. E' sempre cosi' quando la democrazia vacilla". Curzi afferma di aver trovato l'azienda "per come e' stata gestita sull'orlo del precipizio"[9]. Questo è il punto: i massoni sono entrati in RAI e sospetto, da quanto detto in precedenza, che proprio RAI Fiction sia diventata una loro roccaforte. Il massone interpretato da Corrado Guzzanti Il che è inquietante perché i massoni, a differenza della maggior parte dei “profani”, non solo sanno ciò che vogliono ma sanno anche come ottenerlo: nello specifico, trasformare i telespettatori in una massa di decerebrati ignorante e pronta a essere manipolata e plasmata dai governanti. Fornisco un ultimo esempio di quanto detto finora: le produzioni di argomento mafioso. Confrontate la serietà della ricostruzione storica de Il delitto Notarbartolo (sceneggiato RAI del 1979) con le odierne (pulp) fiction: anche quelle girate dalla RAI sembrano spot Mediaset … 1] http://it.wikipedia.org/wiki/Il_giornalino_di_Gian_Burrasca_(sceneggiato_televisivo) [2] http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-e345d791-1974-482d-9875-c64d5e991507.html Il commento di Decaro sul “Giornalino” e sulla vecchia RAI si ascolta a partire dal minuto 17°. [3] http://www.fiction.rai.it/dl/RaiFiction/raifiction.html [4] http://paolofranceschetti.blogspot.it/2008/12/blog-post.html [5] http://www.digital-forum.it/archive/index.php/t-44138.html [6] http://it.wikipedia.org/wiki/Cinema_dei_telefoni_bianchi . Con il termine “telefoni bianchi” mi riferisco al taglio propagandistico più che al livello professionale: gli anonimi registi odierni non sono certo paragonabili ad artisti come Blasetti o Camerini. [7] http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/11/riforma-chi-tocca-i-fili-muore/182911/ [8] http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-ettore-bernabei-luomo-che-invent-la-tv-racconta-i-suoi-novantanni-di-potere2-25121.htm [9] http://www.prcaprilia.it/news/new.asp?id=58 I

lunedì 23 aprile 2012

Incontro all'Università di Verona su Feronia e il suo possibile culto a Verona

Feronia a Verona Venerdì 4 Maggio 2012 · Feronia E i culti Femminili legati alle acque Venerdì 4 Maggio 2012 Università degli studi di Verona h 14.30 Aula 2.3 Polo Zanotto La conferenza aperta a tutti è condotta dalla dott. Marianna Scapini Programma: Apertura del convegno Lettura del contributo dell’archologo Gazzetti che scava a Lucus Feroniae Renato Del Ponte: Feronia, dea italica e mediterranea, la gens Valeria e il monte Soratte Intervento di Giovanni FEO, I Luoghi di Soranus e Feronia Emanuela Chiavarelli: intervento di taglio antropologico: Indagine su Feronia Lettura del contributo di Leonardo MAGINI conoscitore dei santuari laziali e dell’archeo-astronomia etrusca Intervento di Margherita Fiscato, studentessa di Verona che ha scritto una tesi su Feronia Piccolo contributo di Luigi Pellini a proposito di una possibile presenza del culto di Feronia nel Veronese: Il possibile culto di Feronia a Verona Attilio Mastrocinque chiude, con un intervento su Feronia e il tema della liberazione degli schiavi e tirando le somme: Feronia e la liberazione degli schiavi Conclusioni e dibattito Organizzazione di: Luigi Pellini, Gabriel Maria Sala, Marianna Scapini Informazioni: mariannascapini@gmail.com

venerdì 20 aprile 2012

Il nome segreto di ROMA

Nonostante l'età sei sempre più bella e carica di fascino indescrivibile. Da un piccolo villaggio sei diventata poleis dilatandoti fino a segnare i confini del mondo antico. Molti millenni hai davanti, auguri e vita eterna! Fra i tanti misteri di Roma c'è quello del suo nome. Quando gli storici antichi cominciarono a interrogarsi sulla sua origine e sul significato, si erano già recisi i fili della memoria e le interpretazioni si accumulavano : contraddicendosi; né i moderni sono riusciti a giungere a una conclusione convincente. Servio, vissuto tra il quarto e il quinto secolo d.C., sosteneva che derivasse da un nome arcaico del Tevere, Rumon o Rumen, la cui radice era analoga al verbo ruo, scorro; sicché Roma avrebbe significato la Città del Fiume. Ma Servio era il solo a collegare il nome al Tevere, il quale d'altronde era stato chiamato anche Albula per la presenza di argille nel suo letto '. Gli storici di lingua greca, ispirandosi a Ellanico di Lesbo, vissuto nel quinto secolo a.C., narravano invece sulla scia dell'Iliade l'arrivo di un gruppo di profughi troiani sulle coste del Lazio dove il loro capo, Enea, avrebbe fondato la città dandole il nome di una delle donne, Rome, che stanca di vagabondare da una terra all'altra aveva convinto le sue compagne a bruciare le navi 2. In un'altra versione della leggenda Rome diventava la figlia di Ascanio e nipote di Enea ; e in un'altra si narrava che Rome, una troiana giunta in Italia con alcuni suoi compatrioti, sposò Latino, re degli Aborigeni, ed ebbe tre figli, Romos, Romylos e Telego- che fondarono una città chiamandola col nome della madre 4. In questi e altri racconti si riscontra un elemento comune, la derivazione del nome da un'eponima Rome di cui è certo perlomeno l'etimo: rome, che in greco significa forza. È evidente il tentativo dei Greci, che si ritenevano non senza un'eccessiva presunzione i civilizzatori dell'Italia come di altre regioni mediterranee, di considerare Roma una città di origine ellenica. La leggenda di Enea fuggiasco da Troia era già nota agli Etruschi fin dal sesto secolo, sicché Ellanico potrebbe averla riscritta con l'epilogo della fondazione di Roma, avendo notato che il suo nome era simile a rome. I NOMI DI ROMA Un millennio dopo, Servio per restituire Roma giustamente agli italici sosteneva che l'etimo greco non era se non la traduzione del nome originario della città: «Ateìo», scriveva, «asserisce che Roma, prima dell'avvento di evandro, fu a lungo chiamata Valentia e poi Roma con nome greco» Secondo una variante a queste leggende, a Enea era succeduto Ascanio che aveva diviso il regno dei Latini in tre parti con i fratelli Romylos e Romos. Ascanio avrebbe fondato Alba e altre città mentre Romos avrebbe dato il proprio nome a Roma. Poi la città rimase disabitata per qualche tempo finché non vi s'insediò un'altra colonia guidata da due gemelli, Romylos e Romos, che la rifondarono con lo stesso nome Vi è infine un terzo gruppo di interpretazioni la cui fondatezza non è da escludere. Si congettura che l'abitato del Palatino, il cui primo nucleo centrale risale all'incirca alla fine del secondo millennio a.C., avesse un altro nome, sostituito durante la dominazione etrusca da Ruma, che i Latini avrebbero poi pronunciato Roma. 11 passaggio dalla u alla o è spiegabile, secondo alcuni filologi che hanno riconosciuto nell'aggettivo rnminalis, nell'epiteto di Giove Ruminus e nella dea Rumina il nome di Roma, con un vocalismo etrusco che oscura la o in u 7. Ma, stabilita la supposta origine etrusca della parola, che cosa mai poteva significare? Si è sostenuto che Ruma fosse un gentilizio etrusco, testimoniato da qualche iscrizione la cui interpretazione ha suscitato tuttavia molte discussioni. È certo invece che ruma, con le varianti rumis e rumen, significava sia nel latino arcaico che nell'etrusco, da cui derivava, «poppa». Narra a questo proposito Plutarco nella Vita di Romolo: «Sulla rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come opina la maggioranza degli sludiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti usavano rilirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzodì, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma o poppa: oggi ancora chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini. Ad essa si offrono libagioni d'acqua, e nei sacrifici in suo onore si cospargono le vittime di latte». Se questa fosse l'origine del nome, si potrebbe interpretare ruma, come suggerisce lo Herbig, non soltanto come mammella o petto che offre il nutrimento e la vita ma anche, in senso traslato, come sede delle forze vitali racchiuse nel petto: dunque come «forte», omologo al latino I '(tienila e al greco Rome . Questa ipotesi interpretativa spiegherebbe perché venne scelta in epoca storica, come simbolo della città, la lupa di fattura etrusca identico a quello del misterioso dio che la tutelava; mai svelati pubblicamente nonostante che Giovanni Lorenzo Lido affermasse nel quinto secolo d.C.: «Impugnata la tromba liturgica, che i Romani chiamavano lituus, Romolo pronunciò il nome della città... Una città ha tre nomi: uno segreto, uno sacrale e uno pubblico. Il nome segreto dì Roma è Amor; quello sacrale Flora e Florens; quello pubblico Roma» . Che il nome segreto fosse Amor era una tarda e infondata credenza, avallata poi nel medioevo e giunta fino a noi come testimonia Giovanni Pascoli scrivendo nell'Inno a Roma: Risuoni il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri segretamente s'inalzò tra gl'inni... Amor! oh! l'invincibile in battaglia! È pur vero che la lettura del nome di Roma da destra a sinistra era conosciuta fin dall'antichità, come testimonia un graffito trovato sulla parete di una casa di Pompei, nella via tra le insulare vi e rx della prima regione: sono quattro righe disposte a quadrato, quasi allusioni alla Roma quadrata del Palatino. Le lettere esterne, partendo dall'alto e scendendo verso il basso per poi proseguire a destra e infine verso l'alto, compongono il nome di Roma alternato a quello di Amor in una sequenza dove l'ultima vocale o consonante diventa la prima lettera della parola successiva: ROMAMOROMAMOR. Ma quel graffito non può rivelare il nome segreto che era tutelato severamente, come attesta Servio ancora nel quinto secolo d.C.: «Nessuno pronuncia il vero nome dell'Urbe, persine nei riti. E così dunque Valerio Sorano, tribuno della plebe, poiché ardì pronunciare questo nome, fu rapito per ordine del Senato e posto in croce, come dicono alcuni storici; secondo altri, per timore del supplizio fuggì e in Sicilia, catturato dal pretore, venne ucciso per ordine del Senato». Secondo la tradizione romana - riscontrabile oggi ancora in molti Paesi non occidentali - il nome era la formula che esprimeva l'energia di ciò che si nominava. Conoscere il nome era conoscere la cosa, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi per poter influire - nel bene e nel male - sulla cosa stessa. Conscguentemente i Romani usavano evocare negli assedi il dio che aveva in tutela la città assediata promettendogli un culto pari o maggiore in Roma. «Per questo motivo i Romani», scriveva Servio «vollero che fosse celato il dio nella tutela del quale è Roma, e nelle leggi pontificali si badò bene a non chiamare con i loro nomi gli dei di Roma affinchè non potessero essere oggetto di exauguratio. Sul Campidoglio vi fu uno scudo consacrato sul quale era scritto: Al Genio della città di Roma, maschio o femmina [Genio Urbis Romae sive mas sive femina]. E i Pontefici così invocavano: Giove Ottimo Massimo, o con qualunque altro nome tu voglia essere chiamato.» È impossibile dunque che il nome segreto della città sia pervenuto fino a noi perché chi era autorizzato a conoscerlo non lo avrebbe mai affidato a uno scritto, che poteva cadere nelle mani di un non iniziato provocando un sacrilegio; e se fosse stato trasmesso oralmente fino ad oggi, ipotesi che non si può totalmente escludere, non sarebbe svelato. Quanto alla storia del tribuno della plebe giustiziato per aver pronunciato il suo nome, sembra più un ammonimento che una notizia fondata perché era impossibile che il nome arcano potesse essere conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di aristocratici, ovvero di iniziati. Oggi si possono proporre soltanto alcune ipotesi non per individuare il dio sive mas sive femina e con lui il nome segreto di Roma, ma per coglierne le manifestazioni o i nomi proposti exotericamente alla venerazione pubblica. Ci pone sulla buona strada non tanto l'affermazione di Iido che il nome sacrale era Flora, la Sempiterna Fiorente celebrata alla line di aprile nei Floralia, giochi festosi e sensuali che talvolta sconfinavano durante le notti in spettacoli osceni, quanto il non casuale culto congiunto di Venere Genitrice e di Marte Ultore che la restaurazione religiosa augustea vede come divinità tanto complementari da dedicare loro lo stesso Pantheon. Si potrebbero interpretare le due divinità come i due aspetti complementari della ruma, della mammella: Venere esprimerebbe la funzione materna, Marte quella guerriera, virile; sicché non sarebbe del tutto infondato affermare che il nome di Roma, letto da destra a sinistra, alluderebbe al dio padre di Romolo e Remo e difensore della città, mentre la lettura da destra a sinistra alluderebbe a Venere, madre di enea e progenitrice del popolo romano. Ma entrambi non sono se non ipostasi della misteriosa divinità androgina cui possono attribuirsi molti nomi, anch'essi pronunciabili ovvero exoterici. La si può evocare per esempio come Mater Magna, che nel mito frigio assumeva le sembianze dell'ermafrodito Agdistis o Cibele: o non casualmente Cibele era adorata sul Palatino dov'era stata portata dall'Asia Minore nel 205-204 a.C. Oppure può assumere le sembianze del dio purificatore e fecondatore, venerato anticamente sul monte Soratte col nome di Soranus, il Lupo, da sacerdoti sabini chiamati lupi: (il Soranus che Virgilio non causalmente identificava con Apollo, il dio patrono di Augusto. Non si sorprenda il lettore di questa proteiforme epifania di divinità, normale in una religione «politeistica» dove, come osservava il cardinal Cusano ne La dotta ignoranza, i nomi dei vari dei non sono esplicazioni e aspetti funzionali di un unico ineffabile nume: nomi tratti in realtà dalla considerazione delle varie relazioni che Egli ha con le creature. Uno ineffabile che non ha un sesso definito, perché «la causa di tutte le cose», spiegava il teologo e filosofo umanista, «ossia Dio, complica in sé il sesso maschile e femminile... Anche Valerio Romano sostenendo lo stesso concetto, cantava Giove come onnipotente genitore e genitrice». A questa divinità senza nome, sive mas sive femina, Adriano s'ispirò costruendo nel secondo secolo il maestoso tempio di Venere a Roma, lungo 145 metri e largo 100, volendo significare che il nome palese dell'Urbe deificata s'identificava con la forza cosmica di coesione e di vita designata exotericamente con il nome della dea che aveva generato Enea. L'imperatore romano alludeva enigmaticamente in un gioco di specchi all'ineffabile realtà che si celava dietro le due immagini. «I templi di Roma e Venere sono della stessa grandezza e alle due divinità si offrivano incensi contemporaneamente» cantava il poeta Prudenzio due secoli dopo: «Urbis Venerisque pari se culmine tollunt Templea: simul geminis adolentur tura deabus».