La morale cristiana, per Nietzsche, ha corrotto e avvelenato l’amore per la vita
di Francesco Lamendola - 20/01/2012
Nietzsche detestava il cristianesimo perché vedeva in esso una terribile aberrazione, un imperdonabile delitto contro la vita: pensava che la sua morale fosse interamente costruita sul risentimento e sul desiderio di rivincita dei deboli, dei malati, degli sconfitti nei confronti dei forti, dei sani e dei vittoriosi.
Non era certo il solo a pensarla così, anzi diciamo che si trattava di una tentazione filologica abbastanza diffusa: si pensi al Carducci di «Alle fonti del Clitumno»: all’innamorato della civiltà di Grecia e di Roma, il cristianesimo faceva l’effetto di un rachitismo vitale, di un ripiegamento della vita su se stesa, di un tradimento nei confronti dei più sani istinti, dei più nobili appetiti dell’uomo, a cominciare dal sacrosanto diritto all’egoismo.
E Nietzsche era filologo dalla pianta dei piedi alla radice dei capelli; il suo Zarathustra è la creatura partorita da una mente filologica e di un animo estetizzante, a cominciare dal nome (perché non semplicemente Zoroastro, come dicono tutti?); il suo disprezzo per il cristianesimo è di matrice filologica, viene dal disgusto di Plinio il Giovane nella famosa lettera a Traiano e viene dal sentimento libero, forte e guerriero della vita, così come erompe dai versi di Omero o dalle pagine di Cesare (ma non certo da Virgilio e meno ancora da Lucrezio), che trova insopportabile l’idea di una vita “vera” che sta al di là, di un Dio personale che crea e governa il mondo.
In più, Nietzsche è figlio dell’Illuminismo ed è figlio del Positivismo: dall’uno prende l’antipatia di Gibbon e di Voltaire per il cristianesimo in quanto religione eversiva del popolino e degli schiavi, contro il mondo aristocratico di Roma; dall’altro prende la fede radicale nell’aldiqua, nel progresso, nella scienza, nella realtà fattuale.
Però non si limita, come Carducci, a deprecare che la mansuetudine del cristianesimo abbia sento il sentimento virile della vita e l’idea dell’impegno attivo, civile e militare, nella dimensione terrena, per inseguire paradisi ultraterreni; egli è anche figlio di Feuerbach e, a suo modo, persino di Marx: dal primo trae l’idea che Dio è la proiezione, da parte dell’uomo, di quel che gli manca e che bisogna riscoprire l’«homo homini Deus», la divinità dell’uomo in mezzo ai suoi simili, dall’altro l’idea della religione come oppio dei popoli, come inganno dei preti, come ciarlataneria e come bassa calunnia contro la dimensione concreta dell’esistenza.
Il suo è un vitalismo radicale ed emotivo, un «dire sì alla vita» qualunque cosa essa ci riservi, incondizionatamente, virilmente, non una volta, ma infinite volte (la dottrina dell’Eterno ritorno dell’uguale), intendendo per “vita” il dato immediato e auto-evidente del nostro esserci, l’«hinc et nunc», il qui ed ora senza residui, senza rimpianti e senza illusioni ultraterrene.
Che si tratti di illusioni, a dire il ero, Nietzsche non si prende il disturbo di dimostrarlo: lo afferma, puramente e semplicemente, con un tale vigore, con un tale impeto, con una tale insistenza, da far sospettare che si tratti più di un tentativo di convincere se stesso, di tacitare i propri dubbi, che pure c’erano e non erano cosa da poco, se proprio dalla sua penna è uscita una delle poesie più intimamente religiose che siano mai state scritte, «Al Dio ignoto», la cui bellezza e profondità sono così struggenti, che ci piace riportarla qui di seguito per meglio far comprendere questo lato della sua personalità:
«Ancora, prima di partire / e volgere lo sguardo innanzi / solingo le mie mani levo / verso di Te, o mio rifugio, / a cui nell’intimo del cuore / altari fiero consacrai / ché in ogni tempo / la voce tua mi chiami ancora. // Segnato sopra questi altari / risplende il moto: “Al Dio ignoto”. / Suo sono, anche se finora / nella schiera degli empi son restato: / suo sono e i lacci sento, / che nella lotta ancor mi atterrano / e, se fuggire / volessi a servire mi piegano. / Conoscerti voglio, o Ignoto, / Tu, che mi penetri nell’anima / e mi percorri come un nembo, / inafferrabile congiunto! / Conoscerti voglio e servirti!»
Invero, vi è qualcosa di tragico nel fatto che un animo così intimamente religioso, come quello che ha scritto tali versi, sostenesse poi di aver voglia di lavarsi le mani ogni volta che veniva a contatto con un individuo religioso; e che abbia a tal punto frainteso, storpiato e reso irriconoscibile l’immagine di Cristo e il messaggio del cristianesimo, ottenebrato da un livore che non concede spazio a un reale confronto con i testi cristiani, con la storia e con la tradizione, ma che prende a bersaglio i luoghi comuni più grossolani a superficiali della cultura radicale e massonica di fine Ottocento; di quella stessa cultura che, in Germania, aveva spinto il principe di Bismarck a scatenare la sua Kulturkampf, la sua «battaglia per la civiltà» contro la Chiesa cattolica, accusandola, illuministicamente, di tutti gli oscurantismi e di tutti i privilegi che apparivano così inaccettabili e anacronistici alla moderna coscienza europea.
Nietzsche volle farsi l’Anticristo, ovvero la reincarnazione di Dioniso contro il Galileo, contro il portatore del lugubre vangelo della stanchezza, della rassegnazione e della negazione degli istinti vitali; ma che cosa, in sostanza, gli rimproverava? Di aver predicato l’amore fra gli uomini, la fratellanza in Dio, il perdono delle offese? Forse, a ben guardare, non tanto questo, ma il grave fraintendimento di quella dottrina che era stato fatto, nel corso della storia, da coloro che si dicono cristiani: e forse, anzi certamente, più in ambito protestante, luterano e calvinista, che in ambito cattolico (egli stesso era figlio di un pastore luterano).
Che una intelligenza brillante come la sua non sia resa conto di aver diretto i suoi strali contro il classico mulino a vento e non contro un nemico reale, è uno di quei fatti che lasciano pensosi e che ricordano quanto sia facile, anche per la mente più audace e vigorosa, scivolare su una buccia di banana, quando si perde il senso del limite e ci si abbandona orgogliosamente a una sapienza tutta umana e solamente umana, che esclude e rifiuta ogni legame con l’Assoluto, per rinchiudersi in se stessa e avviarsi all’inevitabile corto circuito.
Questa, e solo questa, ci sembra essere la giusta chiave di lettura per capire il dramma di Nietzsche, la sua caduta, la sua follia: non le banali spiegazioni mediche legate a questa o quella malattia, ereditaria o no, ma l’aver suscitato in se stesso il massimo della potenza, della tensione e della volontà, in una tensione infinita verso la “santità” della vita, negando ad esse il naturale sbocco verso la trascendenza: come dire, aver imprigionato delle forze più che umane entro il fragile involucro di una mente umana finita e orgogliosa della propria finitezza.
Così, dunque, Nietzsche nel capitolo conclusivo di «Ecce homo», l’ultima opera scritta prima di precipitare nella follia e il suo testamento spirituale (traduzione di Silvia Bortoli Cappelletto, Newton Compton, 1993, §§ 7-8):
«Sono stato compreso? Ciò che mi divide, ciò che mi mette da parte rispetto a tutto il resto dell’umanità, è di aver SCOPERTO la morale cristiana. Per questo avevo bisogno di una parola che avesse in sé il senso di una sfida contro tutti. Non aver aperto prima gli occhi su questo punto è secondo me la massima sozzura che l‘umanità abbia sulla coscienza, è l’autoinganno divenuto istinto, la fondamentale volontà di NON vedere ogni avvenimento, ogni causa, ogni realtà, è falsificazione “in psychologicis” fino al crimine. La cecità di fronte al cristianesimo è il crimine “par excellence” - il CRIMINE CONTRO LA VITA… I millenni, i popoli, i primi e gli ultimi, i filosofi e le vecchiette - tolti cinque o sei istanti nella storia, io sono il settimo - su questo punto sono degni gli uni degli altri. Il cristiano è stato fino ad oggi “l’essere morale”, un’impareggiabile curiosità – e, in quanto “essere morale”, più assurdo, più bugiardo, più vanitoso, più sconsiderato, PIÙ DANNOSO A SE STESSO di quanto il maggior dispregiatore dell’umanità avrebbe mai potuto sognare. La morale cristiana - la più maligna forma della volontà di mentire, la vera Circe dell’umanità: ciò che essa ha CORROTTO: NON è l’errore in quanto errore che mi fa inorridire qui, NON la mancanza millenaria di “buona volontà”, di disciplina, di decoro, di coraggio nelle cose dello spirito, che si svela la sua vittoria: - è l’assenza di natura, è il dato di fatto assolutamente orribile, che la CONTRO NATURA riceve i massimi onori proprio in quanto morale e in quanto legge, imperativo categorico, continua a restare sospesa sull’umanità!... Sbagliare fino a questo punto, NON come singoli, NON come popolo, ma come umanità!.... Aver imparato a disprezzare gli istinti primari della vita; aver FINTO la esistenza di un’“anima”, di uno “spirito”, per profanare il corpo; aver insegnato a vedere qualche cosa di impuro nel presupposto della vita, nella sessualità; aver cercato nella più profonda necessità della crescita, nel SEVERO egoismo (- e la parola stessa è diffamatoria!), il principio del male; e avere visto al contrario il valore più alto nel segno tipico del declino e della contraddittorietà degli istinti, cosa dico, il VALORE IN SÉ!... nel “disinteresse” e nell’”amore del prossimo” (- MALATTTIA del prossimo!)…. Come! L’umanità stessa è in “décadence”? Lo è stata sempre?, nella perdita di peso, nella “spersonalizzazione” - ciò che è certo è che le hanno INSEGNATO a considerare come i valori più alto soli i valori di “décadence”. La morale della rinuncia è “par exellence2 la morale della degenerazione, è la constatazione “io sono perduto” tradotta nell’imperativo “dovete perdervi tutti” - e NON SOLO nell’imperativo!... Quest’unica morale che è stata insegnata sinora, la morale della rinuncia sa sé , tradisce una volontà di morte, NEGA la vita nel suo principio fondamentale. - Resterebbe aperta qui una possibilità, che non già l’umanità sia degenerata, ma solo quella specie di uomo parassitario, il PRETE, che per mezzo della morale si innalzato, mentendo, fino a determinare i valori, - quello che ha trovato nella morale cristiana i suoi strumenti di POTERE. E in effetti questa è la MIA opinione: i maestri, le guide dell’umanità, i teologi tutti, sono stati anche tutti quanti “décadents”: PERCIÒ la trasvalutazione di tutti i valori nel senso di un’ostilità alla vita, PERCIÒ la morale… DEFINIZIONE DELLA MORALE: morale - idiosincrasia di “deécadents”, con il secondo fine di vendicarsi DELLA VITA - e con successo. Attribuisco un VALORE a questa definizione. […]
Tutto ciò che sinora si è chiamato “verità”, è stato riconosciuto come la forma più dannosa, più maligna, più sotterranea della menzogna:; il santo pretesto di “rendere migliore” l’umanità come astuzia per SUCCHIARE la vita stessa, toglierle il sangue. Morale del VAMPIRISMO… Chi ha scoperto la morale ha scoperto con ciò il non valore di tutti i valori ai quali si crede o si è creduto; nei tipi umani più venerati, e addirittura santi non vedo più nulla di degno di stima, vedo la più infausta specie di mostri, infausta, PERCHÉ AFFASCINA… Il concetto di Dio inventato come contro concetto della vita, in esso è ricondotto ad un’orribile unità tutto quanto è dannoso, venefico, calunnioso, l’intera mortale ostilità alla vita! Il concetto di “al di à”, di “mondo vero”, inventati per togliere valore all’UNICO mondo esistente - per non lasciare alla nostra realtà terrena alcuno scopo, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di “anima”, di “spirito”, e infine anche di “anima immortale”, inventati per disprezzare il corpo, per renderlo malato - “santo” - per opporre un’orribile leggerezza a tutte le cose che nella vita meritano serietà, ai problemi del nutrimento, dell’abitazione, della dieta spirituale, della cura delle malattie, della pulizia, del tempo atmosferico! Invece della salute, la “salvezza dell’anima” - cioè a dire una “folie circulaire” tra gli spasimi della penitenza e l’isteria della redenzione! Il concetto di “peccato”, inventato insieme a tutti i relativi strumenti di tortura, al concetto di “libero arbitrio”, per confondere gli istinti e fare della diffidenza contro gli istinti una seconda natura!Nel concetto di “oblio di sé”, del “rinnegamento di sé”, che è il vero segno distintivo della “décadence”, l’essere SEDOTTI da quanto è dannoso, il non-poter-più-trovare il proprio vantaggio, l’autodistruzione, fatti segno di valore in generale, del “dovere”, della “sanità”, del “divino” nell’uomo! Infine - è la cosa più orribile nel concetto dell’uomo BUONO si è preso partito per tutto ciò che è debole, , malato, malriuscito, sofferente, di tutto ciò CHE È DESTINATO AD ANDARE IN ROVINA -, la legge della SELEZIONE è invertita, si è trovato un ideale nel contrario di un uomo fiero e compiuto, che dice di sì, , che è conscio del futuro - che garantisce il futuro, - d’ora in avanti questi è chiamato IL CATTIVO… E tutto ciò è stato ritenuto MORALE! “Ècrasez l’infâme”!»
Queste parole, scritte solo pochi giorni prima della catastrofe mentale di Nietzsche, che si verificò agli inizi di gennaio del 1889, possiedono una forza iconoclasta, una voluttà di blasfemia, ma anche una povertà di ragionamento, che ricordano certe pagine filosofeggianti del marchese De Sade, nelle quali il “divino” marchese espone la sua personale concezione del bene e del male e, soprattutto, del piacere dovuto a se stesso.
Non a caso l’ultima frase è la citazione, in francese, del famoso grido di guerra di Voltaire, «schiacciate l’infame», rivolto contro l’intolleranza e anche, indirettamente, contro la religione cristiana e la morale cattolica, dal filosofo illuminista identificate con quanto vi è di più turpe, di più superstizioso e di più oscurantista nella cultura europea.
In effetti, Nietzsche si è sempre sentito un figlio dell’Illuminismo; lo dice e lo ripete nel corso delle sue opere; di più: ha sempre professato una ammirazione incondizionata per i “philosophes”, per la chiarezza e limpidezza del pensiero francese, mentre ha sempre aspramente tuonato e ruggito contro il filisteismo tedesco, contro la limitatezza tedesca, contro l’ipocrisia tedesca; ha sempre visto in Lutero un pazzo monaco fanatico e in Leibniz, Kant ed Hegel dei sistematizzatori pedanti e stucchevoli, incapaci di tagliare il cordone ombelicale con la tradizione - cioè, in buona sostanza, con il tanto aborrito cristianesimo -, dei chiacchieroni senza originalità e senza audacia.
Ma veniamo alle sue critiche alla religione cristiana.
Se non ci trovassimo di fronte a uno dei più forti pensatori del XIX secolo, la cui filosofia non cessa di tener desta l’attenzione e di suscitare discussioni e dibattiti, si stenterebbe a riconoscere dignità speculativa alle affermazioni apodittiche, legnose, generiche e palesemente emotive (evidenziato, quest’ultimo aspetto, dalla sintassi spezzata e dall’uso dei frequenti punti esclamativi e di altri segni d’interpunzione); così come si stenterebbe ad attribuire a Picasso certi disegni, certi schizzi, che pure alle aste d’arte vengono quotati per somme favolose, se non si pensasse a quell’altro Picasso, all’autore di alcune opere fondamentali della cultura pittorica novecentesca.
«Quandoque bonus dormitat Homerus», dice Orazio nella sua «Ars poetica»: perfino il buon Omero, talvolta, sonnecchia; e «Neque semper arcum tendit Apollo» (sempre Orazio, stavolta nelle «Odi»), Apollo non sta tutto il santo giorno a tendere l’arco con la freccia incoccata: e perché no, anche il buon vecchio Nietzsche non si può dire che sia sempre perfettamente sveglio e in forma, qualche volta si lascia andare a buttar giù cose che persino un qualunque studentello di filosofia potrebbe contestargli, per mancanza di rigore logico.
Certo, in questa pagina Nietzsche tira le somme di molti anni di riflessioni e di scritti sul tema della morale, e particolarmente della morale cristiana; resta il fatto che non argomenta, non discerne, appiattisce tutto e confonde tutto in un unico minestrone: non distingue nemmeno tra cristianesimo come dottrina e cristianità come insieme dei cristiani, con il loro comportamento più o meno coerente, più o meno fedele nei confronti di tale dottrina; né distingue tra il cristianesimo delle diverse epoche, in particolare tra quello medievale e quello contemporaneo.
A Torino, pochi mesi prima che vi giungesse Nietzsche, si era spento San Giovanni Bosco, il santo dei ragazzi e del sorriso: per poco i due uomini non si erano incontrati; possibile che il filosofo tedesco non avesse mai conosciuto, non avesse mai saputo dell’esistenza di cristiani della statura morale, della forza e della letizia di un Don Bosco, del quale tutto si può dire, tranne che fosse un “decadente” e un odiatore della vita?
Qui ci sembra che si annidi uno dei nodi centrali del moderno dibattito sul cristianesimo e anche uno dei più gravi malintesi, che esso sia voluto, oppure no.
Il cristianesimo è una dottrina religiosa e morale: può piacere o non piacere, ma non si ha il diritto di confonderlo con la cristianità; e questo è un principio metodologico che riteniamo valido nei confronti di ogni religione e di ogni ideologia.
Davvero, dopo aver letto il Vangelo, si possono onestamente condividere gli sferzanti, beffardi giudizi di Nietzsche sulla morale cristiana; o non si dovrebbe piuttosto pensare che egli avesse in mente certe distorte interpretazioni di essa, certe vere e proprie patologie di taluni cristiani, che poco hanno compreso del’autentico senso del Vangelo?