giovedì 30 aprile 2009



Thermite. La prova scientifica della demolizione delle torri
di John S. Hatch - 29/04/2009

Fonte: Come Don Chisciotte



Un recente articolo pubblicato da nove noti scienziati sulla rispettabile
rivista scientifica soggetta a peer-review “Open Chemical Physics Journal”,
offre prove inconfutabili riguardo al fatto che la polvere derivata dal
crollo delle Twin Towers e dell’edificio 7 del World Trade Center contenga
piccoli campioni intatti di Thermite. [1]

La Thermite è un agente altamente esplosivo consistente soprattutto in
alluminio e ossido di ferro, e viene normalmente utilizzato per tagliare l’acciaio
nelle demolizioni controllate, nonchè nelle saldature e nell’ambito
militare.

Utilizzando il microscopio elettronico, la “scanning electron microscopy”,
la spettroscopia dispersiva differenziale a raggi-X (“X-ray energy
dispersive spectroscopy”) e la calorimetria differenziale, gli scienziati
sono stati in grado di dimostrare che la Thermite individuata era di un tipo
speciale chiamato Nano-Thermite o Superthermite. Essa brucia ad una
temperatura elevata e ha una più bassa temperatura di accensione rispetto
alla Thermite normale, inoltre viene prodotta in laboratori come il
“Lawrence Livermore” che, guarda caso, è lo stesso laboratorio in cui venne
prodotto l’antrace spedito poco dopo l’ 11 Settembre.

Nella foto: acciaio fuso cade dalle torri prima del crollo.



[Le colonne di acciaio delle torri tranciate di netto.]


La Nano-Thermite non può essere presente accidentalmente nei campioni di
polvere prelevati in quattro luoghi diversi, né poteva essere il risultato
delle operazioni di pulizia a ground-zero, dato che uno dei campioni fu
recuperato all’incirca dieci minuti dopo il crollo della seconda torre.
Tutti i campioni mostrarono la stessa struttura e composizione.

Ciò potrebbe spiegare il fiume di acciaio fuso (non alluminio) caduto da una
delle torri, e il fatto che l’acciaio fuso stesso rimanesse tale tra le
macerie per più di un mese dall’avvenimento dell’attacco.




Non esistono spiegazioni scientifiche per questo fenomeno se non quella dell’uso
della Thermite, che può raggiungere temperature di 3500 gradi Celsius,
mentre, se sottoposto a condizioni di temperatura normali, il combustibile
per aviogetti raggiunge a malapena i 285 gradi Celsius. Ciò spiegherebbe tra
l’altro anche la velocità di caduta, normalmente impossibile dal punto di
vista fisico, dei tre edifici, e il loro crollo così uniforme.

E allora, cosa significa tutto questo? Significa che ci sono le prove (che
finora nessuno è riuscito a confutare) che gli edifici del WTC (e più di
tremila vite, contando anche le morti dei primi soccorritori e dei normali
cittadini di NYC causate dalla polvere) sono caduti grazie ad una
demolizione guidata in una maniera pianificata e decisa da qualcuno dell’amministrazione
Bush, molto probabilmente per fungere da “evento catalizzatore” , la nuova
“Pearl Harbor” ingenuamente definita dalla neo-con PNAC (Project for the New
American Century) e designata a galvanizzare i cittadini americani a
sostegno dell’attacco ad altre nazioni e alla restrizione dei diritti umani
a casa propria. La “Full Specter Domination”.

Questa fu la scusa per invadere l’Afghanistan e l’Iraq (c’erano anche dei
piani militari per conquistare la Siria e l’Iran, e forse altri paesi ), per
giustificare lo spionaggio domestico, le sparizioni, le torture ed i
massacri. Massacri basati sulle bugie e sull’inganno, e sull’uccisione di
cittadini americani.

Sapendolo, come di certo egli saprà a tutt’oggi, che l’11 Settembre è stato
concepito e attuato non da qualche sperduta e buia caverna dell’Afghanistan,
ma piuttosto da qualche bunker nel freddo e umido Cheneystan , siamo sicuri
che il presidente Obama continuerà ad insistere con il suo “guardare avanti”?
Quanto profonda è la riserva americana di negazioni e smentite?

Provo dolore per tutte le vittime dell’11 Settembre, passate, presenti e
future, ma specialmente sono tormentato per tutti quei poveracci che hanno
scelto di buttarsi o sono caduti verso la morte. Sicuramente coloro che
hanno compiuto questo scempio devono essere messi nelle mani della
giustizia. Altrimenti l’America non guarderà mai avanti. Ha gli occhi chiusi
e ciechi mentre farfuglia grosse stupidità.

[1] Vale qui la pena di riportare la traduzione della frase finale nelle
conclusioni dell'articolo citato: “Sulla base di queste osservazioni
concludiamo che lo strato rosso delle scheggie [chip] rosso-grigie da noi
trovate nella polvere del World Trade Center è materiale termitico attivo
ancora non sottoposto a reazione, incorporante della nanotecnologia, ed è un
materiale pirotecnico o esplosivo fortemente energetico.” N.d.r.

John S. Hatch è uno scrittore e regista di Vancouver. Mail:
john.s.hatch@gmail.com

Titolo originale: "Thermite"

Fonte: http://informationclearinghouse.info
Link http://informationclearinghouse.info/article22408.htm
14.04.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ADERLAIS
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5841


Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it


Tratto dal quotidiano Repubblica

Primo maggio, palio di cuccagna guitti e leccornie da Medio Evo
di Claudio Rendina

Alle origini della festa del lavoro nell´antica Roma ci sono le celebrazioni del risveglio della natura, le Floralia, perché dedicate alla dea Flora. Ma è all´epoca di Cola di Rienzo che la ricorrenza esplode: le "sassaiole" a Campo Vaccino, il ballo in piazza San Marco, il maiale dei principi Colonna
Alle origini della festa del lavoro di giovedì primo maggio nell´antica Roma ci sono le celebrazioni del risveglio della natura, le Floralia, perché dedicate alla dea Flora. Celebrate con ogni sorta di divertimento, iniziavano il 28 aprile e culminavano nelle calende di maggio in baccanali con una finalità erotica. Il cristianesimo eredita le Floralia in riferimento ad una festa più pura della natura in fiore, ricollegandola a ricorrenze legate alla Vergine, ma con scarso seguito di fronte ad una affermazione nel Medio Evo del palo di maggio. Che diventa appunto il simbolo della festa del primo maggio in tutte le città, come esplosione della natura che si rinnova e della giovinezza. E il simbolo è l´Albero di Maggio appunto, o semplicemente il Maggio, una specie di palo della Cuccagna, simbolo della vegetazione che si rinnova ogni anno.

Ma la festa non ha una cultura di fondo gentile a Roma, dove diventa una rappresentazione grottesca, quasi una caricatura, e i sorrisi tutta gaiezza si trasformano in « «risate scrocchiarelle» « e « «boccacce da fa´ p´er gran morì da ride´, scoppià er gracile». Una descrizione di grande efficacia di questa festa romana è nell´opera intitolata Maggio romanesco, scritta nel 1688 da Giovanni Camillo Peresio, e illustrata più di un secolo dopo da Bartolomeo Pinelli. Il poema, col sottotitolo Il Palio Conquistato, è il racconto della lotta accanita, e per lo più comica, tra i bulli dei diversi rioni per la conquista dell´ambito premio. Ambientata nella Roma di Cola di Rienzo, la festa racconta le spacconate del bullo monticiano Jacaccio contro il campione trasteverino Titta. E la vicenda culmina in una furibonda "sassaiola" a Campo Vaccino, che coinvolge bottegai e bancarellari, una vera e propria guerriglia a base di tegami, con tanto di cocci e teste rotte.

Altro irrinunciabile appuntamento di questo giorno era il "ballo de li guitti", che si teneva in piazza San Marco di fronte alla statua parlante di Madama Lucrezia, tutta "impimpinata" per l´occasione. C´erano ballerini di ogni tipo: certe "pacioccone de li Monti, sciarmante davero", ma anche "certe gamme a ìcchese e certi gobbi e gobbe, che a vedeje ballà er sartarello, dice ch´era un morì da ride". La festa del Calendimaggio era anche un fatto privato dei principi Colonna. Che la celebravano davanti al proprio palazzo e veniva chiamata La cuccagna dei Santi Apostoli, ma il protagonista era il popolo. Dalle finestre del palazzo si gettavano volatili e leccornie sulla folla che si azzuffava per acchiapparli; dal soffitto della vicina basilica si calava poi un maiale con una fune e la gente zompava qua e là per afferrarlo e tagliarne dei pezzi con i coltelli, mentre dalle finestre scrosciava sugli scalmanati una doccia d´acqua fredda. E i nobili ridevano.

Oggi con l´avvento della festa del lavoro, tutto si risolve in una giornata di riposo (come dire « «Nun se lavora» «), con una fuga al mare o in campagna. Anche la Chiesa si è adeguata alla ricorrenza e ha inserito al primo maggio la celebrazione di san Giuseppe artigiano, anche se non è considerata una festa di precetto.

La Sartiglia di Oristano



Più che la Sartiglia si potrebbe anche parlare delle Sartiglie .Cavalcate di un singolo e giovane cavaliere, ma anche di gruppi di cavalieri accrobati che coinvolgono la folla in emozioni antiche ma sempre spettacolari e piene di vita e di speranza.
Una festa senza dubbio pagana che si celebra appena finita la Pasqua cristiana che invita e induce alla rinascita della natura affinché le colture agricole siano abbondanti e ricche.
Viene vestito e addobbato un centauro che rappresenta uno dei centri della festa, il cavaliere assomiglia ad una femmina (un po’ per il retaggio della grande Madre ancora vivo in Sardegna, ma forse anche perché rappresenta un essere androgino che assimila le due nature). Androgenitura come lo sciamano di certe culture siberiane che si vedeva vestito metà da uomo e meta da donna, e anche questa lontana tradizione riconosceva nel mediatore con gli altri mondi l’essere privilegiato che cavalcava un bastone e preposto ai riti propiziatori.
Ecco che la festa si incentra sulla cavalcata, più cavalieri salgono in maniera acrobatica formando una torre umana su due cavalli.E’ l’energia di questi giovani che calamita e costituisce la festa in tutta la sua bellezza e purezza. Sono corse sfrenate con giochi pericolosi, fra sfida e rito di passaggio. La tensione e lo spettacolo coinvolgono tutti i presenti anche le persone che non sono del luogo, tutto è in funzione della terra che deve risvegliarsi, al mondo che deve elargire quelle energie necessarie alla crescita e alla fruttificazione, un mondo pastorale pienamente inserito nell’ambito agricolo, che conosce il simbolo del cavallo, animale degli inferi che percuote con i suoi zoccoli il suolo riverberando il rumore nel sottosuolo come battendo un tamburo. Il legame arcaico di una festa dalle chiare radici pagane, e con un legame stretto e indissolubile con la terra.

mercoledì 29 aprile 2009

Alfredo Catabiani: cultore del mito




“Non sono un intellettuale di destra, né di sinistra o di centro, perché questi termini furono coniati dai rivoluzionari. E “destra” ha ormai assunto una connotazione negativa dovuta alla sinistra: l’intellettuale di destra è sempre quello incapace di capire i mutamenti della storia”.



A mettere i puntini sulle “i” è Alfredo Cattabiani, autore di numerosi libri, soprattutto sul tema del mito, del simbolo e delle tradizioni popolari, giornalista, indimenticabile direttore editoriale di quella Rusconi libri che, negli anni Settanta, rappresentò un fondamentale punto di riferimento per la cultura non conformista. “Esistono culture che possono essere assunte da una parte politica come ispiratrici. Com’è il caso soprattutto di quella destra più emarginata rispetto all’Msi prima e ad An oggi - che è poi la più viva culturalmente - che ha assunto come maestri personaggi che vanno da Pound a Chatwin, da Sedlmayr a Scnheider, da Coomaraswamy a Hossein Nasr, da Conte ad Accame, da Filippani Ronconi fino a Sermonti. Quanto alle mie opere, non hanno un riferimento immediato con la realtà politica, e quindi vengono ignorate dalla destra istituzionale”.



Qual è il suo lavoro, oggi?



Il ciclo cominciato con il Florario, passato per Planetario e poi Volario, e continua con un altro libro sugli esseri del mare, della terra, poi via via… Alla fine, se a Dio piacendo rimarrò in vita, lo intitolerò Storia della immaginazione, un po’ parafrasando la Storia naturale di Plinio il Vecchio, cioè una storia di tutto ciò che abbiamo immaginato intorno al mondo visibile. In questi giorni la Mondadori pubblica invece un mio libro atipico, Zoario - Storie di gatti, cicale, aironi e altri animali misteriosi: racconti in forma di dialogo che hanno come protagonisti degli animali evocati da due interlocutori.



Bene, cominciamo dall’inizio…



Sono nato nel cuore di Torino. La mia era una famiglia un po’ atipica. Mio padre musicista, amico di Pitigrilli, viveva di rendita avendo venduto una fabbrichetta di cioccolato. Era mia madre il “maschio” di casa. Aveva costruito un grande atélier con quaranta sarte che lei dirigeva… una costruzione splendida, costruita da Levi Montalcini, il famoso architetto degli anni Trenta, nella nuova Galleria San Federico, voluta da Mussolini insieme con l’annessa via Roma, opera del Piacentini.



Esiste ancora?



No, è stata distrutta da una jeanseria. Mia madre, Annamaria Borletti, è stata una delle grandi sarte della Torino fra le due guerre - nella Torino dei tabarin, delle donne eleganti e belle, quando arrivavano addirittura da Palermo, per farsi i vestiti - poi ancora nel dopoguerra, fino a quando quel tipo di artigianato che non badava ai mass media è stato soppiantato dai cosiddetti nuovi stilisti.



E da bambino aveva il permesso di gironzolare per l’atélier di sua madre?



Come no! E c’era un cinema lì davanti, che prima si chiamava Rex, poi con la Repubblica Sociale Dux; ne divenni frequentatore abituale quando, dopo la guerra, si trasformò in Lux…



Rex, Dux, Lux…



Sì, per mantenere artisticamente il nome in tre parole. Quindi mi sono nutrito prima della bellezza femminile, poi dell’immaginario cinematografico, visto che i proprietari erano amici di famiglia e mi permettevano di entrare gratis.



Libri?



Molto presto. Mio padre mi insegnò a leggere che avevo quattro anni, e mi diede in mano La Scala d’Oro. Contemporaneamente leggevo i fumetti, soprattutto Topolino e Il Vittorioso, con gli album di Jacovitti.



Ma, prima, la fantasia di un bambino vola sulle ali di parole dette



Mia madre aveva un temperamento tutto teso al lavoro, e poco tempo per raccontare favole. Era mio padre il fabulatore, ma più che altro preferiva intrattenerci con ricordi sabaudi. Fu lui a darmi i libri di Luigi Gramigna, con i grandi personaggi dei Savoia. E naturalmente non poteva mancare De Amicis, anche se era socialista. Il senso dell’onore, della dignità, del sacrificio, lo sentivo anche nel Cuore, nonostante le sue cadute sentimentali. Allo stesso tempo leggevo Jules Verne, Salgari…



A quanti anni?



Dieci, undici. I miei nonni materni abitavano proprio alla Madonna del Pilone, a poche decine di metri dalla casa di Salgari, dove lui si uccise: sicché Salgari era per me un virtuale vicino di casa. Ma, di quel periodo, è sicuramente il patriottismo sabaudo quello che più mi è rimasto nel sangue: sono monarchico di sentimento ma anche per convinzione, come ho spiegato nella prefazione a Breviario della tradizione di Joseph de Maistre (ed. Il Cerchio, ndr). Amo la nostra Nizza, la nostra Savoia, che considero sabaude per cultura e tradizioni. Prima le frequentavo spesso… andavo anche al mare nella Costa Azzurra italiana. Come anche nella Liguria di Ponente, sempre legata al Piemonte… Ecco, Bordighera fu una grande fonte per i miei sogni, per la mia preparazione culturale. Vi sfollammo nel dopoguerra, e continuai a frequentarla quando ancora c’erano i grandi alberghi Belle Époque.



Quindi fino a che anni?



1950… ’52. Lì visse la Regina Vittoria, tanti scrittori stranieri… c’è anche una statua della “mia” regina Margherita. Quando salivo dagli scogli di Sant’Ampelio verso Bordighera vecchia, passavo davanti alla mia regina. Così, quando a Torino incontravo in una statua i personaggi conosciuti sulle pagine di Gramigna, per me rivivevano e mi parlavano di un mondo familiare e amato. E camminando per quelle strade fiancheggiate dalle palme, sentivo - come lo può sentire un ragazzino, s’intende - che la mia vita sarebbe stata quella dello scrittore.



Ha cominciato presto?



Nella notte di apertura del Giubileo del 1950. Frequentavo la terza media, e vivevo in un piccolo albergo vicino Capo Sant’Ampelio perché soffrivo di una febbretta che aveva preoccupato i miei - sa, in quel periodo c’era il rischio della tubercolosi… Ascoltai la radiocronaca dell’apertura della Porta Santa e l’indomani, durante la notte, scrissi la cronaca giornalistica di quell’evento intitolando il foglietto, chissà perché, “Il mondo”. Lì a Bordighera cambiò qualcosa.



Dopo di che?



Tornai a Torino, all’Istituto Sociale dei gesuiti, che ho frequentato dalla prima elementare alla terza liceo, con l’intervallo di Bordighera. Mi dettero un’educazione molto importante, ma in ciò che insegnavano (anche per la parificazione con i programmi ministeriali) si era inserita la cultura dominante, che bloccò in Italia per decine d’anni l’introduzione di autori importanti, o addirittura li censurò. Il povero Cesare Pavese, che fu per un certo periodo una cotta adolescenziale anche perché io andavo con lui a remare sul Po, mi perdevo nella collina e nelle osterie, mi sentivo sperso senza una guida in quella Torino fiatizzata e laicizzata… Pavese, dicevo, fu costretto a non più pubblicare Mircea Eliade< nella Collana Blu… Fu censurata la Simone Weil, quando si accorsero che sì, aveva combattuto contro i franchisti, ma che tutto il suo pensiero non aveva nulla a che fare con il pensiero rivoluzionario, anzi era una tradizionalista, pur con tutte le sue contraddizioni. In ogni modo sin dai tredici anni cominciai a leggere sistematicamente i nostri classici insieme con quelli francesi, perché per me torinese il francese era la seconda lingua, imparata poppando… mi sono nutrito della nostra letteratura classica, che poi è la base di partenza per qualsiasi viaggio che si rispetti.



Senza sentirne il peso dell’obbligo scolastico.



Infatti. Più tardi scoprii Pinocchio, più un libro per adulti che per bambini. Un grande capolavoro di saggezza.



Ma intanto continuava a frequentare l’ex Rex-Dux ora Lux…



Cinema, sì, molto cinema, e teatro. Mio padre invece mi portava all’opera.



In tutto questo, quand’è che il mito si affaccia alla sua porta?



La svolta della mia vita fu a diciannove anni, quando conobbi Stefano Mangiante, un giovane genovese morto prematuramente, che mi diede da leggere dei libri di Guénon e di Evola, che mi aprirono una strada che nessuno mi aveva indicato.



Come l’esplorazione dell’Africa…



Precisamente. A quel punto ebbi anche un altro incontro, con amici provenienti da ambienti diversi, che si radunavano nel salotto di Augusto Del Noce: lui mi aiutò a capire la situazione storico-politica dell’epoca. Da quel momento, culturalmente parlando, arrivarono tutti: Pound, Eliade, Elliot, Schneider, de Maistre… Un giorno Del Noce diede un’indicazione ad ognuno di noi: “Dobbiamo rivisitare le culture di ogni Paese cercando di mettere in luce quella cultura che è stata dimenticata in Italia. E fonderemo una casa editrice”.



A lei cosa assegnò?



La letteratura francese. Feci la tesi di laurea sul pensiero politico di Joseph de Maistre, relatore Firpo e controrelatore Norberto Bobbio, che durante la discussione buttò per terra la mia tesi, rifiutandosi di “discutere su un teorico della schiavitù”. Al che, Alessandro Passerin D’Éntreves, grande professore liberale, intervenne dicendo che non si stava discutendo su de Maistre, ma su una tesi di laurea su de Maistre: bisognava solo dire se era scientificamente buona o no.



Conclusione?



Bobbio non parlò più, ed io ebbi il massimo dei voti. Dopo la laurea fondammo una piccola casa editrice, le Edizioni dell’Albero, pubblicammo scritti di Bernanos, Mollnar… anche uno molto incisivo di Gianfranceschi sulla teologia progressista.



Quanto durò la casa editrice?



Non molto… sa, fu un’esperienza d’inesperti… Ma venni assunto alla Borla e, anche se allora una casa editrice cattolica progressista, continuai il lavoro iniziato con L’Albero. Mi fu di grande aiuto padre Jean Daniélou, un grande teologo, studioso delle interazioni fra pensiero pagano e pensiero cristiano. Volli fare una collana “italiana”, affidandola a Del Noce, ma lui non riteneva di saperne abbastanza e mi rispose che avrebbe accettato se avessimo chiamato anche Elémire Zolla.



E Zolla?



Accettò. Zolla aprì un po’ le frontiere di quella tradizione sapienziale che avevo cominciato a leggere sulla scia di Guénon e di Evola, facendomi conoscere autori più moderni, come Marius Schneider, il più grande etnomusicologo vivente, Hans Seslmayr, che è stato uno dei massimi storici dell’arte, Mircea Eliade e altri.



Come venne accolta, questa collana?



Venne quasi ignorata: solo Il Tempo di Roma ne parlò.



L’ignoto fa paura a tutti. Siamo negli anni…



…tra il ’66 e il ’70. Poi la Borla cambiò gestione. Già da un po’ ero stanco dell’atmosfera torinese, dove mi sentivo assediato, malvisto; allora venni a Roma, dove speravo di trovare un lavoro, per esempio alla radio.



E lo trovò?



Neanche per idea. Però arrivò una telefonata da Rusconi, che mi voleva per dirigere la nuova casa editrice libraria. Ma lui era l’editore del settimanale Gente, e io risposi che non avevo alcuna intenzione di pubblicare autobiografie di attricette o cose simili. Invece l’operazione era una cosa seria. Sa che mi disse Rusconi? Che voleva pubblicare quelle opere di qualità che non venivano pubblicate altrove.



Un invito a nozze!



Sì, anche se mi dispiaceva lasciare Cavoretto, la collina sopra Torino, un luogo incantato, da hobbit, dov’ero andato ad abitare con la famiglia. Ma era mio dovere andare.



E andò, facendo della Rusconi una casa editrice sulla quale quelli della mia generazione hanno cominciato ad avvicinarsi alla cultura non conformista. Nel mio caso, la scoperta fu La cerca del Santo Graal. Tra l’altro, in quarta di copertina si pubblicizzava Il Signore degli Anelli…



Sì, fu un mio amico editore romano, Ubaldini, delle edizioni Astrolabio, ad acquistare i diritti e a farlo tradurre. Pubblicò il primo libro, ma andò male, perché la sua era una casa editrice conosciuta per la saggistica; allora lo consigliò a me. Di primo acchito non mi impressionò, e anche se condividevo pienamente il Tolkien saggista, non ero convinto. Tuttavia, col fiuto dell’editore, intuii che quel libro poteva avere un effetto importante in Italia, ma quelle millecinquecento pagine volevano dire un prezzo altissimo, un impegno enorme.



E poi che successe?



Fu Elémire Zolla a convincermi. In quel periodo aveva tenuto alcune conferenze nelle università Usa, e mi disse che gli studenti nei campus giravano con bottom su cui era scritto “Frodo è vivo”. “Non fartelo scappare” mi disse, “le mode Usa, prima o poi dilagano anche nelle province dell’impero”. Rusconi non era d’accordo, ma me lo concesse perché, disse, “è un capriccio, ma la stimo troppo per non concederle almeno un capriccio”.



Be’, fu un capriccio fortunato.



Ha inserito la gioventù di destra in un ambiente diverso dal solito… gli parlava di cose che sentivano, ma al di fuori dei conflitti politici degli autori di riferimento. Perché andava alle basi…



Ma un incontro fondamentale per me fu quello con Eliade, che veniva spesso in Italia: mi aiutò moltissimo a maturare. Fu un momento di grande arricchimento, anche interiore. Frequentai anche la famiglia di Pound, Boris de Rachewlitz e poi anche Mary.



E lui, Ezra?



Ne parlo nello Zoario, il mio imminente libro che dovrebbe piacere ai lettori di Tolkien: lo conobbi a Parigi, nel 1965. Dominique de Roux, un giovane nobile francese che dirigeva i Cahiers de l’Herne, dove pubblicava autori demonizzati dalla cultura ufficiale, aveva dato una grande festa nella sua villa in campagna in onore dello scrittore. Ezra Pound non disse una parola, tra lo sconcerto dei giornalisti; faceva molto caldo, ed io uscii sul terrazzo a fumare la pipa… in quel momento uscì anche lui, tutto solo, ci guardammo un attimo e, chissà perché, mi disse in francese “venga con me”; dopo cinque minuti sbucammo in una radura dove vi era un tempio circolare, neoclassico, e lui mi disse solo queste parole: “Vede, questo è un tempio massonico costruito da Danton. Ha capito?”, quasi mi avesse confidato un segreto… Tutto è legato all’usura, che nasce da una visione del mondo dove in realtà “égalite” e “fraternité” nascondono la parola fondamentale: la libertà selvaggia.



Per la Rusconi passarono molti autori poi divenuti famosi…



Come Cristina Campo, a me molto cara, di cui pubblicai il primo libro, Il flauto e il tappeto; scoprii Guido Ceronetti, che era solo un traduttore: gli pubblicai Difesa della luna, un libro straordinario, e poi tanti altri, finché trasmigrò all’Adelphi quando io dovetti lasciare la Rusconi. E potrei ricordare ancora Giuseppe Prezzolini, Ugo Spirito, Augusto del Noce Noce, Rodolfo Quadrelli, Quirino Principe, Mario Pomilio, Carlo Alianello, Fausto Gianfranceschi, Luigi Compagnone, Biagio Marin e fra gli stranieri, oltre a quelli già citati, Jünger, Bernanos, Alce Nero, Urs von Baltahasar…



Ma le pressioni dell’ambiente letterario erano forti?



Naturalmente. La mia presenza era quella di un intruso, un elemento di disturbo. Walter Pedullà, è storia conosciuta, disse che era giusto stendere un cordone sanitario intorno alla Rusconi, perché era colpevole non di pubblicare autori “reazionari”, ma di perseguire una politica editoriale reazionaria. Altri, come quel personaggio minore, Pier Paolo Pasolini, arrivarono alle insinuazioni più velenose, dicendo che ero l’elemento più pericoloso per la Chiesa cattolica per gli autori che pubblicavo! Alla fine nominarono un direttore generale che aveva il compito di impedirmi di pubblicare certi libri…



E lei?



Be’, continuai molto abilmente, perché a Rusconi certe cose piacevano. Feci una collana con Reale, Mathieu e il povero Emanuele Samek Lodovici, morto prematuramente: “Classici del pensiero”: Platone, Filone d’Alessandria, Plotino, tutta la grande tradizione sapienziale pagana e cristiana. Poi una collana di musica, su indicazione di Rusconi. La proposi a Paolo Isotta, ma lui voleva con sé anche Piero Buscaroli; al che Rusconi: “Eh, ma se persino Montanelli lo fa firmare con uno pseudonimo!”. A me pareva un segno di viltà, essendo lui uno dei maggiori studiosi di musica. Infine Rusconi disse di sì, e proprio grazie a questa collana, anche Montanelli lo fece firmare col suo nome.



In quegli anni non era soddisfazione da poco…



No, infatti, ma ormai ero arrivato al capolinea… troppe pressioni contro di me. Dovetti andarmene, e questo per me ha significato l’impossibilità di godere della pensione, non avendo raggiunto il numero di anni richiesto.



Lei ha avuto anche un’attività giornalistica, però.



Sì, con Il Settimanale e soprattutto con Il Tempo, ma mai più da dipendente. Pensi che Gianni Letta, allora direttore del quotidiano romano, preferì aumentarmi i compensi fino a farmi diventare uno dei più pagati, pur di non assumermi.



E perché?



Non voleva che facessi coppia con Gianfranceschi, accentuando la linea culturale che lui voleva invece annacquare. Tuttavia l’impossibilità di lavorare fisso in un giornale mi permise di avere tempo per pubblicare libri, e questo, forse, non è stato un male.



Oggi, di tutte le letture e i racconti, che cosa conserva più in profondità?



Tre frasi che sono scolpite nel cuore. Una è sulla tomba di de Maistre a Torino, nella chiesa dei Santi Martiri: “Fors l’honneur nul souci”, di là dall’onore nessun’altra preoccupazione… per me resta l’ideale fondamentale. E altre due frasi. Una di Ugo von Hoffmanstal, che cito alla fine dell’ultimo capitolo di Zoario, dove appaiono la figure di Pound ed Eliade con episodi inediti: “Con lieve cuore, /con lievi mani,/ la vita prendere,/ la vita lasciare”. L’ultima, di William Carlos Williams: “Essi odiano una cosa più di tutte: odiano la bellezza”. “Essi” è il volgo che ormai trionfa in ogni categoria sociale.



Questa intervista è stata tratta, per gentile concessione dell’autore, da “Area”.

Rogazioni processioni propiziatorie dei raccolti


Nei tempi pagani diverse processioni si svolgevano nelle campagne, nei prati sulle colline come nelle valli montane , chiamate "ambarvales", venivano compiute allo scopo di propiziare il buon esito dell'annata agraria.
Il mondo cristiano se ne appropriò dando il nome di rogazioni; Dal latino rogatio, ´preghiera´.Le funzioni rimanevano le stesse; pubbliche processioni di supplica, accompagnate dalla recita delle litanie dei santi (le divinità legate alle fecondità e all'abbondanza ), che si facevano per propiziare il raccolto e la salute delle piante e degli animali.

Ovidio ne descrisse una, che si svolgeva a Roma il 25 aprile dalla via Flaminia fino a Ponte Milvio, ove in un boschetto dedicato al dio "Robigo" (Ruggine) venivano sacrificati una cagna e una pecora. Alla fine del VI secolo, con il papa Gregorio Magno, la Chiesa "cristianizzò" queste processioni pagane. Papa Gregorio, nel suo "Sacramentario", definì questo rito "Litania maggiore" (Litania quae maior appellatur). Ai tempi nostri la Chiesa ha preferito non imporre più ai fedeli questo rito, lasciando alle Conferenze episcopali la libertà di accoglierlo o di farlo cadere. Da ciò derivano le numerose varietà e consuetudini locali che caratterizzano questi riti.
IL PAGANESIMO VIVE IMPERITURO SOTTO FORME E NOMI DIVERSI

Lo sciamanesimo

Cosa avra guadagnato l'uomo, se otterrà il mondo intero e perderà la sua anima



Un piccolo appunto sullo sciamanesimo-
si tratta del più antico sistema sapienziale e di guarigione conosciuto dall’umanità. La prima forma religiosa da cui sono state generate tutte le religioni. Caratteristica comune a ogni sciamano è il viaggio spirituale in una realtà diversa da quella percepita con i sensi normali .Il suono regolare del tamburo è il metodo principale per modificare lo stato di coscienza e rendere così possibile questa trasmigrazione estatica. Attraverso il viaggio, lo sciamano accede a un universo nascosto agli uomini ordinari, verso gli infiniti mondi, dove riceve rivelazioni e incontra spiriti alleati, in forma di animali e di maestri spirituali (saggi, antenati, divinità). Da questi spiriti egli ottiene la conoscenza e il potere per aiutare e guarire se stesso, gli altri e più in generale l'umanità, ma così facendo rigenerando il mondo intero.

sabato 25 aprile 2009

Fame ed erotismo


Anche i pesci vorrebbero essere mammiferi

venerdì 24 aprile 2009

La Filosofia è nuda come la verità



La verità è vicina alla bellezza, non ha età e si avvicina alla verità più pura.

domenica 19 aprile 2009

Natale di Roma


Il 21 aprile cade il 2.762° Natale di Roma.
Una città dalle mille risorse Ombelico del mondo

Sempre feste pagane





Cocullo come ogni anno ripropone la sua tradizionale Festa dei Serpari, che si terrà il primo giovedì di maggio.
La festa si svolge in onore di San Domenico, santo particolarmente venerato a Cocullo (AQ), città dove sono presenti anche due reliquie del santo.

venerdì 17 aprile 2009

Il super-uomo di Nietzsche




L'Ubermensch, variamente tradotto come superuomo, oltreuomo, sovrauomo eccetera, è un concetto che può essere facilmente frainteso, come in effetti è stato fatto. Dallo Zarathustra ho potuto evincere che l'Ubermensch non sia affatto un uomo superiore, migliore o più potente rispetto all'uomo comune. Esso potrebbe essere definito un concetto limite verso cui tendere ma che non può essere raggiunto dall'uomo, in quanto quest'ultimo deve coscientemente desiderare il proprio tramonto, la propria fine e la propria sconfitta affinché emerga l'Ubermensch. In senso meno misterioso, penso possa essere inteso come uno stato mentale e spirituale solo in parte raggiungibile, proprio di colui che, dopo aver compreso di dipendere per la sua stessa definizione da imposizioni esterne, agisce coscientemente contro i propri interessi legati a queste imposizioni, in modo da arrivare a un punto in cui egli può darsi da sé le proprie leggi, senza che queste vengano imposte dall'esterno.

Per questo Nietzsche fa spesso riferimento alle tavole degli antichi valori, incentrati sul disprezzo per il mondo e sulla valorizzazione di un "mondo dietro al mondo", un mondo finto che serve a dare potere a chi è troppo meschino per essere sincero (il riferimento, anche qui, è al cristianesimo e non è neppure molto velato), tavole che chiede più volte di spezzare affinché vengano creati nuovi valori, e alla figura del bambino che dice "sì" alla vita, perché sceglie i valori della terra anziché quelli del cielo, ma solo dopo che il leone (la parte dello spirito che dice "no") ha sconfitto il drago Tu-devi, ovvero ha spezzato tutti i doveri e i precetti che negano la vita.

Detto questo, penso però che esistano tante interpretazioni quanti sono gli appassionati di Nietzsche. Credo che l'Ubermensch più che una teoria filosofica andrebbe considerato come un mito. A mio parere, i passi più belli (sì, anche esteticamente) del "Così parlò Zarathustra" sull'argomento sono il Prologo, il primo dei discorsi (quello sulle "tre metamorfosi dello spirito") e il lungo brano "di antiche e nuove tavole", posto verso la fine della terza parte, che oltretutto è una specie di sunto della filosofia di Nietzsche. Ce ne sarebbero molti altri, chiaramente, ma a memoria non li ricordo...

martedì 14 aprile 2009

OPPEANO LA CITTA' CARDINE DEL VENETO ANTICO




ARCHEOLOGIA: Fin dalla seconda meta’ del secolo XIX il paese si è rilevato uno dei principali centri di testimonianza dell’età de ferro.

Di Marco Cerpelloni



Oppeano, riaffiora la cultura del primo «mondo Veneto».

Noto fin dalla seconda metà del XIX secolo come uno dei principali centri dell’età del Ferro, Oppeano ha festeggiato il 130esimo anniversario dalla scoperta del famoso elmo di bronzo.

Con l’occasione è stato presentato il volume “Oppeano vecchi e nuovi dati sul centro protourbano” (Regione del Veneto, edizioni Quasar-Canova), curato da Alessandro Guidi e Luciano Salzani con la collaborazione di Massimo Saracino.



L’antico abitato si trova a 20 chilometri a sud-est di Verona e coincide con il dosso su cui sorge l’attuale paese che ne occupa solo una piccola parte, ragione per cui una ampia area di questo primitivo centro è ancora da esplorare. Si pensa che all’inizio dell’occupazione del dosso di Oppeano la comunità fosse formata da gruppi di famiglie con i loro capi in un tipo di società ancora poco differenziata. Sarà solamente in seguito, grazie all’arricchimento conseguente sia al miglioramento delle pratiche agricole sia ai commerci, che si costituirà un ordine di tipo urbano con forti differenziazioni sociali. Si avvierà, così, un’istituzione con veri e propri re in un modello di organizzazione collettiva di tipo statale.

L’abitato del centro protourbano gravitava nella sfera politica di Este e per questo motivo molta della sua produzione ceramica e bronzea restituisce numerose relazioni di forma e di stile con il capoluogo estense. Altrettanti sono i segni di contiguità con altri abitati come i possibili contatti con l’Etruria. Questi ultimi, se confermati in futuro, hanno restituito le iscrizioni di fine VI e inizi V secolo avanti Cristo derivate da modelli etruschi settentrionali, mentre la presenza di numerosi frammenti di ceramica attica, in attesa di studi di provenienza più approfonditi, può al momento solo confermare l’importanza di questo vasellame come status symbol nei banchetti dell’aristocrazia locale.

La scoperta di monete padane emesse dai Galli Insubri, attesta, invece, una frequentazione celtica dell’abitato già dalla seconda metà del IV secolo avanti Cristo.

La campagna di scavo del 1878 nel fondo Carlotti tra le località Montanara e Isolo ha riportato alla luce il famoso elmo in bronzo a calotta conica sormontata da un bottone, reperto oggi conservato a Firenze. Il manufatto datato al V secolo avanti Cristo è decorato a sbalzo con figure geometriche, cinque cavalli e un centauro alato e rappresenta un vero e proprio «unicum» nell’ambito della cosiddetta arte delle situle, cioè dei vasi a forma di secchio.

Una ricerca programmata negli anni e una metodologia moderna hanno restituito un’ampia varietà di materiale e costruzioni tra cui le tracce delle antiche capanne, le fosse di scarico, installazioni difensive, fornaci per la cottura delle ceramiche, ripostigli da fonditore e numerose sepolture ad incinerazione. L’insieme dei dati raccolti ha permesso di stimare la massima estensione dell’abitato in 80 ettari e di retrodatare all’XI secolo avanti Cristo le fasi di formazione del centro protourbano che sebbene occupato da gruppi di abitazioni alternate a spazi vuoti per la coltivazione risultava tuttavia unitario. La distribuzione geografica delle testimonianze culturali, l’importanza dei resti e delle stesso tessuto urbanistico di alcuni centri, su tutti Este e Padova, e le caratteristiche «nazionali» della cultura materiale di quest’area sono elementi distintivi che documentano una prima e conosciuta presenza di un mondo «veneto».

Un fatto che da solo riflette l’enorme interessere per la ricerca e lo studio di queste preziose testimonianze archeologiche.



Da qui si controllava tutto il territorio della pianura Padana



Oppeano con Gazzo Veronese rappresentano tra il X e il IV secolo avanti Cristo gli epicentri di un sistema di abitati in grado di controllare tutto il territorio della pianura: dalla sponda sinistra dell’Adige fino a quella del Mincio. Erano dei veri e propri avamposti sud-occidentali del mondo degli antichi Veneti che avevano in Este e Padova le loro capitali. Il dosso su cui insiste l’antico abitato di Oppeano si posiziona quasi all’apice della media pianura veronese circoscritta a nord dalla fascia dell’alta pianura e dal fiume Adige, a sud dalla fascia della bassa pianura, a est dalla provincia di Vicenza e ad ovest dalla fascia morenica e dalla provincia di Mantova.

La zona investigata presenta un ampio terrazzo emergente di alcuni metri, di forma ovale, allungato in senso nord-ovest, largo circa 500 metri ed esteso poco più di 2 chilometri. L’importanza del sito archeologico di Oppeano sta anche nel fatto di essere stato indagato da alcuni dei più importanti nomi della paletnologia italiana: Pier Paolo Martinati, Stefano de Stefani, Alfonso Alfonsi, Alessio De Bon, Salvatore Puglisi e Francesco Zorzi. A partire dal 1980, la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, sotto la direzione di Luciano Salzani, e dal 2000 l’Università degli Studi di Verona coordinata da Alessandro Guidi, hanno ulteriormente contribuito a riportare alla luce l’importanza del centro attraverso ricognizioni di superficie e scavi sistematici.M.C.



Dall’età del bronzo
alla romanizzazione



La civiltà protostorica che si diffuse nell’attuale Veneto è chiamata atestina dal rinvenimento delle sue prime testimonianze nei territori di Este. Tale civiltà si sviluppò tra la fine dell’età del Bronzo e l’età della romanizzazione, cioè dai secoli X-IX avanti Cristo al secolo I avanti Cristo.

Le costruzioni più antiche erano costituite da capanne in legno con pali, tavolati e focolari di argilla cotta, mentre le necropoli erano quasi tutte a cremazione. Le tombe inizialmente erano formate da urne di forma biconica interrate in una semplice fossa, poi seguite da sepolture con ciste di pietra e grandi dolii, grandi vasi di ceramica dalla forma ovoidale o globulare, in cui erano deposti sia l’urna che il corredo funerario. Corredo che talvolta era molto ricco e che in alcune tombe del VII secolo avanti Cristo conteneva oggetti d’importazione greca ed orientale, poi verso la fine del secolo comparvero le situle bronzee a decorazione sbalzata. Con il VI secolo avanti Cristo furono eretti importanti santuari in cui sono stati trovati depositi votivi contenenti piccole lamine e parti anatomiche in bronzo, oggetti decorativi e statuette.

Più avanti, aumenteranno pure le importazioni di ceramica dalla Grecia e materiale di provenienza celtica. La civiltà atestina si basava su un’economia agricola dove era prevalente l’allevamento di ovini e la pesca. Gli scambi commerciali avvenivano con l’Etruria, la Slovenia, il Tirolo dove alla fine del VII secolo avanti Cristo si sviluppò la cosiddetta arte dei vasi a forma di secchio.M.C.





Fonte: L’Arena di Verona di Mercoledì 14 aprile 2009; cultura, pag. 49

lunedì 13 aprile 2009

FRIEDRICH NIETZSCHE




Cristianesimo come antichità. - Quando la domenica mattina sentiamo rimbombare le vecchie campane ci chiediamo: Ma è mai possibile! suonano per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere figlio di Dio. La prova di una tale asserzione manca. - Certo per i nostri tempi la religione cristiana è un'antichità arrivata fino a noi da un lontano passato, e il fatto che si creda a quell'asserzione - mentre di solito si è così severi nella verifica di eventuali rivendicazioni - è forse la cosa più vecchia di questa erediti. Un dio che genera un figlio con una donna mortale, un saggio che invita a non lavorare più, a non giudicare, e a fare attenzione invece ai segni dell'imminente fine del mondo; una giustizia che accetta l'innocente come vittima vicaria; uno che ordina ai suoi discepoli di bere il suo sangue; preghiere di interventi miracolosi; peccati commessi contro un dio, espiati da un dio; paura di un Aldilà la cui porta è la morte; la figura della croce come simbolo, in un'epoca che non conosce più il significato e l'ignominia della croce - che vento di orrore soffia da tutto ciò, come dalla tomba di un passato antichissimo! Chi crederebbe che si creda ancora a cose simili? Umano, troppo umano

domenica 12 aprile 2009

Per approfondire Ernesto de Martino




De Martino a Eliade: " I miracoli esistono "

----------------------------------------------------------------- DIALOGHI La rivista "Belfagor" pubblica una conversazione del 1956 tra l'etnologo napoletano e lo storico delle religioni romeno. Dove si rivela un aspetto inedito dello studioso "positivista" De Martino a Eliade: "I miracoli esistono" Sandro Barbera si e' messo sull'avviso dopo aver letto un mio richiamo a una parte di solito ignorata dell'opera di Ernesto De Martino ed ha tradotto e ristampato per il nuovo numero di Belfagor (il 53) un colloquio di Royaumont (un'abbazia nei pressi di Parigi) che era stato stampato sulla rivista di Robert Amadou, La Tour Saint - Jacques del settembre - dicembre 1956: un dibattito fra l'etnologo Ernesto De Martino e lo storico delle religioni romeno Mircea Eliade di cui viene anticipata una parte in questa pagina. Non riesce nemmeno Barbera a soffocare del tutto la risataccia sulla rivista "di scienze occulte", diretta da un occultista come Amadou. Il motivo che mi spinse a menzionarla Un destino itinerante di Zolla e Fasoli, Marsilio 1995, n.d.r. era proprio questo disprezzo per cui si ritiene in molte parti d'Italia che di simile letteratura convenga non contaminarsi. Qui comunque Barbera e' abbastanza onesto da riconoscere in una nota che per qualche motivo la sede indegna contiene qualcosa di importante. Noto che non in tutta Italia si nutre questa prevenzione rigorosa contro l'occulto (qualunque cosa di fatto sia), a Napoli tradizionalmente no. Noto che a Napoli opera Di Vona, che ha studiato Spinoza in maniera eccelsa ed ha concesso comunque la sua attenzione anche alla letteratura "occulta". A Napoli usci' una rivista italiana prima della guerra, che arieggiava le riviste guenoniane e schuoniane in Francia. De Martino era impregnato di cultura specificamente napoletana. Non si era isolato nell'Italia della sua giovinezza. Faceva parte dell'Associazione di parapsicologia insieme a Tucci e Cerletti. Alla rivistina pubblicata da Tucci subito dopo la guerra, brevemente bandito dall'Universita' di Roma a opera della commissione per l'epurazione, un quindicinale assai vario e divertente, De Martino collaboro' con articoli nei quali difendeva con passione la "realta" dei "miracoli" esposti nei ragguagli etnografici. Come lo conobbi a Roma attorno al 1970, De Martino era ancora impregnato di quell'idea. Di fatto non riusci' mai a capire perche' dovesse dimetterla. Barbera accenna ai riflessi di questa persistenza nell'opera. Gia' dopo lo scontro con Croce a proposito del suo primo libro sul mondo magico, De Martino infatti difendeva la realta' dei fenomeni "paranormali" prima che l'io si staccasse dalla realta' ovvero prima che applicasse alla realta' i distinti crociani. Croce rifiuto' la tesi. De Martino apparve subito sospetto a Eliade, che all'abbazia di Royaumont scatto' a confutarlo perche' allo storico della religione non riguarda la questione se i fatti suscitati dallo sciamano attivo siano o meno reali secondo la nostra concezione della realta': gli basta verificare che lo sciamano sogna o vagheggia i suoi voli, non ha senso per lui accertare se s'illuda di volare davvero. De Martino rifiuta l'obiezione eliadiana, anzi dell'amico Eliade. A me garba sottolinearlo perche' risponde alla verita' di De Martino in quel periodo, ancora intriso del suo passato napoletano. Verita' in dissidio con il De Martino che s'opponeva alla pubblicazione dell'opera di Eliade presso Einaudi. Ernesto De Martino apparteneva alla generazione che annoverava gli ultimi seguaci del positivismo meridionale, rimasto fedele alla "parapsicologia" quale vera scienza, che risolveva le questioni spiritistiche altrimenti esposte all'anarchia. Credeva che la scienza dei fenomeni paranormali non fosse soltanto una scienza serissima, ma anche provvidenziale. A Torino si trovo' nell'ambiente Einaudi, dove queste sue convinzioni non vigevano; ci si adatto' con una certa approssimazione, con vari ripensamenti, con qualche contraddizione. Elemire Zolla

Zolla Elemire

Il tarantolismo e Dioniso-La terra del rimorso -




"Le tarantate ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant'altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall'orgiasmo e dalla mania" ("La Terra del Rimorso" di Ernesto de Martino, Il Saggiatore, Milano, 1961).

La letteratura sul tarantismo ha fatto frequente riferimento al suo aspetto musico-terapeutico. Dal Seicento, tutta una serie di autori, a cominciare dal Kircher, aveva considerato il fenomeno soprattutto come un esempio di "iatromusica", e, ancora nel 1948, l'etnomusicologo Marius Schneider, direttore dell'Istituto di Etnografia Musicale di Berlino, aveva pubblicato un saggio sui riti medicinali, nel quale il tarantismo e la tarantella come danza delle spade avevano una parte importante.

Sempre su Dioniso


DIONISO importantissima divinità greca.
Nasce il 25 dicembre da una vergine e viene deposto in una mangiatoia

DIONISO viene definito anche: figlio unigenito, salvatore, l'unto re dei rei, il redentore, remissore dei peccati, dio degli dei

DIONISO fece parecchi miracoli tra i quali trasformare l'acqua in vino

DIONISO cavalca un asino in una parata trionfale

Dopo la sua morte il suo corpo viene virtualmente mangiato in un rituale eucaristico di fecondità e purificazione

Secondo alcune tradizioni viene crocifisso ad un albero

DIONISO muore e discende nell'ADE il 25 marzo, GIOVE lo resuscita

Durante le sacre funzioni in onore di DIONISO il sangue era rappresentato dal vino e il corpo dal pane, questa iconografia eucaristica è stat probabilmente adottata dai cristiani. Inoltre era uso comune utilizzare un particolare marchingegno che tramite tubi nascosti si introduceva acqua e usciva vino, per dare adito a poteri divini posseduti dai celebranti.

Dioniso crocefisso


Tre secoli prima della presunta venuta di Cristo Dioniso è rappresentato in croce.
Cosi come ci appare da una amuleto inciso con la scritta BAKKI-> DIONISO, con una luna posta sul palo verticale. L'archetipo è eterno e ritorna sotto storie e nomi diversi.
Dimenticavo Dioniso è nato , secondo una versione del suo mito il 25 di dicembre

sabato 11 aprile 2009

Il paganesimo che ritorna





Il ritorno dei baccanali Luglio

I baccanali a San Firmin in spagna

Guardando questa immagine da una festa dei palazzi di San Firmin e’ evidente che il culto del dio Bacco e’ ritornato tra noi, con tanto di processione orgiastica.

Ai suoi inizi era la Chiesa ad appropriarsi di feste e riti pagani, i templi erano trasformati in Chiese, o le Chiese erette su luoghi di culto pagani, magari dopo aver raso al suolo il precedente luogo di culto.
Oggi invece gli dei della terra sembrano riappropriarsi delle feste che il Dio del Cielo gli aveva sottratto

Il cerchio si e’ chiuso.

venerdì 10 aprile 2009

Un libro appena letto, e interessante



Emanuela Chiavarelli

Il dio asino Il mistero di un’antica divinità

TIELLEMEDIA Editore, 2006,
Copertina a colori,
29 tavole a colori
143 pagine € 15,00

ISBN 8887604266

Profilo dell’opera:

Dietro semplici modi di dire, come “la bellezza dell’asino” delle fanciulle, dietro le fiabe, come Pelle d’Asino, trapela a sprazzi il retaggio di un’arcaica divinità, di cui l’asino dovette costituire la manifestazione. Il romanzo di Apuleio, l’Asino d’oro, e i miti riguardanti le divinità infere, come le Nereidi, Ecate o le Empuse, testimoniano un’affinità tra le divinità del matriarcato primordiale e l’animale che, in origine, dovette costituire una delle sue ipostasi. In un caleidoscopio di simbolismi, l’autrice connette e svela i rapporti inediti del dio asino con le antiche divinità babilonesi, la cultura ittita, in cui l’asino è simbolo dell’anno ed emblema solare, ma anche con le religioni ebraica e cristiana, sino a leggere il retaggio della divinità in tradizioni a noi coeve.
Copyright © 2001 TIELLEMEDIA EDITORE

lunedì 6 aprile 2009

Il cristianesimo perduto Florensky




Pavel Florenskij
La colonna e il fondamento della verità

La verità manifestata è amore.
L’amore realizzato è bellezza.

Io non so se la verità esiste o no, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno.
Forse non esiste, ma io l’amo più di tutto ciò che esiste, mi unisco a lei come se già esistesse, per lei rinuncio a tutto, perfino ai miei quesiti e ai miei dubbi.

Lo Spirito Santo agisce nella Chiesa, ma la conoscenza di Lui è stata sempre o pegno o premio in momenti particolari e in persone straordinarie che scoprono ciò che deve restare velato, perché sono spudorate. La catena ininterrotta degli spudorati eretici della "nuova coscienza" si snoda lungo tutta la storia ecclesiale e mette a nudo l’arteria occulta della Chiesa.

Finalmente viene edito in Italia il capolavoro della filosofia russa, un testo filosofico ma anche teologico e mistico. Uscì in Russia nel 1914, e chi lo poté leggere ne rimase ammirato. Nel 1925 Boris Jakovenko, in Filosofi russi (Edizioni della Voce), ne parlò come di "una specie di confessione speculativo-religiosa degna di essere messa accanto alle Confessioni di Sant’Agostino."
Pavel Alexandrovic Florenskij nacque nel 1882 nel Caucaso: dopo aver studiato all’Università di Mosca, si laureò in matematica; ma rinunciò alla carriera accademica per iscriversi all’Accademia Teologica, laureandosi nel 1908. Ordinato sacerdote, cominciò a pubblicare vari saggi finché nel 1914 uscì La colonna e il fondamento della verità. Il volume coronava quella rinascita metafisica e religiosa che aveva avuto qualche anno prima come punto di riferimento il libro collettivo Vechi, cui avevano collaborato Berdiaev, Frank, Bulgakov, criticando i "dogmi" più triti della filosofia moderna e proponendo una cultura attenta alle voci represse dai potenti.
Dopo la rivoluzione, i bolscevichi deportarono Florenskij nel Turkestan, poi preferirono mettere a frutto le sue capacità di tecnico, arruolandolo nella Commissione per l’Elettrificazione. Inventò, fra le altre cose, anche un lubrificante non congelabile. Negli anni della NEP tenne un insegnamento nell’Istituto Superiore Tecnico – Artistico. Poi fu deportato nuovamente, pare, nell’estremo Nord, dove morì il 15 dicembre 1943.
Tema centrale del libro è un’esperienza del sacro, un evento che ha svelato l’essere: l’incontro con un amico degno d’amore spirituale infinito. Mentre Florenskij ricorda le giornate trascorse con l’amico ideale, tutta la vita gli si ripresenta davanti e, via via che egli scopre il significato profondo di ogni episodio, si viene configurando il sistema filosofico che spiega e trascende l’esperienza. Ciò che più colpisce è la sintesi di un’evocazione artistica colma di passione e un rigore scientifico per cui di volta in volta la sostanza del pensiero è organizzata secondo il metodo della logica simbolica o analizzata con gli strumenti della dialettica. Una combinazione che può suggerire soltanto quattro nomi: il Platone nel Fedro o del Fedone, il Sant’Agostino delle Confessioni, Pascal e Kierkegaard, i pochi che seppero congiungere nella stessa pagina la speculazione più rigorosa e l’arte più appassionata.
Elèmire Zolla ha premesso al saggio di Florenskij un’ampia introduzione che permette al lettore di avvicinarsi più facilmente a quest’opera fondamentale della cultura russa moderna.


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domenica 5 aprile 2009

Un testo finalmente ristampato



Causa ed effetto nell’Egitto magico religioso di Boris de Rachewiltz

Le Edizioni della Terra di Mezzo, Milano ripropongono l’opera Egitto Magico Religioso di Boris de Rachewiltz

di Franklin Baumgarten



A poco più di undici anni dalla morte dello studioso Boris de Rachewiltz (nato a Roma il 12 febbraio del 1926 e morto a Tirolo di Merano il 3 febbraio del 1997), le oltre 25 opere da lui scritte, continuano a suscitare l’interesse dei lettori. Tra le pubblicazioni postume dell’autore, vi sono l’edizione economica del Dizionario dell’Antico Egitto, di Guy Rachet, edizione italiana a cura di de Rachewiltz dei Grandi Manuali Newton, così come il testo inedito Roma Egizia, Culti, Templi e Divinità Egizie nella Roma Imperiale, di Anna Maria Partini e de Rachewiltz, Edizioni Mediterranee, Roma (anno 1999). Nel marzo del 2008 Raffaelli Editore di Rimini ripropone dopo 43 anni dalla prima uscita, il testo L’Elemento Magico nella Poesia di Ezra Pound, Collana Quaderni Poundiani n.5.
In particolare modo, l’opera Egitto Magico Religioso, edito nel 1961 da Boringhieri Torino, Biblioteca di cultura etnologica e religiosa n.37, sembra richiedere diverse riedizioni. Così nel mese di aprile del 2008 le Edizioni della Terra di Mezzo di Milano hanno ripubblicato quest’opera per la quinta volta. Le edizioni successive alla sua prima pubblicazione sono quelle di Manilo Basaia Editore nel 1982, l’edizione di Fratelli Melita Editori, raccolta di testi sul mondo della tradizione a cura di G. Bergamino, La Spezia 1989 e 1995 e l’edizione Libritalia (1997), le Metamorfosi del Sacro, sempre a cura di G. Bergamino.
L’importante testo, riproposto da le Edizioni della Terra di Mezzo al prezzo di Euro 22,00 (227 pp.), si distingue particolarmente da altri libri che trattano gli argomenti di religione e magia nell’antico Egitto. Infatti, de Rachewiltz è riuscito a mettere in luce gli aspetti magico-religiosi, ovvero di causa ed effetto, che nel corso dei secoli e dei millenni gettarono le fondamenta per i culti Egizi. Per fare ciò, l’autore, egittologo ed archeo-etnologo, aveva esaminato attentamente le origini africane dei tempi preistorici della civiltà egiziana, riconoscendo in esse le vere radici della cultura d’Egitto, invece di vedere gli archetipi della civiltà faraonica nel delta del sacro fiume Nilo. In questa maniera, de Rachewiltz parte da un’indagine di comparazione che lo spinge verso le foci del Nilo, laddove le opere rupestri africane testimoniano la presenza di riti magici. Questi ultimi sono spesso sopravvissuti come forme di stregoneria nel vasto Continente Nero, il che può dare, se letto in chiave storicistica, una spiegazione alle rappresentazioni della cultura religiosa dell’Egitto preistorico, così ricco di entità zoo-antropomorfe. Qui si raffiguravano spesso i capi dei clan delle locali tribù del paese, e sono proprio questi personaggi ed abbinamenti uomo-animale (coccodrilli, babbuini, ecc.), della preistoria d’Egitto che diventeranno in tempi faraonici le sembianze di importanti divinità, quali il dio egiziano Sebek (dalla testa di coccodrillo e dal corpo umano) oppure il sacro dio Thoth (raffigurato come babbuino).
L’opera Egitto Magico Religioso di de Rachewiltz racchiude in un unico libro non solo la storia dell’Egitto magico-religioso dalle origini fino alla fine dei tempi faraonici, esso offre anche una spiegazione ai miti legati al problema della morte, nonché ai riti della resurrezione e della psicostasia. Per chi vuole avere nozioni in veste pragmatica sugli argomenti che assimilano magia e religione nell’Antico Egitto, questo libro, giunto alla sua quinta edizione e ricco di illustrazioni e bibliografie, rappresenta un testo prezioso. Altri libri di de Rachewiltz che trattano il tema di magia e religione nella cultura dell’Antico Egitto e dell’Africa sono Il papiro magico Vaticano, Roma 1954; Introduzione allo studio della religione egiziana, Roma 1954; Incantesimi e scongiuri degli antichi Egiziani, Milano 1958; I miti e i luoghi dell'antico Egitto, Milano 1961; Testi e simboli magici egiziani. Dalla Preistoria all'Epoca Copta, Milano 1962; Eros nero: Costumi sessuali in Africa dalla preistoria ad oggi, Milano 1963; Amuleti nell’ Antico Egitto, Roma 1966; Sesso magico nell’Africa nera, Roma 1983 e Segni e formule nella magia dell'antico Egitto, Milano 1984.
Boris de Rachewiltz ha dedicato molta attenzione all’aspetto della magia nelle culture d’Africa ma va ricordato che il suo fu un approccio molto serio basato sul rigore filologico di fonti storiche in tempi storici nonché sulla metodologia di comparazione in tempi preistorici. In un’intervista a De Rachewiltz del 1970, fatta da Gianfranco De Turris, lo studioso afferma: “L’occulto e la magia hanno sempre fatto presa sull’animo umano e hanno costituito motivo d’interesse e anche di violente reazioni in altri tempi. Basti pensare ai processi alle streghe e alla Santa Inquisizione. Oggi, questo interesse si trova stimolato dalla situazione di ‘vuoto’ determinata da un progresso tecnico-scientifico estremamente accelerato cui non corrisponde un adeguato sviluppo spirituale… Il tuffo nell’occulto costituisce oggi per molti una forma di evasione dall’incongruenza del presente.”
Direbbe Francois de la Rochefoucauld: L’interesse acceca gli uni e illumina gli altri!






Boris de Rachewiltz (1926-1997)

Confusioni storiche




Da “The Christ Conspiracy” di Acharya
(altre citazioni in http://spiritualrationality.wordpress.c ... tianesimo/)

Senza prendere una parte nella querelle, trovo interessanti questi spunti :

Il Mito della Rapida Diffusione del Cristianesimo
Si ritiene comunemente che il Cristianesimo si sia diffuso perché era una grande idea disperatamente necessaria in un mondo senza speranza nè fede. Veramente, il mito dice che il Cristianesimo era una idea talmente grande che prese il via come un fuoco greco in un mondo perduto privo di illuminazione spirituale e implorante “come una voce nel deserto”. Si ritiene inoltre che il Cristianesimo si diffuse a causa del martirio dei sui aderenti, che, come si sostiene, fecero tanta impressione a numerosi tra i primi padri della Chiesa che essi abbandonarono le loro radici Pagane per aderire alla “vera fede”. In realtà, il Cristianesimo non era un concetto nuovo e sorprendente, e non è corretta l’impressione data in questa storia riguardo al mondo antico, poiché le antiche culture possedevano ogni piccolo aspetto di saggezza, rettitudine e praticamente ogni altra cosa trovata nel Cristianesimo.

In aggiunta, secondo il noto storico Gibbon, come riferito da Taylor, per la metà del 3° secolo, a Roma – il centro del Cristianesimo - c’erano solo “’un vescovo, quarantasei presbiteri, quattordici diaconi, quarantadue accoliti, e cinquanta lettori, esorcisti e ostiari. Noi possiamo azzardarci, (conclude il grande storico) a stimare i Cristiani in Roma, a circa cinquanta mila, quando il numero totale degli abitanti non possono essere stimati meno di un milione…’ Non si dovrebbe mai dimenticare che, per quanto la propagazione del vangelo sia stata miracolosamente rapida come ci viene detto qualche volta, fu predicata in Inghilterra per la prima volta da Austino, il monaco, su commissione di Papa Gregorio, verso la fine del settimo secolo. Cosicché si potrebbe calcolare che la buona novella della salvezza, per andare dalla supposta scena dell’azione fino a questo paese favorito, abbia viaggiato alla media di quasi un pollice in una quindicina di giorni”. E come dice Robin Lane Fox: "… negli anni 240, Origene, l’intellettuale Cristiano, ammise che i Cristiani erano solo una piccola frazione degli abitanti del mondo… Se i Cristiani fossero stati veramente così numerosi, potremmo anche attenderci qualche evidenza di posti di incontro che potessero contenere così tanti credenti. A questa data, non c’erano costruzioni di chiese su terreno pubblico"..

..Se viene incluso il resto dell’impero, si stima che per la metà del terzo secolo i Cristiani costituivano forse il due per cento della popolazione totale...

..Ancora, come notato, ci furono di fatto pochi martiri, e i primi falsificatori del Cristianesimo furono impressionati non da tali presunti martirii ma dalla posizione di potere che essi avrebbero guadagnato dalla loro “conversione”. In realtà, il Cristianesimo non si diffuse perché era una grande idea o perché era sotto la guida dell’“Agnello di Dio” risorto. Se fosse stato così, egli dovrebbe essere tenuto responsabile, perché il Cristianesimo fu promulgato con la spada...

...Come così tanto altro sul Cristianesimo, le affermazioni della sua rapida divulgazione sono largamente mitiche. In realtà, in alcune località ci vollero molte centinaia di anni impregnati di sangue prima che i suoi oppositori e la loro discendenza fossero stati sufficientemente massacrati in modo che il Cristianesimo potesse usurpare l’ideologia regnante. Gli Europei Pagani ed altri lottarono contro questo coi denti e con le unghie, in uno sforzo epico ed eroico per conservare le proprie culture ed autonomia, di fronte ad una strage da parte di quelli che i Pagani vedevano come “idioti” e “bigotti”....


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L'esicasmo viene da molto lontano


Un monaco del monte Atos che pratica la "Preghiera del cuore"


La preghiera del cuore o Esicasmo, è una pratica ancora presente,
nel cristianesimo ortodosso, a partire da quello delle origini. Credo nacque
presso i primi asceti, o i padri del deserto ed in effetti può avere qualche
analogia con lo yoga, per quel che riguarda la respirazione, ed con alcune
pratiche meditative sufi (quindi islamiche). Sarebbe interessante se
qualcuno potesse approfondire. Per quel che mi ricordo, pur non parlando
direttamente di esicasmo, c'è un libro di Ginzburg "Una storia notturna" che
spiega come la componente meditativo-estatica si sia inserita nel
cristianesimo delle origini provenendo da oriente, mentre quella
possessivo-esorcistica dall' Africa.....Ginzburg ha compreso poco però ci sono cose interessanti.



In Asia alcuni pochi intatti santuari rimangono, ma si teme di censirli
affrettandone la rovina imminente. In certi villaggi remoti un carico di turisti, uno
schermo televisivo bastano a dissipare la patina degli oggetti, la grazia degli sguardi.
Saperlo è necessario, indugiare a deprecarlo malsano. Immensa è la fortuna di chi giunga a
cogliere un lembo di bellezza, perché la guasti accorandosi.
C'è chi può dire «So che cos'è un'aura, l'ho veduta»: è valsa la pena di stare al mondo,
l'estasi non sia sciupata da superflue recriminazioni, da sgraziate amarezze.
Peggio poi chi convertisse l'amore e la ricerca dell'aura in ideologia: è immateriale,
incomparabile, indifendibile, un'aura,grazia immeritata, gratis data. Infelice chi nutre
rancore verso distruttori e carnefici:
le cicliche onde della storia, congiunzioni di Marte e Saturno o transiti di cometa,
schiantano i delicati miracoli della vita ininterrottamente, fin dal primo comparire dei
carnivori sulla terra. Metafisica insegna a non trasformare le catastrofi in conteggi di
colpe, in troppo virtuosa elegia.
Chi perora contro i distruttori si riduce alla loro stregua.
A che fine dunque assiduamente rammentare le glorie smarrite? Soltanto mercè la
rimembranza, dice Leibniz, la mente esiste: è corpo, puro peso, quand'è senza ricordo
"corpus est mens momentanea sive carens recordatione".
Chi si risovvenga dello splendore obliando ogni altra cosa, senza mai far questione di
bene o di male, vive nell'Eden.

Elémire Zolla, “Aure”, Marsilio, Venezia, 1985, pag.59

L'altar Knotto a Rotzo sull'Altopiano d'Asiago



ALTARKNOTTO: L'ALTARE AGLI DEI, IL RIFUGIO DEL DIAVOLO

L'Altarknotto è un grosso masso, posto in bilico sopra il burrone che porta alla Valle dell'Astico. L'etimologia delle parole con le quali è identificato, àltar, Altar-knoto, Eltarle, cioè altare, pietra dell'altare, altaretto, si rifà alla forma della pietra che in parte è simile ad un altare e fa supporre che lì venissero celebrati i riti pagani agli Dei. L'Abate Agostino Dal Pozzo ci ricorda che "... i popoli settentrionali avevano a venerazione le grosse pietre, specialmente se queste soprastavano a qualche precipizio....Credevano altresì che dentro, o sotto di esse pietre soggiornassero i Genj tutelari dè luoghi, e soprattutto i Nani, i quali, come abbian detto, amavano di abitare nelle pietre.

Con l'avvento del Cristianesimo si cercò di mortificare quelle credenze e si allontanavano le genti da questi luoghi facendo credero loro che invece di una Deità benefica, soggiornava in què luoghi e in quelle pietre l'autor d'ogni male il Demonio. E infatti gli abitanti di S. Pietro di Valdastico, in vista dè quali torreggia in alto la suddetta pietra dell'Altare, la chiamano comunemente la Pietra del Diavolo; …"



http://www.vicenzanews.it/stampa.jsp..._IT_584_3.html



Da Rotzo si segua la strada per il Forte di Campolongo, alla terza curva si prende a sinistra il sentiero. Facile passeggiata di 10 minuti.

"Altar Knotto"

Ai margini orientali dell'Altopiano di Asiago, nel territorio del comune di Rotzo, l'ampio tavolato dei Sette Comuni si fa impervio e strapiomba sulla Valdastico. Qui, un enorme masso naturale svetta sul dirupo e pare sospeso nel vuoto: è l'Altar Knotto. Su questo altare pagano, intorno all'anno 1000, i montanari dell'Altopiano veneravano divinità di origine germanica, come Odino, Thor. Attorno all'antica pietra dell'Altar knotto si offrivano doni e si compivano sacrifici in onore degli spiriti dei boschi, dei monti e delle sorgenti. Il luogo è anche detto "Pria del diavolo", in quanto tuttora associato a racconti diabolici di forze misteriose e affascinanti.

Tamerlano e l'interdizione alla sua tomba

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Sammarcanda mausoleo di Tamerlano il magnifico


Tamerlano
Il 19 Giugno 1941 una spedizione scientifica guidata dall’antropologo sovietico Mikhail Gerasimov riesumò i corpi di Tamerlano e dei suoi discendenti al fine di condurre uno studio sulle caratteristiche anatomiche e sulle cause della loro morte. I risultati delle analisi condotte sui corpi convinsero i ricercatori del fatto che Ulughbek venne effettivamente decapitato, confermando quanto riportato dalle cronache dell’epoca e stabilirono che Tamerlano era alto 1,67 metri, anche se altre fonti documentarie riportano un’altezza di 1,7 metri (una statura di tutto rispetto per l’epoca e per l’etnia di cui il grande condottiero faceva parte).
Il Dott. Gerasimov notò sulla lapide una scritta che recita così: "chiunque aprirà questa tomba sarà sconfitto da un nemico più terribile di me". Questa iscrizione non può non richiamare alla memoria la celebre maledizione del faraone-bambino Tutankhamon (XIV secolo a.C.), maledizione che per molti anni venne ritenuta la causa della morte di alcuni membri della spedizione archeologica guidata da Howard Carter (Swaffham, Norfolk, 1873 - Londra 1939), il famoso egittologo che nel 1922 aprì la tomba del sovrano egizio.
Anche la maledizione legata alla tomba di Tamerlano "fece" delle vittime, solo che furono molte di più, dal momento che, tre giorni dopo la riesumazione dei resti di Timur, il 22 Giugno 1941, la Germania nazista attaccò l’Unione Sovietica!
Quando Iosif Vissarionovi Stalin (Stalin deriva dal termine "stahl" che in russo significa "acciaio") (Gori, Tiflis, 1879 - Mosca 1953) venne a conoscenza della maledizione di Tamerlano e del fatto che dopo tre giorni dall’apertura del suo sepolcro il paese era stato invaso dalle armate del Terzo Reich, avrebbe immediatamente ordinato di ricollocare le spoglie mortali del condottiero nella cripta sotterranea del mausoleo Guri Amir; il caso volle che, subito dopo, il 22 Febbraio 1943, i sovietici sconfissero i tedeschi nella sanguinosa battaglia di Stalingrado!
Dopo questa vicenda, nessuno osò più toccare la tomba di Tamerlano ed è ancora oggi severamente vietato farlo.
In genere, l’accesso alla cripta sotterranea dei mausolei mussulmani è interdetto alla gente comune, soprattutto ai turisti ed ai viaggiatori stranieri e nel caso del mausoleo Guri Amir, tale divieto è pressoché tassativo, tuttavia, la curiosità di vedere e soprattutto, di fotografare il sepolcro di Tamerlano era troppo forte perché me ne andassi senza aver fatto almeno un tentativo per ottenere l’autorizzazione ad accedervi. Mi avvicinai, quindi, ad uno dei guardiani che sorvegliavano l’edificio principale del mausoleo, quello al cui interno sono situate le lapidi simboliche e gli offrì qualche migliaio di "sum" (la valuta uzbeka; al cambio attuale 1000 "sum" equivalgono a 1 dollaro americano) in cambio di una breve visita alla cripta e di qualche fotografia della tomba di Tamerlano. Dovetti faticare non poco per convincere il guardiano a lasciarmi entrare nella cripta, tuttavia, dopo un quarto d’ora di contrattazioni e qualche altro migliaio di "sum", il custode cedette alle lusinghe di un facile guadagno e mi scortò nei sotterranei del mausoleo. Dopo avermi ricordato di non toccare assolutamente la lapide di Timur, mi consentì finalmente di scattare qualche fotografia al suo sepolcro.

Benito Mussolini e la statua di Giordanon Bruno



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Ecco parte del discorso che Benito Mussolini tenne alla Camera dei Deputati il 13 maggio 1929. Queste parole furono la risposta a Pio XI che chiese di rimuovere la statua commemorativa di Giordanon Bruno in Campo dei Fiori eretta dalla Massoneria.
<<...non v'è dubbio che, dopo il Concordato del Laterano non tutte le voci che si sono levate nel campo cattolico erano intonate. Taluna hanno cominciato a fare il processo al Risorgimento; altri hanno trovato la statua di Giordanon Bruno a Roma quasi ofensiva. Bisogna che io dichiari che la statua di Giordanon Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov'è...>>