giovedì 28 ottobre 2021

Un patrimonio enorme, nei santuari dell'urbe e dell'Impero, quel poco che ormai rimane ci da comunque l'idea della grandiosità romana


Plastico Roma Imperiale (Gismondi, 1933-1955) foto e video | Roma Ieri Oggi


E' ben noto che i Musei Capitolini sono stati i primi musei pubblici al mondo. Ma il primo luogo al mondo ad essere chiamato Museo sorse ad Alessandria d’Egitto per opera del re Tolomeo I° nel III secolo a.C., in epoca ellenistica. Non si trattava, però, di un museo come lo intendiamo oggi: infatti il Museo di Alessandria era un luogo di culto, consacrato appunto alle Muse, dove una comunità di sapienti, scienziati e letterati del tempo, viveva e svolgeva le proprie attività. Il primo vero Museo nacque a Roma ed è frutto di una lunga storia.
La nascita dei Musei Capitolini risale al 1471, quando il papa Sisto IV donò al popolo romano un gruppo di statue bronzee conservate fino ad allora al Laterano, che costituirono il nucleo iniziale della raccolta. Le collezioni furono successivamente incrementate dai pontefici con opere provenienti dagli scavi di Roma, dal Vaticano o acquistate appositamente per il museo, come la collezione Albani. Intorno alla metà del XVIII secolo Benedetto XIV fondò la Pinacoteca. Le raccolte archeologiche si arricchirono notevolmente alla fine dell'Ottocento con i rinvenimenti degli scavi per la costruzione di interi quartieri della città, divenuta capitale d'Italia.
Ma, allora, prima di quella data una persona che non fosse uno studioso non aveva modo di vedere i capolavori eseguiti dai vari artisti? E tutte quelle incredibili opere d'arte riunite dai vari re e potenti dell'antichità, acquistate o requisite nelle loro scorrerie a seguito di guerre vinte, erano destinate ai soli occhi dei proprietari e dei loro amici? Andiamo per ordine.
È opportuno distinguere la storia del museo da quella, assai più estesa nel tempo, del collezionismo, termine usato di preferenza per indicare le diverse forme di raccolta delle opere d'arte antecedenti alla nascita dell'organizzazione museale.
Il più significativo elemento di distinzione tra collezione e museo risiede sicuramente nella destinazione pubblica di quest'ultimo, poiché con essa mutano la concezione stessa e la struttura della raccolta: il patrimonio di una collezione privata, strettamente legato alle leggi del mercato dell'arte, ha sempre una caratteristica di instabilità, in quanto sottoposto a dispersioni e smembramenti, volontari o meno, dovuti a rivolgimenti politici ed economici, a vicende di successione familiare o semplicemente al mutare del gusto e delle mode.
Il patrimonio di un museo ha invece carattere stabile, anche se non immutabile nel tempo, poiché la funzione conservativa è un suo compito fondamentale.
Quindi sembrerebbe che prima del 1471 siano esistite soltanto raccolte private che non hanno niente a che vedere con i musei come li intendiamo noi.
Ma già in epoca antica esistevano raccolte che potevano avere carattere stabile e potevano essere viste e godute anche dall'uomo della strada. Di cosa sto parlando? Ce lo facciamo raccontare da un amico che ormai dovreste avere avuto il modo di apprezzare: Rodolfo Lanciani.
Da Roma Pagana e Cristiana, Newton & Compton Editori, 2004: - - - - - - - - -
[Le antiche guide di Roma, pubblicate a metà del quarto secolo, parlano di 420 templi, 304 santuari, 80 statue di divinità in metallo prezioso, 64 di avorio, e 3.785 statue bronzee di vario tipo. Il numero di statue di marmo non viene specificato. Si è detto, comunque, che Roma aveva due popolazioni pari per numero, una vivente e una di marmo.
Ho avuto la possibilità di assistere personalmente alla scoperta, o di condurla, di diversi templi, santuari, altari e statue bronzee. Il numero di statue di marmo e di busti scoperti negli ultimi venticinque anni in città o nella campagna, può considerarsi pari a un migliaio.
Prima di iniziare con la descrizione di questi stupendi monumenti, devo soffermarmi su alcuni dettagli riguardanti le caratteristiche e l’organizzazione di alcuni luoghi di culto, su cui recenti scoperte hanno gettato una nuova e, in alcuni casi, inaspettata luce.
I templi romani, come le chiese dei giorni nostri, non erano usati solo come luoghi di culto ma come gallerie di dipinti, musei di statue e “contenitori” di oggetti preziosi. Nel capitolo V di “Antica Roma” ho fornito l’elenco delle opere d’arte esposte nel Tempio di Apollo sul Palatino. La lista include: Apollo e Artemide alla guida di una quadriga, di Lisia; cinquanta statue delle Danaidi; cinquanta dei figli d’Egitto; l’Ercole di Lisippo; Augusto con gli attributi di Apollo (una statua in bronzo alta 15 metri); il frontone del tempio, di Bupalos e Anthermos; statue di Apollo, di Skopas; Leto, di Kephisodotos, figlio di Prassitele; Artemide, di Timotheos; le nove Muse; anche un lampadario, precedentemente dedicato da Alessandro il Grande a Kyme; medaglioni di personaggi eminenti; una collezione di vasellame d’oro; un’altra di gemme e incisioni; sculture in avorio; reperti di paleografia e due biblioteche.
Il tempio di Apollo non era l’unico museo sacro dell’antica Roma; ce n’erano molti, cominciando dal Tempio della Concordia, enfaticamente lodato da Plinio. Questo tempio, costruito da Camillo ai piedi del Campidoglio e restaurato da Tiberio e Settimio Severo, era ancora in piedi al tempo di Papa Adriano I (772-795), quando l’iscrizione sulla sua facciata fu copiata per l’ultima volta dall’Einsiedlensis. Fu raso al suolo intorno al 1450. "Quando ho fatto la mia prima visita a Roma," racconta Poggio Bracciolini, "ho visto il tempio della Concordia quasi intatto (aedem fere integram), costruito con marmo bianco”. Da allora i Romani hanno demolito la struttura trasformandola in una fornace per calce. La base del tempio e alcuni frammenti delle sue decorazioni architettoniche furono scoperte nel 1817. Il lettore può apprezzare la grazia di queste decorazioni, da un frammento della trabeazione oggi nel portico del Tabularium, e da uno dei capitelli della cella, oggi nel Palazzo dei Conservatori. La cella conteneva una nicchia centrale e dieci ai lati, nelle quali erano conservati capolavori di artisti greci, quali l’Apollo e Hero, di Baton; Leto che nutre Apollo e Artemide, di Euphranor; Asklepios e Hygieia, di Nikeratos; Ares ed Hermes, di Piston; Zeus, Atena e Demetra, di Sthennis. Il nome dello scultore della statua della Concordia nell’abside è ignoto. Plinio parla anche di un dipinto di Theodoros che riproduceva Cassandra; di quattro elefanti scolpiti in ossidiana, un miracolo di abilità e arte, e di una collezione di pietre preziose, tra cui c’era il sardonice incastonato nel leggendario anello di Policrate di Samo . Molti di questi tesori erano stati offerti alla dea da Augusto, mosso dalla devozione che Giulio Cesare aveva mostrato verso la propria dea ancestrale, Venere Genitrice. Sappiamo da Plinio che Cesare fu il primo a tenere nella dovuta considerazione la pittura, dandone mostre nel suo Foro Giulio. Pagò circa ottanta talenti per due opere di Timomachos, rappresentanti Medea e Aiace. Alla base del tempio di Venere Genitrice fece mettere la propria statua equestre, il cui cavallo, scolpito da Lisippo, aveva un tempo sostenuto la figura di Alessandro il Grande. La statua di Venere era opera di Arkesilaos, e il suo seno era coperto da fili di perle britanniche. Plinio, dopo aver menzionato la collezione di gemme fatta da Scauro ed un’altra da Mitridate che Pompeo Magno aveva offerto a Giove Capitolino, aggiunge:
"Questi precedenti furono sorpassati dal dittatore Cesare che offrì a Venere Genitrice sei collezioni di cammei ed incisioni".
Un elenco descrittivo di questi tesori e di queste opere d’arte era conservato in ognuno di questi templi e, a volte, era inciso su marmo. Gli inventari includevano anche il mobilio e le proprietà della sacrestia. Nel 1871, nel tempio di Diana Nemorense, fu scoperto questo importante documento: l’inventario, scolpito su una colonnina marmorea alta 90 cm, oggi conservata nel castello Orsini a Nemi. E’ stato pubblicato da Henzen in "Hermes," vol. vi. p. 8, e riporta quanto segue:
“Oggetti offerti a [o appartenenti a] entrambi i templi [il tempio di Iside e quello di Bubasti]: — diciassette statue; una testa del Sole; centoquattro immagini in argento; un medaglione; due altari in bronzo; un tripode (ad imitazione di uno a Delfi); una coppa per libagioni; una patera; un diadema [per la statua della dea] tempestato di gemme; un sistro di argento dorato; una coppa dorata, una patera ornata con anse di corno; una collana tempestata di berilli; due braccialetti con gemme; sette collane con gemme; nove orecchini con gemme; due nauplia [conchiglie rare da Propontis]; una corona con 21 topazi e 80 carbonchi (rubini rosso acceso); una ringhiera di ottone sostenuta da otto hermulae; un abito in lino comprendente una tunica, un pallium, una cintura ed una stola, tutti decorati in argento; un abile simile senza decorazioni”.
“[Oggetti offerti] a Bubasti: — un abito di seta viola; un altro di colore turchese, un vaso in marmo con piedistallo; una brocca per acqua; un abito in lino con decorazioni e una cintura d’oro; un altro di puro lino bianco”.
Gli oggetti descritti nel catalogo non appartenevano al tempio di Diana, uno dei più ricchi del centro Italia; ma a due piccoli santuari, di Iside e Bubasti, costruiti da un devoto all’interno del recinto sacro, sul lato nord del complesso.
Gli antichi mostravano un pessimo gusto nell’appesantire le statue dei loro dei con preziosi ornamenti e nel compromettere la bellezza dei loro templi con oggetti di ogni tipo e colore. Un documento pubblicato da Muratori parla della statua di Iside dedicata da una matrona chiamata Fabia Fabiana in memoria della sua defunta nipote, Avita. La statua, fusa in argento, pesava 51 kg, ed era carica di ornamenti e gioielli oltre ogni immaginazione. La dea indossava un diadema in cui erano incastonate sei perle, due smeraldi, sette berilli, un carbonchio, un hyacinthus, e due punte di freccia in selce; inoltre, orecchini con smeraldi e perle, una collana composta da trentasei perle e diciotto smeraldi, due fibbie, due anelli al mignolo, uno sull’anulare, uno sul medio; e molte altre gemme sulle scarpe, caviglie e polsi. Un’altra iscrizione trovata a Costantina, in Algeria, descrive una statua di Giove dedicata nel Campidoglio di quella città. I devoti avevano posto sulla sua testa una ghirlanda di quercia in argento, con trenta foglie e quindici ghiande; avevano caricato la sua mano destra con un disco d’argento, una vittoria che sventolava una foglia di palma, e una corona di quaranta foglie; nell’altra mano avevano fissato una verga d’argento e altri emblemi.
I tendaggi e le decorazioni non solo sfiguravano l’interno dei templi, ma erano anche fonte di pericolo per la loro infiammabilità. Sappiamo che il fuoco distrusse il Pantheon nel 110 d.C., il tempio di Apollo nel 363, quello di Venere e Roma nel 307 e quello della Pace nel 191: possiamo credere che gli incendi furono causati ed alimentati dai materiali infiammabili presenti all’interno. Non c’è altra spiegazione possibile, dal momento che sappiamo che le strutture erano ignifughe ad eccezione del tetto. Per dimostrare come venivano sfigurati gli edifici sacri con ogni sorta di ammennicoli, è sufficiente citare le parole di Livio:
"Nell’anno di Roma, 574, i censori M. Fulvio Nobiliore e M.Emilio Lepido restaurarono il tempio di Giove Capitolino. In questa occasione rimossero dalle colonne tutte le tavolette, i medaglioni e le bandiere militari omnis generis che vi erano state appese."]
Mi sarebbe piaciuto farvi vedere l'interno di uno di questi templi ma si sono portati via tutto, anche le strutture murarie.
Se poi qualche amico dovesse ritenere troppo sintetico questo post, suggerisco sommessamente il link indicato sotto che riporta la storia dei musei nel mondo con relative "acquisizioni" a danno di paesi come l'Italia, la Grecia e l'Egitto ma non solo.
Peccato che l'articolo si fermi alla Rivoluzione Francese; ma forse qualcuno potrà prenderne lo spunto per colmare la lacuna.

Iside continuità della Grande Madre che anticipa il culto cristiano di Maria



Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e il seguente testo "[G.M.] lo sono tutto ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo"

Iside, nascosta da un velo, così sottile ma allo stesso tempo così opaco. Solo il vero iniziato potrà toglierne il velo...
"Io sono la genitrice dell'universo, la sovrana di tutti gli elementi, l'origine prima dei secoli, la totalità dei poteri divini, la regina degli spiriti, la prima dei celesti, l'immagine unica di tutte le divinità maschili e femminili: sono io che governo col cenno del capo le vette luminose della volta celeste, i salutiferi venti del mare, i desolati silenzi degli inferi. Indivisibile è la mia essenza, ma nel mondo io sono venerata ovunque sotto molteplici forme, con riti diversi, sotto differenti nomi". (Apuleio, Metamorfosi, XI, 5)
Nella foto l'iscrizione sulla statua di Iside che Plutarco narra che si trovava a Sais, nell'antico Egitto, e l'immagine della "Pudicizia", statua nella cappella Sansevero, Napoli

I Giganti danzanti di Brodgar (leggenda delle isole Orkney)


Tanto tempo fa, in una notte scura, un gruppo di temibili giganti si riunì in un campo sul Ness di Brodgar, incastonato tra il Loch di Stenness alla sua sinistra e il Loch di Harray alla sua destra.
Lì decisero di ballare. Dalle pieghe del suo mantello il violinista estrasse un antico violino e cominciò un vorticoso reel. Al sentire la musica, i suoi compagni formarono un cerchio mano nella mano e poi ballarono, urlando e gridando come pazzi. Il terreno sotto i loro piedi tremava mentre i colossali ballerini giravano in tondo, sempre più velocemente.
Così grande era la loro eccitazione per la danza che si dimenticarono di prestare attenzione all'orizzonte ad oriente e non si resero conto di come rapidamente la notte stesse passando.
Poi, prima che se ne potessero accorgere, il sole del mattino sorse nel cielo dietro di loro e i suoi raggi di luce dorata toccarono la pelle dei giganti, che, con un grido e un lamento, si trasformarono sull’istante in fredda e dura pietra.
E lì sono rimasti per sempre.
Oggi, i visitatori del Ring of Brodgar possono vedere i loro giganteschi corpi pietrificati, congelati nel cerchio in cui ballavano. E, poco lontano, tutto ciò che rimane del violinista è la pietra solitaria ora conosciuto come Comet Stone.

Siamo polvere, però che pensa

"Siamo soli, piccoli frammenti in un universo il cui inizio non è da nessuna parte e il cui centro è ovunque".
Spyridon Marinatos, scopritore di Atlantide (Santorini/Creta)

⋮ Che cos'è l'uomo ⋮ Cat. [Articoli, Filosofia, Józef Maria Bocheński ] @  Rhadrix ⊚

mercoledì 27 ottobre 2021

Luoghi sacri

"Vedere gli angeli non è un grande miracolo, ma il miracolo è vedere i tuoi peccati".
s. Antonio il Grande

Paesaggi sacri europei, all'Università di Sassari il progetto Ecsland

martedì 26 ottobre 2021

Loci sacri...

LO SPARTITO DEL DIAVOLO

La misteriosa Abbazia di Lucedio e le sue leggende
Il toponimo Lucedio potrebbe derivare da locez come venivano indicati nel Medioevo i terreni boscosi e, andando ancora più a ritroso, dal latino lucus, parola che indica il bosco in generale, ma anche, più specificatamente, il bosco sacro alla divinità.
Non è un caso, infatti, che a Lucedio sia stata fondata nel XII un'abbazia, ad opera dei monaci cistercensi provenienti dalla cittadina francese di Chalon-sur-Saone, in Borgogna. Il terreno fu loro donato dal marchese Ranieri I del Monferrato e, nel corso del XII, XIII e XIV secolo, l'abbazia dedicata a "Santa Maria di Lucedio" crebbe per importanza sia spirituale sia economica. Molti marchesi della famiglia Aleramica scelsero non a caso di farsi seppellire proprio a Lucedio.
Il dominio dei cistercensi si estendeva sui territori di Montarolo, Darola, Castel Merlino, Leri, Ramezzana e su alcuni possedimenti dislocati nel vicino Monferrato.
I terreni del monastero erano suddivisi in "grange"; le singole grange venivano quindi affidate a un "fratello converso", che provvedeva a organizzare il lavoro di contadini salariati.
Questo sistema, fruttò all'abbazia di Lucedio notevoli proventi e una grande fama.
Nel 1784, però, a causa del disaccordo con la diocesi di Casale Monferrato per la nomina del nuovo abbate, l'abbazia di Lucedio venne secolarizzata e tutti i monaci cistercensi rimasti furono trasferiti a Castelnuovo Scrivia. Alcuni storici locali sostengono che la Chiesa avesse grande interesse ad appropriarsi dell'ingente patrimonio dell'abbazia.Oggi della struttura medievale si conservano il particolarissimo campanile a pianta ottagonale, il chiostro, l'aula capitolare e il refettorio. Purtroppo non sono aperti al pubblico, ma visitabili solo su prenotazione. E' rimasta invece intatta, inalterata nei secoli, l'aura magica di questi luoghi, comprendenti non solo l'abbazia, ma anche il cimitero di Darola, la cappelletta di Santa Maria delle Vigne e tutto il bosco circostante. Da secoli, infatti, su Lucedio si raccontano storie e leggende; e a tutt'oggi la gente del posto sussurra che, di tanto in tanto, accadono fatti misteriosi, difficilmente spiegabili con il solo ausilio della ragione.
cosi racconta la leggenda: in una notte del lontano 1684, durante un Sabba svoltosi presso il cimitero di Darola le streghe decisero di evocare il demonio. Al terzo richiamo il Diavolo apparve in tutto il suo fosco splendore e si accorse subito di trovarsi in una zona "interessante": a poca distanza, infatti, sorgeva la florida abbazia di Lucedio. Decise così di impadronirsi della zona, convertendo i monaci al proprio culto.
I religiosi furono sopraffatti e, da quel momento, iniziarono a vessare il volgo, perpetuando abusi e violenze di ogni tipo sui contadini indifesi...
Invece è probabile piuttosto che nella zona fossero rimaste forti tracce di culti pagani, come sempre distorte in adorazioni del demonio. E la stessa conformazione del territorio boschivo e paludoso al tempo stesso potrebbe aver favorito la conservazione di un antico retaggio.
E' altrettanto possibile, inoltre, che la presunta conversione "a Satana" dei monaci di Lucedio altro non fosse che una metafora popolare per sottolineare la loro scarsa equità nella gestione del lavoro e la loro avidità.
Un giorno qualcuno - così prosegue la leggenda - riuscì a imprigionare l'entità malvagia che tormentava Lucedio. Essa fu chiusa nella cripta del monastero, che venne poi murata.
A guardia della forza crudele furono posti i cadaveri mummificati e assisi su alti seggi di quegli abati che avevano saputo resistere alla tentazione demoniaca e si erano conservati puri.
Sembra però che, ogni volta che si parla troppo di Lucedio e che rinasca l'interesse per questo luogo ombroso, la presenza torni ad essere inquieta...
Su Lucedio ci sono una grandissima quantità di racconti popolari, fatti storici curiosi, leggende e favole dal sapore tenebroso... Dalla colonna che piange alle nebbie che invadono i boschi e i campi nella stagione autunnale; dal sepolcro della "regina di Patmos" al fantasma del monaco che si aggira nei pressi del vecchio monastero...
Il mistero che però più affascina è quello del cosiddetto "spartito del diavolo".
Poco distante dal monastero, sorge la chiesetta della Madonna delle Vigne, completamente immersa nella boscaglia e, purtroppo, oggi in pessime condizioni, abbandonata e quasi sommersa dalle sterpaglie.
Al suo interno ,vi si può accedere tranquillamente sopra la porta d'ingresso, vi è un affresco. Rappresenta un organo a canne e, sotto di esso, è ben visibile uno spartito:Secondo la leggenda, la melodia riportata avrebbe lo scopo di tenere imprigionata l'entità demoniaca chiusa nella cripta. Se suonata al contrario, avrebbe invece il potere di liberarla e scatenarla...
Così, proprio la musica diventa il "mezzo", la "chiave di volta" per liberare la forza magica e poetica di questi luoghi...

sabato 23 ottobre 2021

Le chiavi di Reitia e di Giano

Reitia, Aion Zevian e Giano, il padre degli dei, tutti muniti di due chiavi d'oro e d'argento, in tutto copiato maldestramente dai cristiani costruendo un San Pietro che con le medesime chiavi apre la porta inferi e la porta coeli 

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Sempre forme anomale di esercitare il potere

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Disastrati erano i rivoluzionari, ma anche la reale famiglia non dava una bella impressione, ambe due forme demenziali di esercitare il potere, forze degenerate che si alternano fra azione e razione.

venerdì 22 ottobre 2021

Cosa poteva contenere la cavita ottenuta nella parte posteriore del busto della "Dama di Elce", forse delle reliquie?



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La "dama di Elche", un antico busto in pietra (urna funeraria), ritrovato a Elche, in Spagna, nel 1897.
Nel sito archeologico dove è stato scoperto vi sono state trovate testimonianze di un insediamento ibero-punico, periodo risalente al III-IV secolo a.C.
La scultura raffigura una donna priva di espressioni sul viso, e presenta caratteristiche della cultura punico-iberica: orecchini a forma di nappa che pendono fino alle spalle e una collana intagliata che adorna il collo e il petto. Uno degli elementi più elaborati è il copricapo cerimoniale che adorna la testa: due grandi bobine, "rodetes". I berberi atlantici del Marocco mantenevano sempre lo stesso stile di copricapo usando i loro capelli.
L'apertura nella parte posteriore della scultura indica che fu utilizzata come urna funeraria. In effetti, nel 2011, María Pilar Luxan, l'autore dello studio, ha analizzato microparticelle all'interno del foro posteriore della statua di Elche utilizzando la microscopia elettronica e di raggi X spettrometria dispersiva. Tali particelle appartenevano alle ceneri delle ossa umane e che si confrontavano con quelle del periodo iberico. Si è concluso pertanto che la "dama di Elche" è un'urna funeraria, garantendone così l'antichità e confermando la sua funzione.
In Spagna, la scoperta della dama di Elche aveva avviato un interesse popolare per la cultura iberica preromana, tanto da essere stata raffigurata sulla banconota da 1 Peseta del 1948.
La scultura è conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Madrid, Spagna.

https://blogs.20minutos.es/cien.../tag/maria-pilar-de-luxan/Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona

La numerazione che non coincide


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Prima di dire che siamo eredi degli ettuschi,contolliamo la numerazione da 1 a 10:
1 - Thu(n) Uno
2 - Zal Due
3- ki, ci Tre
4 - Huth Quattro
5 - max, mac Cinque
6 - Sa Sei
7 - semph Sette
8 - cezph Otto
9 - nurph Nove
10 - zar, sar Dieci
Non mi sembrano abbastanza somiglianti (anzi per nulla simili)
all'italiano o alle lingue europee, pertanto, in base al noto parametro di confronto, l'etrusco non puo' essere classificato come lingua Indo-Europea*
* Questa parola e' sbagliata perche' e' composta da due parole disomogenee: Indo e' un idronimo, nome di fiume) e Europeo e' un etnico (nome di una razza, o popolo). Quindi Indo-Europeo non ha nessun significato. Resta il fatto, invece, che gli Etruschi provenivano dall'Oriente (India, confini Pakistan, fiume Indo )
Paolo Campidori, Copyright

mercoledì 20 ottobre 2021

L'ordalia

Creso
Anfora attica a figure rosse con Creso sulla pira - da Vulci – 500/490 a.C. - Musée du Louvre, Paris, F
Creso, seduto su un trono, attende il rogo offrendo una libagione. Il servitore Euthymos accende il rogo con due torce. Nel vaso le iscrizioni ΚΡΟΕΣΟΣ e ΕVΘVΜΟΣ.
Secondo le Storie di Erodoto, Creso (re della Lidia) , prigioniero, fu posto su una grande pira per ordine di Ciro il Grande re della Persia, che voleva vedere se forze soprannaturali si sarebbero manifestate per salvarlo dal rogo. Ciro appiccò il fuoco invocando Apollo ma accadde che, nel cielo fino ad allora sereno, giunsero improvvise pioggia e vento a spegnere le fiamme. Ciro si convinse allora della bontà di Creso e lo nominò suo consigliere. - Museo della Badia di Vulci

martedì 19 ottobre 2021

Verso il paradiso

La contemplazione di Dio. Il Paradiso, canto XXXIII | by Luca Pirola |  Medium
“Essere in uno stato paradisiaco significa essere liberi dai vincoli dell’auto-inganno e dall’illusione, e vedere le cose - compresi noi stessi - come sono in realtà e non come appaiono attraverso le immagini distorte dello specchio della nostra mente non rigenerata. [...] Quando siamo in questo stato di essere, non siamo semplicemente in Paradiso, ma siamo il Paradiso.
Il nostro stato di essere corrisponde al nostro modo di conoscere. […]
La perdita di questo stato interiore paradisiaco, che la terminologia cristiana definisce ‘caduta’, non è un evento passato, ma piuttosto un evento in cui siamo coinvolti in ogni momento della nostra vita.”
Philip Sherrard (1922-1995), Il peccato culturale dell’occidente, Servitium, 2001

Sepolcro degli Equinozi

IL SEPOLCRO DEGLI EQUINOZI - WikiEventi.it Roma
A Roma, fra il III e IV miglio dell’Appia antica esiste il cosiddetto Mausoleo o Sepolcro degli Equinozi, nel quale durante gli Equinozi si verificano ancor oggi dei fenomeni luminosi....
Mausoleo degli Equinozi, una fra le più affascinanti tombe dell’Appia Antica. Seminascosto all’interno di una proprietà privata, sorprende per le sue notevoli dimensioni e per il suo eccezionale stato di conservazione: le pareti, alte 7 metri, sono foderate di travertino, la volta a botte è integra. Ma la sua particolarità è data da 3 finestre a bocca di lupo, nel quale penetra la luce solare…
il cosiddetto Mausoleo o Sepolcro degli Equinozi, la cui prima descrizione risale al Piranesi che nel 1748 lo chiamò “Sepolcro ignoto”, ne disegnò la pianta e l’alzato esterno, descrivendolo in questo modo
Tav. XXXVI: «A: Pianta del Sepolcro situato sull’antica via Appia vicino alla vigna Buonamici. B: Ingresso oggi in parte rovinato. C: stanza quadrata con nicchioni nei lati. D: finestre in parte interrate dalle rovine. E: Elevazione. F: Masso fabbricato a corsi di Scagli di Selce con Calce e Pozzolana. G: piano presente della Campagna. H: Travertini, i quali rivestivano tutto l’esterno del Sepolcro. Erano coperti dal terreno …».

mercoledì 13 ottobre 2021

Il segnale


La foto della ragazza col mitra... | Butac - Bufale Un Tanto Al Chilo

"Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile. È con l’amore che comincia."

(Louis-Ferdinand Cèline, da “Viaggio al termine della notte)

La chiesa di Porto Venere ora dedicata a San Pietro era un tempio dedicato a Venre Ericina


MARE ONLINE Porto Venere, il borgo di pescatori diventato un'esca per i  turisti | MARE ONLINE

Il nome del borgo (Portus Veneris) derivava da un tempio dedicato alla dea Venere Ericina, sito esattamente nel luogo in cui ora sorge la chiesa di San Pietro. Il nome era probabilmente legato al fatto che, secondo la tradizione, la dea era nata dalla spuma del mare, abbondante proprio sotto quel promontorio.

martedì 12 ottobre 2021

Dame misteriose, sulla scia di quella di Elce

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La Dama di Guardamar conosciuta anche come Dama de Cabezo Lucero, è un busto calcare femminile, alta 50 cm, datata intorno al 400 a.c, che è stato scoperto in frammenti nel sito archeologico fenicio di Cabezo Lucero a Torrevieja nella provincia di Alicante, in Spagna, il 22 settembre, 1987.
Il primo pezzo venuto alla luce, poichè locato a bassa profondità, fu una ruota del copricapo.
Seguirono altri frammenti del busto della donna Iberia, e un grande pezzo che includeva il copricapo, viso e collo, che hanno molte analogie con il busto iberico, la Dama di Elche.
I frammenti sono stati portati al laboratorio del Museo Archeologico Provinciale di Alicante, si cominciarono a lavare e a provare ad unire i vari pezzi.
Il restauro è iniziato a ottobre 1987 ed è stato completato a giugno 1988. Lo stile della Dama di Guardamar è più arcaico rispetto alle altre sculture iberiche contemporanee, la Signora di Elche o la Signora di Baza, con caratteristiche più iberiche. Poiché nulla è più recente del 300 a.c. e il sito fiorì tra il 430 e il 350 a.c., sembra probabile che la Signora risalga al 400-370 a.c.
La scultura restaurata è di calcare grigio a grana fine. La signora indossa una tunica con scollo rotondo. Una fascia smerlata attraversa la fronte e collega le ruote cave, probabilmente di metallo sottile, su ogni lato. Sopra la fascia la donna indossa un mantello a pieghe finemente scolpite.
Ogni collana che indossa è diversa; una è composta da sette tori uguali tranne quello centrale, che è scanalato. Sotto la collana successiva ha pendenti più grandi, alcuni a forma di triangoli curvi e alcuni semicircolari.
La seconda stringa di perline ha, perle sferiche e piatte a forma di oliva, sopra di esso è una stringa di perle sferiche con due piastre al centro. Nella realtà sarebbero stati fatti in pasta vitrea, come spesso apparso nello scavo Albufereta.
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YAZIDI, LA VIA DELLE PORTE


La festa dell'Autunno che si svolge nella città santa di Lalish, che si crede sia il luogo in cui iniziò la creazione e dove la sede di Dio discese x governare la terra. Ospita le tombe dello sceicco Adi e altre figure sacre. Gli stipiti delle porte d'accesso sono venerati

domenica 10 ottobre 2021

Un'altra papessa

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Maifreda da Pirovano l'unica vera Papessa della storia bruciata sul rogo dell'inquisizione cattolica per aver sfidato la chiesa di Roma nella Pasqua del 1300, giorno casualmente di inizio anche del racconto della Divina Commedia di Dante Alighieri. Affresco presente nella cripta Madonna della Grotta di Ortelle.

mercoledì 6 ottobre 2021

Il Daimon

"Io penso che il Daimon ti afferra o attraverso una specifica difficoltà, oppure attraverso uno specifico talento"
James Hillman
Il Daimon nella tradizione mitologica greca - Tracce di studio

martedì 5 ottobre 2021

Portatori di un sapere in parte perduto

I Terapeuti di Alessandria

Filosofia e guarigione dell’anima secondo Filone

di Julien Ries

Aquileia d'Egitto - Isonzo-Soča
Aquileia ed Alessandria dal I secolo a.C. avevano un collegamento marittimo bisettimanale e da Alessandria i terapeuti influenzarono con il loro credo tutto il Mediterraneo



I terapeuti

Nel suo trattato La vita contemplativa Filone D’Alessandria, contemporaneo di Cristo, dipinge una società di filosofi asceti vissuti sul bordo del lago Mareotide in Egitto (1). «La scelta di questi filosofi è immediatamente sottolineata anche dal nome che essi portano - scrive Filone - Terapeuti e Terapeutridi è il loro vero nome, innanzitutto perché la terapeutica di cui fanno professione è superiore a quella che vige nelle nostre città ; questa si limita a curare i corpi, ma l’altra cura anche le anime (psychos) in preda alle malattie penose e difficili da guarire che i piaceri, i desideri, le preoccupazioni, i timori, le avidità, le sciocchezze, le ingiustizie e l’infinita moltitudine delle altre passioni e miserie fanno abbattere su di loro. Ed ancora perché hanno ricevuto un’educazione conforme alla natura e alle sante leggi, al culto dell’Essere che è migliore del bene, più puro dell’uno, più primordiale della monade” (vc 1-2)

Così Filone dà due sensi alla parola Terapeuta: da una parte curano e guariscono le passioni e dall’altra rendono culto a Dio.



Il loro quadro di vita

Filone situa la colonia dei terapeuti su una collina di mezza altezza al disopra del lago Mereotide, eccellente situazione in ragione della sicurezza del luogo, della temperatura equilibrata dell’atmosfera, degli effluvi del lago, del clima molto salubre (vc 22-23). F Daumas ha localizzato questo luogo tra il lago Mareotide e il mare, non lontano da Alessandria, dal lato ovest davanti alla villa di Taposiride, regione in cui erano stati innalzati numerosi monasteri, forse proprio sul luogo dove avevano vissuto i terapeuti. Su tutta la costa sono d’altronde presenti antiche vestigia (2).

I terapeuti hanno iniziato con l’abbandono dei beni ai figli, alle figlie, ai parenti o amici, in quanto l’essenziale era costituito dal desiderio di immortalità e di vita felice. Inoltre, invece di lasciar rovinare la loro fortuna sceglievano la filosofia per loro stessi, ma lasciavano agli altri la ricchezza e la sua gestione (vc. 13, 17). Essi fuggono la città e cercano la solitudine al di fuori delle mura della città, in giardini e luoghi isolati (vc. 18-20). Le loro case, molto semplici sono protette contro il sole e contro il freddo, separate l’una dall’altra, ma in grado di permettere la vita in comunità e il mutuo soccorso in caso di bisogno (vc.24). In ogni casa si trova un santuario o eremitaggio che permette di adempiere i misteri della vita religiosa. Qui essi non portano né bevande, né alimenti, né alcun altra cosa che possa riguardare i bisogni del corpo, ma oracoli, leggi, inni, tutto ciò che permette alla scienza e alla pietà di divenire grande e di raggiungere la pienezza (vc. 25). Questi terapeuti non sono asceti che cercano la pazienza, ma mistici che si danno alla contemplazione. Conducono una vita austera al fine di riservare forza e tempo alla vita interiore: non bevono che acqua, non mangiano che pane e sale condito con isopo. Si vestono di lino e si astengono da ogni cibo in cui ci sia del sangue (vc 73).



La loro vita religiosa

Una delle due zone della loro casa è dedicata alla contemplazione di Dio e delle potenze divine, a tal punto che i loro sogni ne portano traccia. Hanno l’abitudine di pregare due volte al giorno, mattina e sera; all’alba essi chiedono una giornata felice, veramente felice, cioè che la luce celeste si riversi sulla loro intelligenza; al tramonto pregano perché la loro anima, completamente placata dal tumulto dei sensi e dagli oggetti sensibili, raccolta nel suo consiglio e nel suo foro interiore, segua le vie della verità (vc 27-28). Tra questi due momenti di preghiera, essi si danno alla lettura delle sante Scritture. I loro libri sono opere che spiegano il senso allegorico dei testi sacri. Filone insiste evidentemente sull’esegesi allegorica dei libri santi e degli autori antichi, ma non ci dà precisazioni. Egli ha forse in mente alcune speculazioni egiziane, simili a quelle del De Iside.

Oltre alla meditazione, hanno un posto di rilievo nella loro vita la composizione di canti e di inni in lode a Dio. Durante sei giorni, il programma è identico e i terapeuti rimangono nei loro eremitaggi, liberi dalle preoccupazioni materiali, ma anche da ogni affetto e da ogni relazione. Vivono in un clima propizio alla meditazione, in una fraternità tra persone solitarie. Per i terapeuti, si tratta di vedere chiaro, di impegnarsi nella contemplazione dell’essere per arrivare alla felicità perfetta al fine di divenire luce per gli altri.



La riunione comune del settimo giorno.

Il settimo giorno tutta la comunità si raccoglie per una riunione comune in una sala divisa in due parti, l’una per gli uomini, l’altra per le donne. Il rituale di questa riunione è una celebrazione è molto precisa: i partecipanti sono seduti per ordine di età, in atteggiamento di grande dignità, con le mani sotto i vestiti; il più anziano e il più versato nella dottrina avanza e fa un’esposizione che differisce per profondità da quella di coloro che fanno i retori e i sofisti, perché deve raggiungere l’anima. Anche le donne, separate da un muro di tre o quattro gomiti d’altezza, ascoltano gli oratori (vc. 31-33).

In questo giorno santo e festivo, massaggiano il corpo con l’olio per distenderlo e, secondo la loro usanza, non mangiano e non bevono che al tramonto: le occupazioni filosofiche sono degne di luce, i bisogni del corpo possono trovare soddisfazione la notte.



La solenne assemblea del cinquantesimo giorno


Dopo un periodo di sette settimane, i terapeuti si riuniscono con la più solenne maestà. Vestiti di bianco e radiosi, allineati davanti a letti di tavola, alzano gli occhi e le mani in direzione del cielo per chiedere a Dio che la festa gli sia gradita (vc. 66). Dopo le preghiere, gli anziani, considerati secondo la loro data di ammissione alla comunità, prendono posto, da un lato a destra gli uomini, dall’altro a sinistra le donne che hanno mantenuto la castità per il loro zelo appassionato di saggezza (vc. 67-68). Distesi su semplici letti di foglie, ricoperte da tovaglie fatte con il papiro del paese, sono serviti non da schiavi, ma dai novizi della comunità scelti secondo il rango del merito (vc 69-70).

Prima dell’inizio del banchetto il presidente fa un’omelia, incidendo lentamente le idee nelle anime: spiegazione delle sante Scritture a seconda del significato allegorico, al fine di evidenziare la bellezza straordinaria dei simboli e delle idee e di risalire dal visibile alla contemplazione dell’invisibile (vc.78). Seguono il canto di un inno da parte del presidente e la ripresa dei ritornelli e delle antifone da parte di tutta l’assemblea.

Quando questi canti sono terminati, comincia il pasto: pane lievitato con del sale mescolato all’isopo come condimento. Poi tutti si alzano per celebrare la veglia sacra con due cori, di uomini e donne, nella sala del banchetto. « A volta cantano all’unisono, a volte battono le mani in cadenza e danzano con canti che si rispondono, eseguendo su un ritmo divinamente ispirato sia i canti di processione, sia di stanze, eseguendo le strofe e le antistrofe della danza dei cori» (vc 84-85). Quindi i due cori si mescolano e divengono uno, come già in altro tempo sul bordo del Mar Rosso dove si è compiuto il miracolo della liberazione del popolo, quando il profeta Mosé intonò i canti. In effetti questa veglia del cinquantesimo giorno ricorda la liberazione di Israele in viaggio verso la Terra promessa. Al termine di questa notte, al levarsi del sole, tendono le mani verso il cielo e con un’ultima preghiera domandano una giornata felice, la conoscenza della verità e la chiarezza di giudizio e ciascuno si ritira nel suo santuario.



I Terapeuti di fronte alle malattie della civiltà ellenistica

Nel suo De vita Contemplativa, Filone oppone i terapeuti ai sofisti, agli adoratori dei semi-dei della corrente evemerista della sua epoca, agli adoratori di immagini e di statue degli dei e a tutti coloro che si danno alle orge dei banchetti greci. Tutto ciò rappresenta malattie penose e difficili da guarire. In altre parole, Filone stigmatizza le malattie della civiltà ellenistica.

I terapeuti del lago Mareotide hanno scelto la terapia in grado di procurare loro la guarigione della psiche (psykas), in accordo con l’essere e l’immortalità (3).

La loro terapia si svolgeva in tre tappe. La prima tappa, quella dei sei giorni della settimana, ha luogo per ogni uomo e donna - tutti dediti alla castità totale - nel monasterium della sua casa: silenzio, lettura, contemplazione, digiuno rotto soltanto al calare della notte da un pasto fatto di pane condito con sale, isopo ed annaffiato con acqua della sorgente. Ciascuno inizia e termina la sua giornata con la preghiera. La seconda tappa, quella del settimo giorno, si svolge nel santuario in cui si riunisce l’assemblea comune degli uomini e delle donne, separati da un muro di quattro gomiti. E’ il giorno sacro della terapia liturgica: ascolto della Torah spiegata e commentata, pasto in comune. E’ anche il giorno durante il quale ognuno massaggia il suo corpo con l’olio per distenderlo. La terza tappa è quella della grande terapia, la veglia del cinquantesimo giorno, poiché il numero cinquanta è il più santo e il più conforme alla natura. La sera del quarantanovesimo giorno ha luogo la grande assemblea solenne. Tutti sono vestiti di bianco, iniziano con il prendere un pasto frugale e passano la notte in una veglia sacra fatta di letture, di preghiere e di canti. Questa veglia è in ricordo delle opere di dio compiute attraverso l’intermediazione di Mosé sui bordi del Mar Rosso in favore della liberazione definitiva del popolo.

Julien Ries



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Note

1) F. Daumas, P. Miquel, Philon d’Alexandrie, De Vita Contemplativa introduction, notes, texte grec, trad. française, Cerf, Paris,1963. J. Y. Leloup, Prendre soin de l’Etre. Philon et les Thérapeutes d’Alexandrie, Albin Michel, Paris,1993. Trad. Franc. et commentaire.

2) F. Daumas, op. cit. pp. 42-45.

3) M. Simon, L’ascetisme dans les sectes juives, in U. Bianchi (a cura di) La tradizione dell’enkrateia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, pp.393, 431.

I Terapeuti di Alessandria - Il filo di átopon - Centro Studi Mythos