martedì 29 novembre 2022

in memoriam Bobby Sands

Europa che non sai più ascoltare
le voci dei Confini, delle foreste
le voci delle onde e dei fondali,
Europa senza poemi, Europa muta
dei Templi isteriliti, sghembi
fatti di vetro ed un'erba marcita
Europa saccheggiata, caduta.
Dove sono gli stormi di gabbiani
che scaldavano ogni giorno i promontori
dove dispersi gli Iris e le calendule?
i Boschi sacri, le pietre in cerchio
delle vette, parallele
al sole e alle galassie, dove sono?
Giuseppe Conte, il canto irlandese ( in memoriam Bobby Sands)
canti d'Oriente e d'Occidente, Mondadori, Milano, 1997



venerdì 25 novembre 2022

La folgore ed il rito a Roma

Qualche tempo fa durante lo scavo archeologico per la realizzazione della Stazione di Amba Aradam della linea C della metropolitana di Roma sono stati rinvenuti esempi di sepoltura di fulmine. Entrambi databili al I secolo d.C., contenevano macerie di edifici e una piccola lastra di marmo con l'iscrizione 𝙁𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧 𝘾𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢 in un caso e 𝙁𝙪𝙡𝙜𝙤𝙧 𝘾𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢 nell'altro. A spiegare cosa sia la sepoltura del fulmine è l'archeologa della Soprintendenza Speciale, Simona Morretta: "Nel mondo antico, i fulmini sono segni degli dei. La comunità dei cittadini incarica l’interprete dei fulmini (𝙖𝙧𝙪𝙨𝙥𝙚𝙭 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧𝙖𝙩𝙞𝙤𝙧) di studiare il fulmine, interpretarlo (poteva essere un segnale positivo o negativo) e indicare la forma di espiazione (𝙚𝙭𝙥𝙞𝙖𝙩𝙞𝙤) per placare le divinità. La disciplina di cui l’aruspice dei fulmini doveva essere esperto prevedeva innumerevoli casi diversi. Le caratteristiche del fulmine da tenere in considerazione erano il colore, la forma, il punto cardinale di provenienza, l’ora dell’evento (diurna o notturna), variamente combinate fra loro, tutte descritte dettagliatamente nei perduti 𝙡𝙞𝙗𝙧𝙞 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧𝙖𝙡𝙚𝙨 etruschi, di cui restano alcuni brani riportati da scrittori romani (in particolare Seneca).
Quando un fulmine colpisce qualcosa sulla terra, campo, casa, statua o altro, i Greci gli Etruschi e poi i Romani decidono che quel qualcosa debba essere sepolto, quasi a seppellire il fulmine stesso, e chiamano infatti quel luogo 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧 𝙘𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢, cioè fulmine sepolto.
La sepoltura consisteva in una fossa riempita con gli oggetti colpiti dalla folgore, che doveva rimanere a cielo aperto, con una iscrizione che ne indicasse il contenuto (appunto, 𝙁𝙑𝙇𝙂𝙑𝙍 𝘾𝙊𝙉𝘿𝙄𝙏𝙑𝙈 o anche solo 𝙁. 𝘾. o altre varianti). Il rituale era complesso e presieduto dal pontefice massimo, la più alta carica religiosa".



mercoledì 23 novembre 2022

Per il fine di cancellare indebitamente il sacro legato alla romanità

Questo fonte battesimale della basilica di S. Pietro, in porfido rosso, era in origine il coperchio del sarcofago dell'imperatore Adriano, nel suo mausoleo (l'attuale Castel Sant'Angelo). Portato in S. Pietro fu variamente usato come sepolcro, infine fu riconvertito in fonte battesimale da Carlo Fontana nel 1698






domenica 20 novembre 2022

Fontana del Fero un antico santuario dedicato alla Dea Feronia, dimenticata dai veronesi e vicinerei esisteva, Porta Orietta che ancora si può individuare




Un lago artificiale nato da attività industriali, ma con acque purissime e minerali

Il lago di Roma
Pigneto, tra Via Prenestina e via di Portonaccio, V Municipio, zona est della capitale: qui, nascosto tra la rigogliosa vegetazione si trova un lago che in pochi conoscono: parliamo del lago Ex Snia, detto anche lago Sandro Pertini.
Ufficialmente si chiama "Sandro Pertini" ma per gli abitanti del quartiere Pigneto-Prenestino, è il lago ex-Snia. Snia sta per Snia Viscosa la fabbrica che popolò quest'area della capitale negli Anni '20 in poi: oltre 2 mila operai, più del 50% donne, provenienti chi da altre regioni, chi dai borghi del centro. Poi nel 1954 la fabbrica venne chiusa ...Eccolo, in lontananza, il lago di Roma. Diecimila mq d’acqua, addirittura balneabile dicono. Da qui sembra una pozza ma è abbastanza per far galoppare la fantasia verso orti galleggianti, macchie rosa di fenicotteri, grandi cespugli di Buddleja, minuscoli giunchi palustri e qualche salice piangente, capanne di legno per l'osservazione degli uccelli, mercati coperti al posto delle vecchie fabbriche. Questo specchio d’acqua risale agli anni ’90 ed è nato fondamentalmente per un errore umano durante i lavori in un cantiere per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. La zona si trova a pochi passi da via dell’Acqua Bullicante: proprio lì sotto scorreva il fosso della Marranella e poco più in profondità è situata una falda acquifera da cui sgorga purissima acqua minerale.Durante gli scavi, la falda iniziò a riempire l’invaso artificiale per il parcheggio: venne deviato il flusso nelle fognature per evitare il bocco dei lavori e la chiusura del cantiere, tuttavia Largo Preneste si allagò.
In quella zona si era quindi venuto a creare un laghetto autoalimentato: oggi è possibile ammirarlo accedendo al parchetto delle Energie.
La superficie del lago ex Snia supera quella del laghetto di Villa Borghese, particolarmente ricca l’avifauna locale: troviamo infatti il germano reale, il fagiano comune o il martin pescatore, ma anche esemplari di passaggio di falco pellegrino e beccacci....



giovedì 10 novembre 2022

VILLA CUSCIANNA


Oggi vi raccontiamo dell’ottocentesca Villa Cuscianna, un misterioso ed eccentrico edificio abbandonato completamente ricoperto di simboli alchemici ed esoterici.
Un luogo che per anni è stato al centro di storie e leggende create per spaventare i bambini, convinti che al suo interno ci fossero i fantasmi. Uno stabile che immagineremmo nascosto e isolato in buie strade di campagna e che invece si trova a pochi metri dalla affollata piazza principale di Matera.
Sulle due colonne del cancello di ingresso è inciso un nome: Leonardo Cuscianna. Si tratta di colui che alla fine dell’800 fece costruire questa villa dall’architettura eclettica con richiami allo stile moresco.
Non si conosce molto della sua vita: sappiamo solo essere nato a Matera nel 1884 e morto a Boston nel 1947, ma pare evidente che fosse interessato al mondo della Massoneria, di cui probabilmente faceva parte.
L’intero edificio riconduce alla dottrina dell’esoterismo e ciò lo si comprende andando a studiare i mille particolari disseminati su facciata, scale e persino sullo stesso cancello di accesso.
La ringhiera infatti riporta degli aguzzi decori in ferro che rappresentano il simbolo alchemico della “monade” che in sé racchiude la luna, il sole, gli elementi naturali e il fuoco: le unità fondamentali dell’Essere. Un segno che compare in altri monumenti come la Porta Alchemica di Villa Palombara a Roma.
Sulle due colonne è riportato invece il simbolo dell’arsenico: una decorazione di colore rosso formata da una linea con due tondi alle estremità. Si narra che questo elemento chimico, assieme allo zolfo, portasse a uno stato di trance mistica e rivelasse allo Spirito il cammino da intraprendere.
Altro particolare che notiamo affacciandoci tra le inferriate, e che ritorna in tutta la struttura, è una stella a otto punte in un cerchio bianco. Visibile sulle balaustre delle scale di accesso e sulla vetrata della torre sinistra, dove la stella appare a forma di fiore con una croce come stelo: una figura che rimanda a leggendario ordine segreto dei Rosacroce.
Di questo simbolo ne parla l’attuale proprietario Nicola Cuscianna, nipote di Leonardo, in un’intervista rilasciata alla testata SassiLive.
«La figura geometrica richiama il significato simbolico del numero otto, collegato alla resurrezione, che ricorre spesso negli impianti occulti dei Templari. Corrisponde al ritmo perfetto dell’armonia e della felicità che derivano dalla riconquista del Paradiso. Anche sul pianerottolo della prima scala è disegnato un quadrato di colore rosso che contiene un ottagono ispirato alla forma di Castel del Monte e quindi a Federico II di Svevia».
L’edificio è poi pieno di iscrizioni in latino. Sulla facciata centrale si trova la scritta “Donec Erunt Ignes” (“Finchè durerà il fuoco”), un’espressione usata dall’autore di testi di alchimia Fulcanelli per indicare il “fuoco segreto”, l’essenza spirituale senza cui non esisterebbe la vita stessa.
Ai lati due quadrati di pietra che racchiudono il “Quadrato del Sator”, una misteriosa e antica iscrizione latina, in forma di quadrato magico, composta dalle cinque parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS.
La loro giustapposizione, nell'ordine indicato, dà luogo a un palindromo, vale a dire una frase che rimane identica se letta da sinistra a destra e viceversa. La stessa frase palindroma si ottiene leggendo le parole del quadrato dal basso verso l'alto purché ogni riga sia letta da destra verso sinistra.
L'iscrizione è stata oggetto di frequenti ritrovamenti archeologici, sia in epigrafi lapidee sia in graffiti, ma il senso e il significato simbolico rimangono ancora oscuri, nonostante le numerose ipotesi formulate.
Sulle due porte laterali di ingresso sono presenti altre due frasi ermetiche. Sulla posta sinistra “Sub Rosae” con una rosa disegnata al centro, un chiaro riferimento ai Templari e ai Rosacroce.
Su quella di destra invece “Si sedes non is”, che letta da sinistra a destra significa “se ti siedi non procedi” e da destra a sinistra “se non ti siedi procedi”. In entrambi i casi rappresenta un invito a perseverare nel proprio obiettivo e nel miglioramento di sé: un’esortazione da sempre cara alla Massoneria.

L'inizio è la fine vicendevolmente

"Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all'apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente. Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada… La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. O lo attende alle spalle, come il vecchio Tobia. In realtà egli l’ha in sé da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto."
(Cristina Campo)



martedì 8 novembre 2022

Il vischio e la melagrana i frutti che segnano la discesa agli inferi

Siamo tutti alla ricerca del ramo d'oro come Enea nel sacro bosco di Diana, presso Cuma



di Francesco Lamendola - 01/10/2008 da Arianna Editrice

Vi è un episodio, nel VI libro dell'Eneide, che da sempre attira la curiosità dei lettori, per l'atmosfera arcana e misteriosa lo pervade; tanto che il celebre etnologo scozzese James G. Frazer vi si ispirò per la stesura della sua opera monumentale The Golden Bough, in dodici volumi (1911-1915). 

È l'episodio, appunto, del «ramo d'oro»: un misterioso ramo d'albero, senza il quale l'eroe troiano non avrebbe mai ottenuto da Plutone e Proserpina l'accesso ai regni dell'Ade, ove desiderava recarsi per incontrare l'anima del padre Anchise e apprendere da lui il destino che lo avrebbe atteso dopo l'arrivo nel Lazio.

La Sibilla Cumana, interpellata in proposito, era stata molto chiara, parlando per ispirazione del dio Apollo (Aen., VI, 136-148):

 

     … Latet arbore opaca

aureus et foliis et lento vimine ramus,

Iunonis infernae dictus sacer; hunc tegit omnis

lucus et obscuris  claudunt convallibus umbrae.

Sed non ante datur telluris  operta subire,

auricomos quam qui decerpserit arbore fetus.

Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus

instituit; primo avolso non deficit alter

aureus et simili frondescit virga metallo.

Ergo alte vestigia oculis et rite repertum

carpe manu; namque ipse volens  facilisque sequetur,

si tefata vocant; aliter non viribus ullis

vincere nec duro poteris convellere ferro.

 

Diamo qui di seguito la traduzione di Enzio Cetrangolo (Virgilio, Eneide, Sansoni Editore, Firenze, 1988, p. 243):

 

Nascosto in un albero folto è un ramo che ha foglie

d'oro e il gambo flessibile, sacro a Prosèrpina;

tutta la selva lo copre e fitte ombre lo cingono

di convalli. A nessuno è dato di entrare nei regni

segreti se prima non svelle quell'aureo germoglio.

La bella Prosèrpina vuole che a lei si riserbi

Questo tributo; al primo staccato non manca il secondo

d'oro anch'esso, e il ramo di foglie d'oro si veste.

Dunque ben addentro osserva con gli occhi e trovatolo,

come il rito prescrive, staccalo con la tua mano;

quello da sé docilmente verrà alla tua mano

se il fato ti elegge, altrimenti non forza ti giova

a piegarlo, né duro ferro a strapparlo.

 

Udito il vaticinio del Dio, Enea, accompagnato dal fido Acate, lascia pensoso l'antro dalle cento porte della Sibilla. Dalla sacerdotessa ha appreso, inoltre, che il cadavere di un suo compagno giace insepolto sul lido, e che deve trovarlo per rendergli onorevoli esequie sulla pira funebre; infine, dovrà compiere un sacrificio di pecore nere, sacre agli dei dell'Averno, per propiziarsi la temeraria impresa.

Per prima cosa, i due compagni s'imbattono proprio nel corpo di Miseno, precipitato in mare da Tritone, geloso della sua abilità nel suonare la tromba; poi, mentre - con gli altri Troiani - gli apprestano le esequie, Enea leva una preghiera affinché un segno gli mostri ove cercare il misterioso ramo d'oro, nel fitto della foresta di frassini e querce.

Ed ecco che la sua invocazione viene esaudita: compaiono due bianche colombe, uccelli sacri a Venere (la madre dell'eroe), che lo guidano fino al recesso ombroso ove cresce il ramo d'oro, che Enea riesce a svellere - benché esso sia inspiegabilmente resistente - senza eccessiva difficoltà (Id., 199-211):

 

pascentes illae tantum prodire volando,

quantum aciem possent oculi servare sequentum.

Inde ubi venere ad fauces grave  olentis Averni,

tollunt se celeres liquidumque per aëra lapsae

sedibus optatis gemina super arbore sidunt,

discolor unde auri per ramos aura refulsit.

Quale solet silvis brumali frigore viscum

fronde virere nova, quod non sua seminat arbos,

et croceo fetu teretis circumdare truncos,

talis erat species auri frondentis opaca

ilice, sic leni crepitabat brattea vento.

Corripit Aeneas extemplo avidusque refringit

cunctantem et vatis portat sub tecta Sibyllae.

 

Sempre nella traduzione di Enzio Cetrangolo (Op. cit., pp. 245-47):

 

Quelle a volo beccando tanto andavano innanzi

quanto gli occhi potessero intenti guardarle.

E quando alla bocca del livido Averno pervennero

veloci si levano a volo e dal limpido aere calando

si posan su l'albero strano, di doppia natura,

donde rifulse tra i rami un vivido d'oro

scintillio. Quale d'inverno il vischio nei boschi

di nuova fronda si veste che in altro albero ha il seme

e i lisci tronchi circonda di gialle sue bacche,

tale su l'ìlice nera sembrava dell'oro la fronda,

così crepitava al vento lieve la lamina.

Enea in fretta la prende e la stacca bramoso

mentre quella esitava e la reca nell'antro

all'indovina Sibilla.

 

Che il ramo d'oro fosse un ramo di vischio, pianta sacra nell'ambito varie religioni antiche (basti pensare, nel caso dei Celti, al druidismo), non è detto chiaramente; Virgilio si limita a paragonarlo a un ramo di vischio. La cosa, del resto, in questa sede non c'interessa, benché abbia affaticato la curiosità di molti insigni filologi classici.

Quello che ci preme evidenziare, è il significato simbolico che l'intero episodio riveste, in un contesto volutamente allusivo e misteriosofico; preludio ad altre e non meno impegnative allegorie,  delle quali è intessuta la discesa di Enea nell'Averno. Del resto, chi abbia visitato il monte di Cuma e percorso la lunga galleria che lo perfora, scavata nella viva roccia e adducente a un  vasto locale che era l'antico santuario sotterraneo della Sibilla,  ha di certo provato quel fremito arcano cui non sfugge il lettore del libro VI dell'Eneide, e che ha ispirato in gran parte il viaggio oltremondano di Dante nella sua Divina Commedia.

Virgilio, come appare dalla sua concezione del destino delle anime dopo la morte, era imbevuto di dottrine orfico-pitagoriche, ed anche notevolmente aperto (si veda la IV Egloga delle Bucoliche) al clima di aspettativa generalizzata di tipo messianico e soteriologico (cfr. anche il nostro saggio Il culto di Virgilio nel Medioevo, pubblicato nel quarto volume degli Atti della Società «Dante Alighieri» di Treviso, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).

Ciò su cui vogliamo riflettere in questa sede, tuttavia, non è il significato magico e religioso del «ramo d'oro» nel poema di Virgilio, quanto coglierne la dimensione iniziatica e simbolica a-temporale; e, quindi, il suo possibile significato anche per noi, cittadini - dal punto di vista materiale - di una società di massa dai ritmi sempre più frenetici, tali da distrarci in misura sempre maggiore dalla nostra interiorità e da un legame armonioso col mondo.

E, innanzitutto: che cosa può rappresentare il concetto del «ramo d'oro», non come simbolo iniziatico specifico (sia esso un ramo di vischio o di qualunque altra natura), ma come metafora di una clavis universalis mediante la quale accedere ai livelli profondi della realtà, quelli che sfuggono all'osservatore distratto, ma dai quali - in realtà - dipende l'orientamento fondamentale della nostra vita e, quindi, il nostro destino?

E, prima ancora: vi è bisogno di una siffatta clavis universalis; oppure tutto quel che serve, per affrontare il viaggio della vita, sono un discreto spirito pratico, una istintiva capacità di operare scelte e prendere decisioni, nonché una certa dose di sano buon senso?

Partiamo da questo secondo punto.

Non crediamo che lo spirito pratico, l'istinto e il cosiddetto buon senso - che è poi il mero senso comune -, siano sufficienti; e non perché la vita, oggi, sia divenuta particolarmente complicata (cosa, peraltro, innegabile), quanto perché la vita in se stessa, in qualunque società e circostanza, è sempre una avventura molto più complessa e ricca di possibilità - positive e negative - di quel che generalmente si creda e si ammetta.

Talmente complessa, che non sono poche le persone le quali non fanno in tempo ad impadronirsi nemmeno dei suoi meccanismi più semplici, prima che sia giunta, per esse, la fine del viaggio. Anche da ciò, crediamo, è nata, nel contesto di svariate culture, l'idea della reincarnazione o quella delle rinascite (concetti distinti, ma quasi sempre equiparati, se non addirittura confusi, nel linguaggio comune): non parendo sufficiente, in molti casi, il tempo di una vita umana per comprendere e attuare neppure gli elementi essenziali dell'arte di ben vivere.

Infatti, imparare a vivere è un'arte; ed è un'arte che non può essere insegnata - sebbene sia sempre possibile elargire dei buoni consigli -, ma solo sperimentata su se stessi, consumandola - in parte o anche del tutto - proprio nei reiterati tentativi di apprenderla. In questo sembrerebbe esservi un qualcosa di paradossale: perché l'idea dell'apprendimento, di norma, si accompagna all'idea che le cose imparate siano «spendibili» (come si usa dire, tradendo nel vocabolario la filosofia economicistica oggi dominante) in vista di un fine ulteriore; e non già che l'apprendimento stesso consista nell'esaurimento di ogni ulteriore possibilità d'iniziativa.

Però la contraddizione è più apparente che reale, perché l'arte di imparare a vivere si impara - se la si impara - vivendo; e quindi non vi sono un prima e un dopo, nettamente distinti; vivere e imparare a vivere sono due cose che procedono insieme.

Ciò detto, resta la prima domanda che ci eravamo posta: se, cioè, sia davvero necessario comprendere l'uso di uno strumento di lettura generale della realtà, dal momento che non basta semplicemente, procedere con il buon senso e la «normale» esperienza della vita stessa. Purtroppo, quest'ultimo concetto significa, molto spesso, né più né meno che abituarsi a ripetere sempre i medesimi errori, senza imparare mai nulla; ed è per questo che una «chiave» di accesso ai significati profondi della vita risulta, effettivamente, indispensabile. 

O, almeno, lo è se si desidera vivere in maniera non superficiale, ma con piena consapevolezza delle grandi responsabilità e delle amplissime possibilità che il fenomeno «vita»ci offre, purché non ci accontentiamo di soffermarci nei suoi livelli più elementari ed inferiori, ma avvertiamo l'esigenza di spingerci un poco più avanti.

In questo senso, come dicevamo, imparare l'arte di vivere corrisponde a una vera e propria iniziazione, ossia a una cerimonia di passaggio che introduce da un piano di realtà ad un altro; nel nostro caso, dal piano del contingente e del relativo, a quello dell'assoluto e del necessario.

 

Ora, l'iniziazione è una cosa che non è possibile darsi da sé; la si riceve; però, al tempo steso, è ben vero che la può ricevere solo chi ne sia veramente degno e che vi sia, in qualche modo, preparato ed in grado di accoglierla. Questo, crediamo, si cela dietro il significato allegorico che non basta aver trovato il ramo d'oro - impresa già di tutto rispetto -, ma bisogna anche essere in grado di svellerlo dall'albero su cui cresce (che è di tutt'altra natura), per essere degli iniziati: cosa che in nessun modo si può ottenere mediante un puro atto di forza.

Negli antichi Misteri - in quelli Eleusini, ad esempio - l'iniziazione veniva somministrata da un sacerdote o, comunque, da una persona che era già stata, a sua volta, iniziata. Nella società contemporanea, l'iniziazione può venire da una persona (non necessariamente da un iniziato nel senso tecnico del termine), ma anche da una situazione o da un complesso di circostanze. Il concetto fondamentale è che, quando un individuo è pronto per il passaggio ad un livello superiore di consapevolezza, sono le circostanze stesse a chiamarlo. Il profano dirà che quelle circostanze sono state casuali; ma la verità è che il caso non esiste, e che noi veniamo chiamati allorché siamo pronti, e non un minuto prima.

Un altro concetto fondamentale è che l'iniziazione segna bensì il passaggio a un livello più elevato di consapevolezza, ma anche la capacità e la possibilità di fare ritorno, arricchiti e illuminati da tale esperienza, al livello della vita cosiddetta ordinaria. Vi sono, pertanto, sia un movimento di ascesa, che uno di discesa; una andata  e un ritorno. 

Il vero iniziato non è colui che sa solamente partire, ma colui che ha appreso anche l'arte di ritornare. Ritornare fra gli uomini; ritornare fra le cose di ogni giorno, ma con un altro livello di consapevolezza

Ecco perché l'iniziato non si riconosce facilmente di primo acchito; e chi si atteggia a tale, certamente non lo è. Il vero iniziato è in grado di fare esattamente le stesse cose che fanno tutti gli altri esseri umani, però le fa con uno spirito diverso e con una diversa prospettiva.

 

Esistono, storicamente, diversi tipi di iniziazione.

Qualcuno si è preso la briga di raggrupparli in tre grandi categorie:  l'iniziazione tribale, che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta;  quella misterica, che ricerca le vie dell'altrove e dà accesso ai poteri soprannaturali; infine, per i cristiani,  quella cristica, che prevede una uscita dal mondo, ma anche un ritorno: esattamente come fece Gesù  quando - terminato il ritiro nel deserto, al principio della sua vita pubblica - ritornò fra gli uomini, dopo avere affrontato e vinto le tentazioni demoniache.

E il ritorno è sempre motivato da uno spirito di servizio e di altruismo nei confronti degli altri esseri umani.

Ecco, allora, che abbiamo forse trovato quella clavis universalis di cui andavamo alla ricerca, e che abbiamo compreso il significato riposto dell'allegoria del «ramo d'oro»: si tratta, né più né meno, dell'amore, inteso come apertura totale nei confronti dell'Essere e come assoluta docilità e disponibilità nei confronti del suo progetto cosmico.

 

Il domenicano Philippe-Emmanuel Rausis, nel suo libro L'iniziazione (titolo originale: L'initiation, Paris, 1993; traduzione italiana di Yasmina Melaouah, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1997, pp. 91-93), scrive:

 

Henri Atlan racconta che Rabbi Nahuman di Bratzlav, un maestro hassidim del XVIII secolo, un giorno disse: «da noi il vero problema non è partire (ratso) ma tornare (chouv)». Dicendo ciò pensava al movimento incassante di andata e ritorno (ratso vachouv) degli angeli nella visione di Ezechiele, che egli vedeva come una metafora dei cammini dell'illuminazione.  Ai suoi occhi ciò significa che se chiunque può salire i gradini dell'illuminazione, ben pochi riescono pi a ridiscendere. In effetti ogni uomo arriva un giorno all'illuminazione, non fosse che nel momento della morte. E il compito dell'iniziazione è proprio quello di condurre a questa conoscenza ultima, anticipando simbolicamente il momento della morte - facendo entrare la morte nella vita, essa permette che la vita stessa penetri nella morte - in modo da sollevare un angolo del velo di Iside, di cui è detto che nessun mortale può conoscere il segreto. Ma anche se ci permette di salire qualche grado mistico, non per questo l'iniziazione è compiuta nella sua integrità. Dopo essere salito, l'uomo dovrà ridiscendere, dopo aver contemplato «la vita che è altrove» dovrà raggiungere con tutto se stesso «la vita che è qui». «Io sono la porta - dice Gesù. - Se uno entra attraverso di me, sarà salvo: entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10, 9).

René Guénon ha saputo individuare chiaramente, in uno dei suoi ultimi scritti, questo aspetto fondamentale dell'iniziazione: «Nella realizzazione totale dell'essere, dice, è possibile rilevare l'unione di due aspetti che corrispondo in un certo senso a due fasi  dell'unione stessa, una ascendente e l'altra discendente. La considerazione della prima fase nella quale l'essere, partito da un certo stato di manifestazione, si eleva fino all'identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare  alcuna difficoltà poiché si tratta di ciò che viene sempre e dovunque espressamente indicato come lo svolgimento e il fine essenziale di ogni iniziazione, la quale ha come esito l'uscita dal cosmo. [...] Per quanto riguarda invece la seconda fase, quella della ridiscesa nel manifestato, pare che se ne parli più raramente, e, in molti casi, in maniera meno esplicita».

Che l'iniziazione debba essere concepita secondo lo schema di una andata e ritorno ne abbiamo un'ulteriore testimonianza in uno dei documenti più venerabili della tradizione iniziatica: la famosa Tabula Smaragdina. Il testo, nel suo ottavo articolo, dice: «Sale dalla terra al cielo per ricevere le luci dell'alto, poi di nuovo scende in terra, riunendo in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, perché la luce delle luci è in lui, sicché l'oscurità si allontana da lui». Salire dalla terra verso il cielo è l'opera dell'iniziazione misterica; scendere dal cielo sulla terra è l'opera dell'iniziazione clanica; riunire in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, è infine, è l'opera dell'iniziazione cristica. 

Questo andare e venire ricorda i pratyeka-buddha e i  bodhisattva delle religioni dell'India: i primi - che seguono la piccola via (hinayana) - sono giunti al nirvana; mentre i secondi - che seguono la grande via (mahayana)rinunciano alla loro felicità e accettano nuove incarnazioni per aiutare gli altri a sfuggire al circolo del samsara. «La salvezza deve essere accessibile non più solo ad alcuni asceti ma alla massa degli uomini». Ma ancor più che con il buddhismo è con la tradizione islamica che Guénon stabilisce il parallelo. In essa si trova infatti una distinzione dello stesso ordine tra il wali e il nabi. «Un essere può essere wali solo 'per sé'; […]; al contrario un nabi è tale solo perché ha una funzione una funzione da svolgere rispetto agli altri esseri». Questa è anche la regola dell'iniziazione cristiana: non è acquisita per sé ma per gli altri. Il solo modo per essere un iniziato cristiano, nel pieno significato del termine, è diventare a sua volta iniziatore: fermento di iniziazione per coloro che ci circondano. Facendo corpo con Cristo, l'uomo non è solo salvato ma diviene anch'egli, per partecipazione, un salvatore.

Tuttavia Guénon ci mette in guardia: questa discesa non deve diventare il pretesto per un attaccamento al mondo che non è mai stato vinto. Un coinvolgimento esteriore presuppone un'autentica realizzazione interiore. Allora, illuminato al fuoco della contemplazione, l'uomo può diventare una luce viva sul cammino degli altri, un segno di speranza per il mondo. ma tutto ciò richiede, oltre che la grazia, una certa qualità nel proprio rapporto con Dio, con se stesso e con gli altri. Valentin Tomberg lo riassume alla perfezione nella Regola d'oro  con la quale vorremmo concludere questa modesta riflessione:

Non perderti cercando il mondo,

non perdere Dio cercandoti,

non perdere il mondo cercando Dio.

 

Il vero iniziato, infatti, non è solo colui che conosce, oltre all'arte del partire, anche quella del ritornare (come bene è illustrato nel cammino iniziatico di Dante nella Divina Commedia), per portare agli altri i tesori della propria illuminazione. 

Egli è anche, e soprattutto, colui che ha imparato l'arte suprema di non sprecare nulla, di non disperdere nulla, di non rifiutare nulla; ma di assorbire ed accogliere ogni esperienza - lieta e triste, piacevole e dolorosa - in un abbraccio amorevole che tutto reintegra nella propria essenza più profonda, trasformandola in sostanza viva e luminosa dell'Essere, di cui egli stesso ha compreso di costituire una manifestazione.

sabato 5 novembre 2022

L'ABBAZIA DI SAN PIETRO IN VALLE, L'ALTARE PAGANO E i 300 M ONACI SIRIACI


Il Tesaurum, cippo sacrificale pagano pre-romano, viene ricordato come l'ara pagana con la quale due dei 300 monaci siriaci, con la missione di evangelizzare la val Ternana, elevarono il primo altare cristiano nel primitivo oratorio, che nel corso dei secoli sarebbe diventato l'Abbazia di San Pietro in Valle.
Il cippo sacrificale testimonia un antico centro di culto pagano pre-romano, probabilmente appartenente all'antica tribù Sabina dei Quirini, stanziata lungo le riva del Nera; in passato il territorio Sabino arrivava sino alle porte dell'attuale città di Terni.
Questa valle rappresentava un punto di unione tra la zona orientale e quella occidentale della penisola. Più a ovest, seguendo il corso del fiume Nera, si trova il ponte del Toro, forse l'unico punto di contatto tra le tribù Sabine e quelle dei Naharki. Il Nera era, ed è, un fiume profondo ed impetuoso, difficile da guadare, il ponte del Toro, in età pre-romana, rappresentava probabilmente la porta di accesso alla Sabina e alla Val Ternana, funzionale anche per gli scambi commerciali tra le tribù; successivamente fu romanizzato.
Il fiume Nera, ed il Tevere, venivano usati come arterie di comunicazione. È legittimo supporre che i porti fluviali "romani" di Stifone a Narni, e quello di
Otricoli, così come altri lungo i fiumi Nera-Tevere, furono precedentemente usati come punti di commercio da genti in età pre-romana: Naharthi e Sabini.
L'abbazia di San Pietro in Valle conserva ancora preziose testimonianze di un passato lontano dove le genti antiche della nostra valle sacrificavano agli Dei: Dei Umbri/Sabini ma anche romani come il dio Pan rappresentato in un sarcofago dell'abbazia e successivamente Dei longobardi consacrati ad Odino, oggi, dopo l'evangelizzazione dei 300 monaci siriaci un nuovo Dio viene adorato tra le mura dell'abbazia.
Umru!

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martedì 1 novembre 2022

L'ieseo di Pompei

E’ l’unico iseo meglio conservato fuori dall’Egitto ed è a Pompei. Ecco il tempio dedicato alla dea Iside situato nella regio VIII, insula 7. Da che venne riportato alla luce, tra il 1764 ed il 1766, ha catturato l’attenzione sia per le architetture rinvenute in un ottimale stato conservativo che soprattutto per la ricca decorazione parietale, affreschi che furono da subito staccati e dislocati al Museo di Portici, oggi custoditi all’interno del Museo Archeologico nazionale di Napoli insieme a sculture ed altri oggetti di culto rinvenuti in loco. Fu soggetto di numerosi disegni, stampe e incisioni da parte di eruditi e viaggiatori secondo le moda del ‘grand tour d’Italie‘.L’area del tempio si presenta cinta da un portico quadrangolare contornato da colonne che sappiamo un tempo, stuccate in rosso e in bianco con capitelli tuscanici in rosso decorati con motivi vegetali, sormontato da una copertura in tegole con antefisse raffiguranti maschere di gorgone. Lungo le pareti interne si aprivano diversi varchi di passaggio che davano su vari ambienti tutti pertinenti al culto della dea, esse inoltre erano abbellite da nicchie ospitanti statue di divinità e decorate con pitture di IV stile con la fascia mediana ospitante scorci architettonici e paesaggistici, battaglie navali e nature morte.....