venerdì 14 agosto 2020

Probabilmente a breve ci sarà un cambio al vertice della monarchia inglese...

Dopo l'altare, il trono. La fine triste della regalità | Paolo Gulisano blog

La monarchia inglese fa parte della rete finanziaria e aristocratica, quella che tiene veramente le fila di tutto. Il fatto che si faccia da parte è un segno del successo di certe operazioni di contrasto a questo potere. Se la successione andare a Charles, che potrebbe avere un taglio diverso per aspirazioni e tutto, potrebbe essere positivo. Ma le operazioni in corso, che collegano la famiglia reale a Epstein potrebbero cancellare definitivamente la monarchia britannica, dipende da quanto a fondo andranno. La famiglia reale inglese in questo momento è una nave che affonda, e molti sono saltati fuori appena possibile (Hanry, Andrew, ora la Regina).

lunedì 10 agosto 2020

Il nome segreto di Roma

Synesia Branding e Naming

Veniva usato soltanto in alcuni Riti misteriosi ed arcani, gli antichi identificavano la Città con il suo nome e la segretezza era fondamentale, in pratica il "nemico" non se ne doveva impossessare.
Nei "Fasti Prenestini" si accenna alla statua della Dea Angenora, descritta come "imbavagliata", per la necessità di tacere il nome segreto.
Adriano creò un Culto doppio di Venere e Roma che doveva radicarsi su una Tradizione antica.
Ovviamente non posso andare oltre nello svelare il nome, tra gli astanti potrebbero starci nemici di Roma, ma sono sicuro che siamo tutti fieri difensori di Roma!!!
Un tribuno della Plebe e non poteva essere altrimenti, svelò questo segreto,
Quinto Valerio Sorano, ma pagò con la vita!!!
Era un sacrilegio pronunciarlo infatti era riconducibile all'antico Rito dell'Evocatio...
Pino Boi

giovedì 6 agosto 2020

Il Sarcofago di Velletri

Velletri scrigno di tesori archeologici a due passi da Roma | News
Conservato al Museo Archeologico Civico di Velletri è un'opera complessa e straordinaria. Fu scoperto nel 1955 nella località di Colonnella di Velletri nel Lazio. Datato al II secolo d.C. è in marmo pario ed è diviso in due fasce: in quella superiore sono raffigurate le fatiche di Ercole, in quella inferiore si succedono scene della vita nell'Ade, un scena agreste e una di sacrificio. Sono in tutto ben 184 figure che denotano un differenziato lavoro di stile, testimoniato anche dall'utilizzo di due tipologie di marmo. Uno proveniente dalla Grecia e l'altro dalla zona di Carrara (Luni nell'antichità). Si è ipotizzato pertanto che il sarcofago sia stato lavorato tutto in un'officina romana sia da scultori locali che da artisti greci d'Asia Minore. Oppure che il sarcofago possa contare due diversi luoghi di provenienza, uno italico (Luni) e uno greco (Atene) con un assemblaggio finale. Due metri e mezzo di lunghezza per 125 cm di larghezza e circa un metro e sessanta di altezza per un'opera totalmente decorata con scene che riassumono tutte le idee escatologiche del II-III secolo d.C. Sembra quasi di assistere a una rappresentazione teatrale in cui l'uomo attraversa la propria esistenza mirando al raggiungimento di uno scopo, come l'eroe Ercole al termine delle fatiche. A chi apparteneva questo sarcofago? Il defunto è rappresentato nell'atto di pagare con l'obolo il viaggio nell'Oltretomba. Ha un volto maturo e barbuto. Si è ipotizzato che il defunto potesse appartenere alla stirpe degli Antonini o comunque alla corte imperiale. Le figure un tempo erano colorate, pensate all'effetto visivo di questo capolavoro

mercoledì 5 agosto 2020

Il panteismo di Spinoza


Il panteismo di Spinoza nasce dall'acuta capacità di analisi concettuale e dalla competenza linguistica e argomentativa con le quali il filosofo riesce a spiegare il nostro pensiero, cioè il contenuto della mente umana in rapporto sia alla realtà oggettiva esterna sia al nostro stesso vissuto intramentale. La definizione dei concetti, il controllo del linguaggio, il rigore delle argomentazioni diventano così lungo lo svolgimento della sua ricerca i filtri atti a organizzare e tradurre il nostro flusso mentale e immaginativo in segni analizzabili e decrittabili, nello stesso tempo permettono di decodificare anche i rapporti tra le cose che esistono nella realtà extramentale ed extralinguistica, sullo sfondo dell'infinito orizzonte panteistico.

Deificare il lavoro

La maggior parte di quello che chiamano lavoro e in realtà un meccanismo che tende a distruggere l'ambiente in cui viviamo e a stravolgere la nostra mente, il legame con il passato e con le nostre radici etiche e morali. Il lavoro come è impostato oggi è la principale causa dei nostri malesseri.......
Fiom-Cgil nazionale - Il logo della Fiom dalle origini al restyling
Notate il compasso al posto della falce...........




SULLA "GLORIFICAZIONE" DEL LAVORO
È di moda, nella nostra epoca, esaltare il lavoro, quale che sia e in ogni modo lo si compia, come se avesse un valore eminente di per sé, indipendentemente da qualsiasi considerazione d’altro ordine; è soggetto d’innumerevoli declamazioni tanto vuote quanto pompose, non solo nel mondo profano, ma anche, cosa ben più grave, nell'ambito delle organizzazioni iniziatiche rimaste in Occidente.
È facile capire che tale modo di considerare le cose si riallaccia direttamente all’esagerato bisogno d’azione caratteristico degli Occidentali moderni; infatti, il lavoro, almeno quando lo si considera in questo modo, evidentemente altro non è che una forma dell’azione, e una forma alla quale, d’altra parte, il pregiudizio “moralista” esorta ad attribuire un’importanza ancora maggiore a qualsiasi altra, essendo quella che meglio si presta a essere presentata in veste di “dovere” per l’uomo e tale da contribuire ad assicurare la sua “dignità”. Il più delle volte a ciò si aggiunge un’intenzione nettamente antitradizionale, quella di disprezzare la contemplazione, che si finge d’assimilare all’“ozio”, mentre, al contrario, essa è in realtà l’attività più elevata concepibile, e d’altronde l’azione separata dalla contemplazione non può essere che cieca e disordinata. Tutto ciò si spiega fin troppo facilmente da parte d’uomini che dichiarano, senza dubbio sinceramente, che «la loro felicità consiste nell’azione» , noi diremmo volentieri nell’agitazione, giacché, quando l’azione è presa così come fine a se stessa, quali che siano i pretesti “moralisti” invocati per giustificarla, essa non è davvero niente più di quello.
Contrariamente a quel che pensano i moderni, un lavoro qualsiasi, compiuto indistintamente da chiunque, e unicamente per il piacere d’agire o per la necessità di “guadagnarsi la vita”, non merita per niente d’essere esaltato, e pure non può essere considerato che come una cosa anormale, opposta all’ordine che dovrebbe reggere le istituzioni umane, al punto che, nelle condizioni della nostra epoca, arriva troppo sovente ad assumere un carattere che si potrebbe, senza esagerazione alcuna, qualificare come “infra-umano”.
Quel che i nostri contemporanei sembrano ignorare completamente, è che un lavoro non ha reale valore se non quando è conforme alla natura stessa dell’essere che lo compie, se ne risulta in modo diciamo spontaneo e necessario, sì da essere per tale natura il mezzo per realizzarsi il più perfettamente possibile. Ecco, in definitiva, la nozione stessa di swadarma, che è il vero fondamento dell’istituzione delle caste, e sulla quale abbiamo sufficientemente insistito in tante altre occasioni da poterci accontentare di ricordarla senza dilungarci oltre. Si può anche pensare, a tal proposito, a quel che dice Aristotele dell’esecuzione da parte d’ogni essere del suo “atto proprio”, con il che va inteso sia l’esercizio di un’attività conforme alla propria natura sia, come diretta conseguenza di quest’attività, il passaggio dalla “potenza” all’“atto” delle possibilità comprese in questa natura. In altre parole, perché un lavoro, di qualunque genere possa essere d’altronde, sia quel che dev’essere, occorre anzitutto che corrisponda per l’uomo a una “vocazione”, nel vero senso della parola; e, quando è così, il profitto materiale che può legittimamente derivarne appare come un fine secondario e contingente, addirittura trascurabile di fronte a un altro fine superiore, che è lo sviluppo e come il compimento “in atto” della natura stessa dell’essere umano.
Quel che andiamo dicendo è una delle basi essenziali di ogni iniziazione di mestiere, poiché la “vocazione” corrispondente è una delle qualificazioni richieste per una tale iniziazione, e anzi, si potrebbe dire, la prima e la più indispensabile di tutte . Tuttavia, vi è un’altra cosa su cui è opportuno insistere, soprattutto dal punto di vista iniziatico, giacché è quella che dà al lavoro, considerato secondo la nozione tradizionale, il suo significato più profondo e la sua portata più alta, superando la considerazione della sola natura umana per ricollegarlo allo ordine cosmico stesso, e di là, nel modo più diretto, ai principi universali.
Per comprenderlo, si può partire dalla definizione dell’arte come “imitazione della natura nel suo modo d’operare”, ossia della natura come causa (Natura naturans), e non come effetto (Natura naturata); dal punto di vista tradizionale, infatti, non vi è distinzione tra arte e mestiere, come non ve n’è tra artista e artigiano, ed è questo un altro punto sul quale abbiamo già avuto sovente occasione di spiegarci; tutto quel che è prodotto “conformemente all’ordine” merita per ciò stesso, e allo stesso titolo, d’esser considerato come un’opera d’arte. Tutte le tradizioni insistono sull’analogia che esiste tra gli artigiani umani e l’Artigiano divino, gli uni come l’altro operanti 'tramite un verbo concepito nell’intelletto', il che, notiamolo di sfuggita, dimostra nel modo più netto possibile la funzione della contemplazione come condizione preliminare e necessaria alla produzione di ogni opera d’arte; ed è questa una ulteriore differenza essenziale con la concezione profana del lavoro, che lo riduce a essere pura e semplice azione, come dicevamo sopra, e pretende anche d’opporlo alla contemplazione. Seguendo l’espressione dei Libri indù, «noi dobbiamo costruire come i Dêva lo fecero all’inizio»; questo, che si estende naturalmente all’esercizio di tutti i mestieri degni di questo nome, implica che il lavoro ha un carattere propriamente rituale, come d’altronde devono averlo tutte le cose in una civiltà integralmente tradizionale; e non solo è questo carattere rituale ad assicurare la “conformità all’ordine” di cui parlavamo poco fa, ma addirittura si può dire ch’esso è tutt’uno con questa conformità.
Dal momento che l’artigiano umano imita così nel suo dominio particolare l’operazione dello Artigiano divino, egli partecipa all’opera stessa di questi in una misura corrispondente, e in un modo tanto più effettivo quanto più ha coscienza di questa cooperazione; e più egli realizza attraverso il suo lavoro le virtualità della propria natura, più accresce in pari tempo la sua somiglianza con l’Artigiano divino, e più le sue opere si integrano perfettamente nella armonia del Cosmo. È evidente come tutto questo sia lontano dalle banalità che i nostri contemporanei sono abituati a enunciare credendo con ciò di fare l’elogio del lavoro; questo, quando è quel che dev’essere tradizionalmente, ma soltanto in questo caso, è in realtà ben al di sopra di tutto quel ch’essi sono capaci di concepire. Possiamo perciò concludere queste poche indicazioni, che sarebbe facile sviluppare quasi indefinitamente, dicendo questo: la “glorificazione del lavoro” risponde bene a una verità, e anche a una verità d’ordine profondo; ma il modo nel quale i moderni la intendono di solito non è che una deformazione caricaturale della nozione tradizionale, che arriva addirittura in qualche modo a invertirlo. Infatti, non si “glorifica” il lavoro con discorsi vani, cosa che non ha neppure alcun senso plausibile; ma il lavoro stesso è “glorificato”, cioè “trasformato”, quando, invece d’essere una semplice attività profana, costituisce una collaborazione cosciente ed effettiva alla realizzazione del piano del “Grande Architetto dell’Universo.”
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Brano tratto dal capitolo X del trattato Initiation et Réalisation Spirituelle, di René Guénon - Éditions Traditionnelles, Paris, 1952

martedì 4 agosto 2020

Mettere mano all'articolo 7 della Costuzione

"Dobbiamo riscrivere l’articolo 7 abrogando i Patti Lateranensi e negando allo Stato del Vaticano qualsiasi possibilità di ricevere finanziamenti pubblici in via diretta o indiretta, impedendo qualsiasi forma di privilegio. “La libertà di religione è garantita a tutti. Nessuna organizzazione religiosa riceverà qualsiasi privilegio dallo Stato, né eserciterà qualsiasi potere politico. Nessuna persona sarà obbligata a partecipare a qualsiasi atto, celebrazione, rito o pratica religiosa. Lo Stato ed i suoi organi si asterranno dall’istruzione religiosa o da qualsiasi altra attività religiosa.” Questo dovrebbe essere il nuovo articolo 7 della Costituzione italiana.
Ricominciamo da qui.”
Indipendenza e Sovranità
Conversazioni sui Principi Fondamentali della Costituzione
di Carla Corsetti
prefazione di Margherita Hack
ISBN 9788897309