domenica 26 maggio 2019

Il farmaco risolutore

La teriaca: ‘un rimedio per ogni male ‘
l nome di teriaca deriverebbe dal greco theriaké, che vuol dire “rimedio contro i morsi di animali velenosi . Si trattava di un intruglio spacciato per medicamento ma destinato a tener banco per oltre duemila anni. Sarebbe stato inventato da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone , il quale descrisse la sua ricetta in 175 versi elegiaci, a che temendo di essere avvelenato, si fece preventivamente preparare dal suo medico cretese un pharmakòn da prendere in piccole dosi “per immunizzarsi da ogni veleno”
Andromaco non avrebbe fatto altro che aggiungere al “polifarmaco” carne di vipera, che faceva cuocere in olio, vino e aceto. In complesso, la sua teriaca prevedeva 54 ingredienti diversi a seconda delle indicazioni: ad esempio incenso, mirra, oppio, pepe nero, anice, cannella, genziana, valeriana, finocchio.
In epoche successive, a che il composto finale risultasse una vera e propria panacea, le componenti giunsero anche a superare il centinaio, ciascuna scelta in base alle sue presunte proprietà terapeutiche: ad esempio, il succo di liquirizia “addolcisce le asprezze della Canna del Polmone”; lo zafferano “rallegra il cuore”; l’iris “alleggerisce gli umori vischiosi e grossolani”, l’agarico “purga il flegma e tutti gli umori grossolani”, il cinnamomo “dà impulso agli animi”.
Va detto per inciso che mentre la triaca destinata ai benestanti conteneva un numero più o meno elevato di ingredienti, quella destinata alle classi meno abbienti poteva contarne anche molti di meno. Tant’è che la cosiddetta “teriaca dei poveri” aveva assai poco a che fare con la teriaca vera e propria ed era semplicemente un estratto acquoso di bacche di ginepro.
Ma l’ingrediente che non poteva assolutamente mancare era la carne di vipera. Perché? Il “razionale” su cui si basava il suo impiego si rifaceva al principio ippocratico del similia similibus, secondo cui è possibile curare una malattia somministrando piccole dosi della sostanza che sempre ippocratico, del contraria contrariis .
Come “controprova” delle virtù antiveleno della carne viperina venivano evidenziati due fatti: in primo luogo le vipere non vengono uccise dal proprio veleno, per cui questo dev’essere dotato di virtù protettive contro se stesso; per di più le vipere, vivendo a lungo nella profondità della terra senza nutrirsi di alcun cibo, attirano a sé “gli spiriti solforei e vegetabili, li quali compartiscono l’anima et la vita a tutte le cose”, caricandosi “di un balsamo prezioso et radicale nel grandissimo seno della Natura rinchiuso”, assumendo quindi mirabili proprietà terapeutiche. Ergo, la persona che assume carne di vipera viene protetta da qualsiasi agente “tossico” causa di malattia.
Il commercio delle vipere era pertanto quanto mai fiorente; in Italia esse arrivavano plenis navibus dall’Egitto. Galeno il grande medico greco vissuto a Roma nel II secolo d.C., nutriva tanta fiducia nella teriaca da definirla domina medicinarum; ne preparò varie dosi per l’imperatore Marco Aurelio, che temeva anche lui di essere avvelenato.
A dare un’idea di quali e quante fossero le indicazioni della teriaca basta questa lista relativa ad un solo tipo di teriaca in uso in Francia alla fine del Seicento: morso o puntura di animali velenosi, peste, varicella, morbillo, dissenteria, colera, coliche, mal di stomaco, indigestioni, dolori uterini, e articolari, febbri, paralisi, epilessia, ictus cerebrale, impotenza sessuale. La fede nel veleno di vipera come antidoto era talmente radicata, che, sempre in quell’epoca, per guarire dalla malaria era uso mangiare carne di capponi morti in seguito al morso di vipere.
L’uso della teriaca continuò trionfale fino almeno alla metà dell’Ottocento figurando in testa alle hit dei farmaci ufficiali. Nella Repubblica di Venezia veniva preparata una volta l’anno con una pomposa cerimonia alla presenza dei Priori e dei Consiglieri del medici, e a Bologna dinanzi al popolo e alle massime Autorità nel cortile dell’Archiginnasio. E già a quell’epoca era d’obbligo ogni anno una specie di “sperimentazione pubblica” in vivo: si faceva mordere un animale da una vipera, e se esso non moriva voleva dire che la teriaca era di ottima qualità, e che era quella pertanto… una buona annata. Tutti esultavano per i buoni affari che si prospettavano: medici, farmacisti, autorità sanitarie e …ciarlatani.
Per questi ultimi in particolare era piuttosto facile eludere le ferree leggi esistenti per l’“esclusiva” della preparazione e del commercio della teriaca. Una norma contenuta nello Statuto di Pisa del 1453, ad esempio, precisa che “niuna persona sottoposta a tale arte non possa comperare né fare comperare per nessuno triacha di Genova o di qualunque altro luogo fossi fatta fora della città di Pisa, et solamente debba vendere alla sua bottega triacha fatta in Pisa et mescolata insieme co medici et tutta l’Auctorità di detta arte”, pena il pagamento di multe salatissime. Tali norme rimasero valide per tutto il 1700. La teriaca che giungeva clandestinamente a Firenze da Genova veniva sequestrata e arsa pubblicamente, e lo speziale condannato a pagare 20 soldi di multa per libbra di teriaca acquistata fuori città. Lo stesso avveniva a Venezia, ove gli ordinamenti prevedevano leggi severe -addirittura il rogo, per chi fosse stato scoperto a commerciare preparazioni sofisticate.
Nonostante i tanti dubbi che nei decenni andavano addensandosi sulla reale efficacia della teriaca, facendole perdere gradualmente terreno, ancora nel 1904 l’autorevole Bulletim de Thérapeutique assicurava che la teriaca “è dotata di virtù antisettiche e diuretiche”. Difficile anche per l’Uomo di Scienza rinunciare alle proprie illusioni.

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