sabato 4 maggio 2019

L’ambiente ruderale offre una splendida occasione di riconquista alla vegetazione spontanea

Risultati immagini per ruderi e vegetazione
di Francesco Lamendola - 21/06/2010

Fonte: Arianna Editrice

Non occorre andare a caccia di qualche sito di archeologia
industriale, come vecchie fabbriche di tessitura o centrali
idroelettriche abbandonate, per incontrare un ambiente ruderale: basta
una cascina diroccata, una massicciata ferroviaria, perfino il bordo
di una comune strada asfaltata: sono tutti luoghi ove l’intervento
duraturo dell’uomo è entrato in contatto, senza farla scomparire del
tutto, con la natura; luoghi che la natura, sotto forma di una
vigorosa vegetazione spontanea, cerca continuamente di riprendersi.
Sono sufficienti pochi mesi di abbandono, perché il giardino di una
villetta di periferia assuma l’aspetto di una piccola giungla; e sono
sufficienti pochi anni di abbandono, perché un intero paese assuma
l’aspetto fantastico di un luogo di fantasmi, con le fronde dei
cespugli che penetrano dentro le orbite vuote delle finestre e ciuffi
di ortiche, di bardana o di equiseti che popolano le strade di
ciottoli e si spingano fin dentro le case dai tetti cadenti.
Di simili villaggi abbandonati, e in gran parte invasi dalla
vegetazione, ne esistono parecchi nelle vallate alpine e prealpine;
soltanto in Friuli ve ne sono diversi, a cominciare da Palcoda e San
Vincenzo, nelle Prealpi Carniche; mentre i ruderi di antichi castelli
dalle torri smozzicate, come quello di Caneva, nell’alto Livenza, o
come quello di Collalto, nell’Alto Trevigiano, subiscono la medesima
sorte.
In genere, simili luoghi suggeriscono malinconiche riflessioni sulla
caducità delle cose umane e, magari, spingono il filosofo ad
almanaccare sulla precarietà della nostra condizione; il poeta, poi,
potrà infiorare i suoi versi con i classici elementi dell’orrido, del
solitario, dei lontani tempi medievali; così come farà il pittore,
visto che dal XVIII secolo si è diffuso un ghiotto filone
iconografico, quello del “paesaggio con rovine”.
Tuttavia, come abbiamo detto, non è necessario scomodare né paesi
abbandonati, né castelli in rovina, magari accompagnati da cupe
leggende di anime in pena; ma è sufficiente qualche modesto edificio
cittadino, qualche opificio dismesso, qualche cortile abbandonato,
qualche orto o giardino non più coltivati, per vedere l’impetuosa
rivincita della vegetazione spontanea sui segni orgogliosi della
presenza e del lavoro umani.
Per molti di noi, nati e vissuti in città, quei luoghi un po’ fuori
mano, un po’ abbandonati e fatiscenti, sovente popolati da gatti e da
una variegata quantità di ospiti alati sui tetti e sui balconi
pericolanti, hanno costituito il primo approccio con il mondo della
natura; la prima occasione per andare a caccia di lucertole o di
grilli, per imparare a distinguere una tuia da un cipresso
dell’Arizona, un sambuco da un ailanto; oppure, semplicemente, per
giocare a nascondino e per sognare esotiche avventure con i
pellerossa.
Ma proviamo a spostare il nostro punto di vista, sempre così
terribilmente antropocentrico, e sforziamoci, per quanto possibile, di
guardare quegli ambienti ruderali dal punto di vista delle altre
creature viventi, piante ed animali: per esse, il fatto che l’uomo
abbia rinunciato ad esercitare una fettina del suo dominio sulle cose,
è l’occasione per riprendersi quanto era stato loro sottratto, per
rientrare in possesso di un territorio da cui erano state scacciate.
Scrivono Carlo Andreis, Enrico Banfi e Francesco Bracco nella
eccellente enciclopedia naturalistica «Conoscere la natura d’Italia»
(Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983-85, vol. 8, pp. 42-48):

«… l’ambiente ruderale meridionale si evolve velocemente verso
associazioni xerofiti che, simili a quelle naturali costituite in gran
parte da graminacee annuali e da composite per lo più spinose, oppure
degrada verso il suolo nudo; nella Padania invece col passare del
tempo si possono formare via via vegetazioni più complesse, che, se
indisturbate, innescano delle varie serie evolutive nel tentativo di
ricostituire situazioni simili a quelle precedenti al disturbo. Ciò è
possibile a causa delle condizioni ambientali, spesso di tipo - quasi
o totalmente - continentale, che permettono un progressivo accumulo di
sostanza organica e formazione di humus: il che non può invece
avvenire, o quasi, negli ambienti ruderali del sud, dati che tutto il
materiale vegetale che cade al suolo non ha il tempo di degradarsi, ma
viene subito “bruciato”, calcificato. L’evoluzione è dunque diversa
(ricordiamo però che questo fatto non è esclusivo degli ambienti
ruderali, ma di tutte le situazioni xeriche del Mediterraneo).
Ma torniamo alla Padania e ai suoi ambienti ruderali, non prima di
aver rapidamente ricapitolato ciò che significa “ambiente ruderale”.
Possiamo dire ruderale un ambiente normalmente povero di sostanza
organica, con scarichi di pietre, calcinacci, materiali dimessi,
oppure bordi di strade, massicciate ferroviarie, oppure ancora legato
all’abbandono di colture. A questi ambienti sono legate specie
vegetali che appunto vengono indicate come “ruderali”, le quali,
insieme alle specie infestanti, che normalmente dovrebbero essere più
o meno nitrofile (cioè amanti di ambienti rcchi di sostanze azotate),
costituiscono il gruppo delle specie “sinantropiche”, vale a dire
condizionate dall’uomo e che lo seguono. Naturalmente ci si potrebbe
chiedere dove vivevano queste piante, quando l’uomo non c’era.
Se andiamo a vedere, in natura riusciamo a trovare qualche cosa che
somigli a quanto ora è più diffuso: può sembrare un paradosso cercare
qualcosa di naturale che giustifichi situazioni sinantropiche assai
più diffuse, ma questa è la realtà. Così possiamo considerare ruderale
il ghiaione di un’ansa di fiume dove si forma una vegetazione simile a
quella che si presenta nelle discariche cittadine, tratti di duna
disturbata da eventi naturali che determinano l’insediarsi di specie
diverse dalla norma in modo caotico, uno sfasciume di roccia coperto
da vegetazione incoerente. Molto comune, poi, è la ruderizzazione dei
campi coltivati: senza arrivare all’abbandono, molti terreni vengono
sfruttati in modo esagerato e impoveriti; le specie presenti, anno
dopo anno, da infestanti nitrofile diventano ruderali che si adattano
a vivere in situazioni estremamente povere; alcune, come la gramigna
(“Cynodon dactylon&rdquo😉 scompaiono in seguito a opportune concimazioni.
[…]
Già dal secondo anno di abbandono o di non utilizzazione, però, la
flora infestante, che pur sempre è legata alle colture e a un
periodico rimescolamento del terreno, tende a rarefarsi cedendo il
passo a specie ruderali [gramigna, piantaggine, bardana, equiseto,
convolvolo, topinambur, farfaraccio, amaranto, ortica, prugnolo,
papavero, ecc.].
Ma anche il tipicvo ambiente ruderale non ha vita lunga: come in tutte
le situazioni già viste dove non ci sia un’azione condizionatrice
continua (vedi le ferrovie), l’evoluzione porta a vegetazioni erbacee
di tipo prativo o a boscaglie che potrebbero precorrere, come già
notato, il bosco, che in questo caso, potrebbe anche formarsi. Ad
esempio, nelle coltivazioni di pioppo diffuse in tutta la zona padana,
si verifica la stessa successione di situazioni e alla fine, quando
vengono interrotte le varie arature e sarchiature, prima si insedia
una vegetazione ruderale e poi, lentamente, una boscaglia con gli
elementi del bosco planiziario comprendente talora anche cespugli di
farnia (“Quercus robur&rdquo😉 tutto un complesso che, se non avvenissero
il taglio del pioppo e un successivo dissodamento, potrebbero proprio
portare al bosco misto di farnia e altre piante caducifoglie.
Da tutto questo emerge quindi l’importanza dei luoghi ruderali non
solo come “banca dei semi”, cioè come luogo di riserva di vegetali tra
i più disparati, oltre a quelli tipici, ma anche di condensazione, di
riunione di elementi utili per una ricostituzione delle
formazioni-climax potenziali della regione.
Si è accennato all’inizio al problema dell’esistenza degli ambienti
ruderali, quando l’uomo non dava fastidio; un caso abbastanza tipico è
quello degli ambienti sabbiosi dunali, dove nella vegetazione
“normale” si insediano abbondantemente alcune lappole (“Xanthium
italicum” e “X. Summarium&rdquo😉 forbicine (“Bidens spp.&rdquo😉e la persicaria
(“Polygonum persicaria&rdquo😉 oppure le anse dei fiumi, dove, sulle sabbie
o sulle ghiaie, si formano popolamenti di “Xanthium strumarium&rdquo😉 o di
topinambur e persicarie. Se bene osserviamo, spesso però si tratta di
piante estranee alla flora spontanea locale, e introdotte in tempi
storici. Quindi per concludere possiamo notare che diverso è il
concetto di ambiente ruderale rispetto a quello di specie ruderali. In
un ambiente ruderale non troviamo solo le specie strettamente
ruderali, ma molte altre che si comportano “anche” da ruderali, cioè
le meno esigenti della flora spontanea, e tante altre che trovano qui
condizioni sufficienti per vivervi, almeno per un certo periodo.
È questo che fa dei luoghi ruderali una sorta di riserva genetica,
dalla quale molte specie sono pronte al balzo di conquista di nuovi
ambienti.»

L’ambiente ruderale, dunque, costituisce un importante tassello
dell’evoluzione paesaggistica. Come abbiamo visto, la vegetazione
disordinata che vi si insedia nei primi tempi, cede ben presto il
passo a delle forme di popolamento più graduali e metodiche, che
tendono a riportare l’ambiente naturale nelle condizioni precedenti
l’insediamento umano.
In questo senso, il paesaggio vegetale degli ambienti ruderali non è
che un elemento transitorio, destinato ad essere soppiantato da una
vegetazione stabile perfettamente coerente e integrata nei suoi vari
aspetti; così come lo è, per esempio, la vegetazione di una foresta,
dopo che un incendio abbia distrutto le antiche piante e creato spazio
per una seconda invasione; oppure, in forme meno drammatiche, quando
gli alberi più vecchi, mano a mano che cadono e vengono decomposti
dagli organismi in ciò specializzati, vengono rimpiazzati da alberi e
arbusti più giovani: un po’ come il paesaggio di una città cambia
insensibilmente, via via che gli edifici più vecchi vengono abbattuti
e sostituiti da moderne costruzioni.
Certo, non sempre le cose sono così semplici; perché, come si è detto,
molte specie esotiche sono state introdotte, per svariate ragioni nel
paesaggio vegetale originario; e, quando un ambiente antropizzato
regredisce e crea spazio per un “ritorno” della vegetazione spontanea,
sono spesso proprio le specie esotiche, meglio attrezzate dal punto di
vista riproduttivo, ad occupare il terreno così liberatosi. E gli
effetti non sempre sono soddisfacenti.
Per esempio, in prossimità del paese di Refrontolo, sulle colline
viticole della zona di Pieve di Soligo, alcune palme, introdotte poco
meno di un secolo fa, hanno trovato le condizioni propizie per
espandersi, proprio a partire dall’edificio abbandonato presso il
quale erano state piantate; e, risalendo il letto di un torrente
coperto da un ombroso sottobosco, si sono alquanto diffuse - complice
forse anche il cambiamento climatico degli ultimi anni, con inverni
relativamente miti ed estati sempre più calde e secche -, conferendo
al paesaggio un aspetto tropicale alquanto incongruo, data la
promiscuità con altre essenze vegetali tipiche delle zone collinari
pedemontane del Nord Italia e perfino con abeti rossi.
Così, ad esempio, il topinambur, detto anche patata americana o patata
del Canada, è divenuto ormai un elemento tipico del paesaggio ruderale
nonché degli argini dei fiumi; mentre gli equiseti o code di cavallo
sono, da sempre, elementi caratteristici degli ambienti umidi e
preferibilmente ombrosi. Specie indigene e specie esotiche più antiche
convivono ormai in relativa armonia; succede, peraltro, che le specie
esotiche di recente importazione siano accompagnate anche dai relativi
parassiti, rispetto ai quali la flora locale non possiede sufficienti
difese ed è, pertanto, destinata a soccombere.
In ogni caso, tutto dipende dalla ricchezza dell’humus, in presenza di
specifiche condizioni climatiche e specialmente pluviometriche. Mentre
nell’Italia meridionale il materiale organico viene distrutto al suolo
in maniera molto rapida, in quella settentrionale il processo avviene
più lentamente e ciò consente la formazione di uno strato di terreno
azotato su cui può insediarsi una ricca vegetazione pioniera, aprendo
la strada al ritorno graduale del paesaggio vegetale verso la
situazione che esisteva prima dell’insediamento delle attività umane.
Perfino gli ambienti artificiali più invasivi, come grandi opere
stradali, complessi industriali, aeroporti e ferrovie, possono essere
riconquistati vittoriosamente dalla vegetazione spontanea in tempi
inaspettatamente brevi.
La natura possiede risorse poderose e inaspettate, rispetto alle quali
la presenza umana, anche se così a noi non sembra, non è che un
temporaneo incidente, destinato a passare come una meteora, così come
è incominciato.
Chi voglia immaginarsi come saranno le grandi metropoli odierne fra
qualche migliaio di anni - il che, in termini naturalistici, è un
tempo assai breve - non ha che da fare una escursione ad Angkor Vat,
l’antica capitale khmer; o nelle città maya dello Yucatan, con le loro
superbe architetture sacre; o anche, più semplicemente, alla campagna
nei pressi di Aquileia, dove un tempo sorgeva una delle maggiori città
d’Italia e di tutto l’Impero Romano.
Certo, le scorie radioattive possono contaminare un luogo per molte
migliaia d’anni; tuttavia, neppure le peggiori ferite che lo sviluppo
industriale e tecnologico ha inferto alla natura, sono veramente
mortali. Noi crediamo il contrario, abituati come siamo a commisurare
ogni cosa sulla insignificante scala temporale delle nostre vite e di
quella che noi, orgogliosamente, chiamiamo la storia.
Tuttavia, riflettendo sul semplice fatto che alcuni grandi alberi
tuttora viventi in Italia, levavano già le loro chiome al cielo quando
Michelangelo costruiva la cupola di San Pietro e quando Marco Polo
partiva da Venezia per le terre remote del Gran Khan, un sentimento di
doverosa e salutare umiltà dovrebbe pervaderci; e ricordarci, al tempo
stesso, che noi siamo soltanto degli ospiti dell’ultima ora sul
pianeta Terra, ospiti che dovranno lasciare il posto ad altre specie
viventi, quando se ne saranno andati.

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