giovedì 29 dicembre 2022

La contemplazione prevista nella società tecnologica moderna

Nel sud del Giappone, paese che ha tanto da insegnarci, lungo il fiume Nishiki, esiste una stazione ferroviaria che non ha entrata, non ha uscita, né biglietteria, né bar o sala d'attesa. I treni, infatti, fermano al fianco della banchina, i passeggeri possono scendere, ma poi non possono andare da nessuna parte e per allontanarsi devono aspettare il convoglio successivo.
Vicino non ci sono attrazioni turistiche, paesi o città, centri commerciali od attrazioni turistiche, il luogo è disabitato e la stazione per noi occidentali potrebbe sembrare del tutto inutile.
La stazione in questione si chiama "Seiryu Miharashi Eki", che si traduce come “piattaforma di vista del fiume”, ed è stata pensata con la sola funzione di ricordare l’importan


za del fermarsi, sia dal punto di vista fisico che mentale. I viaggiatori vi possono sostare per ammirare il panorama, per fare una semplice pausa, per meditare, per godere del silenzio circostante.
Attività, queste, che spesso si dimenticano, soprattutto nelle società della fretta, della produttività, in cui non si può e non si deve avere coscienza di quanto si stia facendo, vivendo, perché si deve solo produrre, produrre, produrre, ed eventualmente consumare.
Ecco, ora converrebbe che, facendo un grande respiro, si capisse che il silenzio e la riflessione in certi momenti sono fondamentali per resistere e per ripartire. Ricordiamocelo. Il tempo della vita è irripetibile, godiamocelo con responsabilità e senza farci schiacciare da consumo, profitto e potere.



martedì 27 dicembre 2022

Un film, in fondo, con l'anima sciamana

Ladyhawke è un film del 1985 diretto da Richard Donner. Seppur la trama nell'edizione italiana voglia richiamare un'ambientazione francese, il film è stato girato quasi interamente in Italia, nelle province di Cremona, Parma, Piacenza e Massa Carrara, nei boschi del Pontremolese (la troupe soggiornò per alcune settimane in un noto hotel di Pontremoli, ormai chiuso) nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a Pereto (nella Marsica), a Campo Imperatore (in provincia dell'Aquila), dove il falco viene ferito, al Passo Giau (in provincia di Belluno, tra la Valle d'Ampezzo e la Val Fiorentina) e al piccolo lago d'Antorno nelle vicinanze del lago di Misurina nelle Dolomiti. Il rifugio del monaco è la Rocca di Calascio, appositamente scenografata con l'aggiunta di corone alle torri (tra cui quella da cui precipita Michelle Pfeiffer), mentre i borghi medievali mostrati includono le seguenti località: castello di Torrechiara, Castell'Arquato, Soncino e Vigoleno. La veduta esterna in lontananza del borgo di Aguillon (Aquila in originale) è in realtà quella di Castel del Monte, a cinque chilometri da Rocca Calascio. La chiesa al cui interno si svolge la scena finale (ricostruita a Cinecittà) è quella di San Pietro a Tuscania. Diverse scene (in particolare quella del tentato arresto di Philippe Gaston da parte delle guardie del vescovo e dell'incontro con Etienne Navarre) sono state girate presso l'antico abitato di Monterano nel Comune di Canale Monterano in provincia di Roma. La località da cui Philippe evade, nell'originale è Aquila o L'Aquila e lo stesso Vescovo è il vescovo della città, ma nel doppiaggio italiano L'Aquila è diventata Aguillon, in modo da assumere dei richiami francofoni e al tempo stesso per evitare diretti riferimenti al capoluogo abruzzese. La colonna sonora del film è opera di Andrew Powell (con la Philharmonia Orchestra edito dalla Atlantic/Warner), un compositore e orchestratore ben conosciuto per il suo lavoro con Alan Parsons e Eric Woolfson, membri del gruppo The Alan Parsons Project. Nel 1996 ne è stata pubblicata la versione definitiva dal titolo Ladyhawke - Original Motion Picture Soundtrack; quest'album, edito dalla GNP Crescendo, sostituisce a tutti gli effetti la prima versione uscita nel 1985 e contiene brani inediti e non rielaborati. Nella breve scena in cui Philippe danza con Isabeau la musica che li accompagna è il Trotto, un brano composto da autore anonimo tra il XIV e il XV secolo. Il film ha ricevuto le candidature agli Oscar del 1986 come miglior sonoro (Best Sound) e miglior montaggio sonoro (Best Effects - Sound Effects Editing), senza tuttavia vincere i premi. Ha vinto il Saturn Award dell'Academy of Science Fiction, Fantasy & Horror Films per i Migliori costumi (Best Costumes) e come Migliore film fantasy (Best Fantasy Film), e, sempre per il Saturn Award, ha ricevuto le candidature come Migliore musica (Best Music) e Migliore attrice (Best Actress). Ha vinto anche i Golden Reel Award della Motion Picture Sound Editors statunitense come Best Sound Editing - ADR e Best Sound Editing - Sound Effects. Oltre a questo, è stato candidato al Premio Hugo per la miglior rappresentazione drammatica[ e per il Young Artist Awards come Best Family Motion Picture - Adventure. Loris Loddi nella versione italiana doppia Matthew Broderick nel ruolo di Gaston Le Rat; pur essendo presente egli stesso nel cast non doppia sé stesso: la voce del suo personaggio Jehan gli viene prestata dal collega Alvaro Gradella.




lunedì 26 dicembre 2022

I probabile sarcofago di granito rosso dell'Imperatore Giuliano

Il sarcofago dell'imperatore Giuliano, ricordato come Giuliano l'Apostata dalla chiesa cristiana

Il corpo dell'imperatore fu sepolto a Tarso, fuori città, di fronte a quella di Massimino Daia. Il cronista Zonaras affermò che in una data "successiva" il suo corpo fu riesumato e seppellito nella o vicino alla Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli. La chiesa fu demolita dai turchi ottomani dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453.

Oggi, un sarcofago di porfido, identificato come quello di Giuliano, si trova nel parco del Museo Archeologico di Istanbul. Si ritiene che questo sia il suo sarcofago a causa della mancanza di simboli cristiani, visibili su altri sarcofagi di imperatori romani d'Oriente esposti nel cortile del museo.




Le fiabe alterate perché non comprese

Le fiabe sono una cosa seria e la società dei lumi ha iniziato ad alterarle sopratutto perché non ne aveva compreso il messaggio sapienziale alchemico
La vera favola di Cappuccetto Rosso non è quella che vi hanno raccontato.
La storia vera è quella di una donna e di un Lupo.
Una donna che entra nel bosco, non per andare dalla nonna ma per cercare se stessa e la saggezza delle Donne antiche.
E li, incontra un Lupo che l'accompagna e le insegna ad andare, a camminare da sola, senza avere paura di perdersi, fino a trovare se stessa.

sabato 24 dicembre 2022

Melchisedec

Nessuno sottolinea che Melchisedec, qui rappresentato nella cattedrale gotica di Chartres, è l'angelo di Giove, come a dire che i mondo cristiano affonda la sua nascita e le sue radici nel mondo pagano tanto odiato, è lui che intinge il pane ne vino, riprendendo i misteri pagani in maniera da veicolare il cristianesimo attraverso un rito antichissimo: l'omicidio rituale del re e la sua magia per impossessarsi dell'energia teurgica....... 


venerdì 23 dicembre 2022

L'operazione discutibile dei fratelli Grimm

Mi dispiace fare il "Bastian contrario", furono proprio i fratelli Grimm ad alterare le fiabe rendendole "degne" e adattate ad un pubblico infantile, edulcorandone le crudeltà ed eliminando gli aspetti sessuali. Questa la ritengo una gravissima colpa, operazione che non ha fatto il grandissimo raccoglitore di fiabe siciliano Giuseppe Pitrè. Le versioni delle varie fiabe cambiavano da zona a zona del nord Europa e con l'operazione dei Grimm abbiamo perso le versioni orali originali alterate dalla concezione religiosa protestante



giovedì 22 dicembre 2022

giovedì 8 dicembre 2022

Tecnologie perdute






Vi accompagniamo in uno dei misteri più intricati del mondo. Quello che vedete nella figura 1 non è né una fake news né un fotomontaggio. È semplicemente il blocco di roccia intagliato da mani umane più grande della storia. il monolite misura 19,6 metri di lunghezza, 6 metri di larghezza e almeno 5,5 metri di altezza. Il suo peso è stimato in 1.650 tonnellate, il che lo rende il più grande blocco di pietra dell’antichità. Per fare un paragone, pesa come 100 cacciabombardieri Eurofighter carichi e pronti per il combattimento.
Il monolite si trova in una cava di pietra a Baalbek, in Libano. La zona era conosciuta in epoca romana come Heliopolis. Ma la cosa ancora più sorprendente è che quel monolite non è un caso unico in quella zona. Come potete vedere nella figura 2, nelle vicinanze si trova il cosiddetto “Tempio di Giove”. La parte superiore del tempio è sicuramente romana, su questo non ci sono dubbi. Ma, come potete vedere, il tempio romano sorge su di una “base” costruita con pietre gigantesche. Si tratta di 27 blocchi giganteschi di pietra calcarea alla base. Tre di loro, dal peso di 1.000 tonnellate ciascuno, sono noti come “Thriliton”, e sono una specie di “cintura” che racchiude tutti i blocchi. Questa costruzione ci dice che per i costruttori, intagliare e spostare blocchi superiori a 1.000 tonnellate non era affatto proibitivo. Evidentemente sapevano come farlo, senza che questo creasse grossi problemi.
Esiste un solo punto della Terra dove si trova qualcosa di simile: la base del muro esterno del tempio di Gerusalemme, dove esiste un unico blocco di roccia dal peso simile. Un blocco lievemente inferiore (si parla di 500 tonnellate) si trova invece in una delle tre piramidi di Giza.
Perché è difficile credere che quelle rocce sono romane? Il ragionamento è semplice: se fossero stati i romani a costruire la base, avrebbero ripetuto questa impresa almeno a Roma, la capitale dell’Impero, e non in una lontana e per loro “insignificante” provincia. Ma se non sono stati i romani, chi sono i costruttori? Gli ebrei e i siriani del tempo di Erode il Grande? Ma allora perché non abbiamo traccia dei metodi che usarono per tagliare, trasportare e mettere in opera dei blocchi di quelle dimensioni?
È possibile che la base degli edifici romani, ebrei ed egizi siano solo i resti di una civiltà precedente, che aveva i mezzi e la manodopera necessaria per fare qualcosa di simile? Ne parliamo nel libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA
Puoi trovare una copia del libro a questo link

lunedì 5 dicembre 2022

LA "VERA" PORTA DELLE DOMUS DE JANAS



Solo eccezionalmente durante le visite alle domus de janas potete vedere il portello che sigillava la sepoltura.
In una delle domus della Necropoli di Montessu a Villaperuccio, invece, c'è.

Preparare la mente alla comprensione profonda

Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: “prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita”. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose.
[Agnes Heller]




Distrutto dai cristiani assieme al tempio...

La ricostruzione dell'antico teatro di Delfi, in Grecia, datato al IV sec. a.C., aveva una capienza di 5.000 spettatori.





sabato 3 dicembre 2022

Più che il mito di Romolo e Remo sembra quello di Mose




"In un'antichissima stele, Sargon, il Re della Battaglia, come fu definito, si presenta ai suoi npopoli suppergiù in questi termini: "Io sono Sargon ....Non conobbi mio padre, mia madre era una sacerdotessa; mi concepì, mi porodusse, mi pose in una cesta che sigillò con pece; mi depose sul fiume che non mi sommerse e fui fluitato a casa dell'annaffiatore Aqqi".
Ma tutto questo evoca la nascita di Romolo e Remo: anch'essi figli di una sacerdotessa; non conobbero il padre; anch'essi posti in una cesta, presumibilmente spalmata di pece, deposti sul Fiume e quindi spinti a casa del pastore Faustolo. Poi adulti, Romolo uccise Remo; ed anche nella casa di Sargon, dopo la sua morte, il figlio Rimush era stato ucciso in una congiura di palazzo assecondata dal fratello." 
"Giova appena ricordare che Remo e Rimush sono ipocoristici della voce accadica rimu "amato"
PROF. GIOVANNI SEMERANO - LA FAVOLA DELL'INDOEUROPEO - BRUNO MONDADORI

Il Giardino di Daniel Spoerri





Aperto al pubblico nel 1997, si estende per circa 16 ettari sul territorio della provincia di Grosseto alle pendici del Monte Amiata, nella Toscana meridionale.
Parco artistico unico nel suo genere in Italia, è in continua evoluzione grazie alla dedizione dell'eclettico artista svizzero che lo ha realizzato negli anni '90 Daniel Spoerri, il quale si è avvalso della collaborazione di importanti artisti contemporanei, come Eva Aeppli, Arman, Erik Dietman e Jean Tiguely.
Percorrendo i sentieri del Parco troviamo così, accanto alle suggestive sculture in bronzo del fondatore, come la "Chambre Nr 13" con un peso di oltre 5 tonnellate, divani d'erba, un olivo dorato, giganteschi suonatori di tamburi seguiti da 160 oche, e altre figure misteriose come draghi sputafuoco, nani e guerrieri, in un ricco allestimento fra sogno e realtà.
Caratteristici anche il Labirinto, costituito da un sentiero murato lungo 500 m, la misteriosa formazione circolare di teste equine, ideale ombelico del mondo, con vista panoramica a 360° dalla montagna al mare, e la serie di volti posti su colonne.
Le sculture sono armoniosamente integrate nel paesaggio caratterizzato da olivi, castagni e macchia mediterranea, e sono affiancate da un percorso botanico con piante segnalate.
Il cancello d'ingresso al Giardino riporta il motto latino HIC TERMINUS HAERET, che significa "Qui aderiscono i confini", ad indicare la forza "aderente" del Parco, luogo alchemico e magico che ha attirato gli oltre 50 artisti che lo hanno arricchito con le loro opere.
La visita, che parte dal piccolo borgo centro propulsore del Giardino, dura circa 3 ore, ed è facilitata da una cartina con notizie sulle opere esposte e sul percorso botanico, fornita dalla fondazione "Il Giardino di Daniel Spoerri" riconosciuta dal Ministero della Cultura italiano, che gestisce il Parco Museo, con sede nella villa della tenuta. Nella villa sono stati ricavati degli appartamenti nei quali è possibile soggiornare per motivi culturali di studio e ricerca.
All'interno del Parco vi è l'abitazione-laboratorio di Daniel Spoerri, ed è presente un ristorante dove gustare le specialità tipiche della cucina Toscana.

ISHTAR E I SEGRETI DIVINI





"Il mito di Etana ci narra dunque dell’iniziazione del primo re per il quale la regalità discese dal cielo tramite la dea Inanna e, forse, dell’ultimo re che conobbe realmente il segreto dell’albero halub: in Etana, l’antica razza umana e la nuova si trovano in perfetto equilibrio.
Egli fu il più longevo tra i sovrani che vissero dopo il Diluvio, il pastore che ascese al cielo e consolidò tutte le contrade straniere, e il suo regno, secondo la lista reale sumerica, durò per 1.500 anni.
Gli alberi allegorici, la cui esistenza è stata tramandata fino ai giorni nostri, trovano quindi una loro antichissima collocazione nei miti che hanno riguardato l’ascesa della dea Inanna, e tale tradizione sopravvive, celata sotto il velo del simbolo, fino all’epoca neoassira, per confluire anche nel mito dell’Eden della Genesi biblica.
Nello stesso libro della Genesi ritroviamo infatti, oltre al racconto del Diluvio Universale, una lista, denominata “genealogia di Adamo”, che indica i nomi dei patriarchi prediluviani e la durata smisurata delle loro vite: non avevo mai fatto caso a questo particolare, ma la “genealogia di Adamo” ricordava molto la Lista Reale sumerica, sia per le centinaia d’anni di vita d’ogni patriarca, sia perché anche tale lista termina con il nome di Noè, ossia l’eroe del Diluvio, che noi abbiamo conosciuto con il nome di Ziusudra, di Utnapištim, di Atrahasis.
Ben diverse, come sappiamo, furono le sorti riservate alla dea nella Bibbia, ove è menzionata con il nome cananeo di Astarte: ella, si narra, fu la divinità protettrice del re Salomone, ma viene definita “obbrobrio dei Sidoni”.
Ora comprendiamo, tuttavia, dove la scuola scribale aveva celato le prerogative iniziatiche della dea nel periodo in cui il suo culto tramontava e ci appare ancor più chiara, se possibile, la sua natura: era nella cerchia più interna del Tempio che Ištar svelava ancora i “segreti divini”, relativi ai frutti dell’albero della conoscenza e dell’albero della vita.
Sotto il velo del simbolo era adombrata, non defunta.
Schernita dagli uomini, ella è amata dagli antichi dèi e dai saggi di tutte le epoche.
Ancora nel III secolo a.C., Ištar era presente nei cuori degli uomini: fu elevata a paredra di An e le venne dato il nome di Antu, in memoria della prima ierogamia.
<O Ištar, sii tu la più brillante tra loro, e che essi ti acclamino:
“Ištar delle stelle!">"
[A. Bellon, Il Sangue degli dèi - Nozze sacre nella terra dei Sumeri, p. 228 ss.]
Credits immagine: davidmyriad su deviantart

S. Maria della Strada a Matrice. Il volo di Alessandro

Alessandro sale al cielo, una immagine che troviamo anche in altre chiese come San Marco a Venezia, non a caso. Come l'Imperatore Antonino Pio il grande condottiero macedone ascende all'empireo



 

martedì 29 novembre 2022

in memoriam Bobby Sands

Europa che non sai più ascoltare
le voci dei Confini, delle foreste
le voci delle onde e dei fondali,
Europa senza poemi, Europa muta
dei Templi isteriliti, sghembi
fatti di vetro ed un'erba marcita
Europa saccheggiata, caduta.
Dove sono gli stormi di gabbiani
che scaldavano ogni giorno i promontori
dove dispersi gli Iris e le calendule?
i Boschi sacri, le pietre in cerchio
delle vette, parallele
al sole e alle galassie, dove sono?
Giuseppe Conte, il canto irlandese ( in memoriam Bobby Sands)
canti d'Oriente e d'Occidente, Mondadori, Milano, 1997



venerdì 25 novembre 2022

La folgore ed il rito a Roma

Qualche tempo fa durante lo scavo archeologico per la realizzazione della Stazione di Amba Aradam della linea C della metropolitana di Roma sono stati rinvenuti esempi di sepoltura di fulmine. Entrambi databili al I secolo d.C., contenevano macerie di edifici e una piccola lastra di marmo con l'iscrizione 𝙁𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧 𝘾𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢 in un caso e 𝙁𝙪𝙡𝙜𝙤𝙧 𝘾𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢 nell'altro. A spiegare cosa sia la sepoltura del fulmine è l'archeologa della Soprintendenza Speciale, Simona Morretta: "Nel mondo antico, i fulmini sono segni degli dei. La comunità dei cittadini incarica l’interprete dei fulmini (𝙖𝙧𝙪𝙨𝙥𝙚𝙭 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧𝙖𝙩𝙞𝙤𝙧) di studiare il fulmine, interpretarlo (poteva essere un segnale positivo o negativo) e indicare la forma di espiazione (𝙚𝙭𝙥𝙞𝙖𝙩𝙞𝙤) per placare le divinità. La disciplina di cui l’aruspice dei fulmini doveva essere esperto prevedeva innumerevoli casi diversi. Le caratteristiche del fulmine da tenere in considerazione erano il colore, la forma, il punto cardinale di provenienza, l’ora dell’evento (diurna o notturna), variamente combinate fra loro, tutte descritte dettagliatamente nei perduti 𝙡𝙞𝙗𝙧𝙞 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧𝙖𝙡𝙚𝙨 etruschi, di cui restano alcuni brani riportati da scrittori romani (in particolare Seneca).
Quando un fulmine colpisce qualcosa sulla terra, campo, casa, statua o altro, i Greci gli Etruschi e poi i Romani decidono che quel qualcosa debba essere sepolto, quasi a seppellire il fulmine stesso, e chiamano infatti quel luogo 𝙛𝙪𝙡𝙜𝙪𝙧 𝙘𝙤𝙣𝙙𝙞𝙩𝙪𝙢, cioè fulmine sepolto.
La sepoltura consisteva in una fossa riempita con gli oggetti colpiti dalla folgore, che doveva rimanere a cielo aperto, con una iscrizione che ne indicasse il contenuto (appunto, 𝙁𝙑𝙇𝙂𝙑𝙍 𝘾𝙊𝙉𝘿𝙄𝙏𝙑𝙈 o anche solo 𝙁. 𝘾. o altre varianti). Il rituale era complesso e presieduto dal pontefice massimo, la più alta carica religiosa".



mercoledì 23 novembre 2022

Per il fine di cancellare indebitamente il sacro legato alla romanità

Questo fonte battesimale della basilica di S. Pietro, in porfido rosso, era in origine il coperchio del sarcofago dell'imperatore Adriano, nel suo mausoleo (l'attuale Castel Sant'Angelo). Portato in S. Pietro fu variamente usato come sepolcro, infine fu riconvertito in fonte battesimale da Carlo Fontana nel 1698






domenica 20 novembre 2022

Fontana del Fero un antico santuario dedicato alla Dea Feronia, dimenticata dai veronesi e vicinerei esisteva, Porta Orietta che ancora si può individuare




Un lago artificiale nato da attività industriali, ma con acque purissime e minerali

Il lago di Roma
Pigneto, tra Via Prenestina e via di Portonaccio, V Municipio, zona est della capitale: qui, nascosto tra la rigogliosa vegetazione si trova un lago che in pochi conoscono: parliamo del lago Ex Snia, detto anche lago Sandro Pertini.
Ufficialmente si chiama "Sandro Pertini" ma per gli abitanti del quartiere Pigneto-Prenestino, è il lago ex-Snia. Snia sta per Snia Viscosa la fabbrica che popolò quest'area della capitale negli Anni '20 in poi: oltre 2 mila operai, più del 50% donne, provenienti chi da altre regioni, chi dai borghi del centro. Poi nel 1954 la fabbrica venne chiusa ...Eccolo, in lontananza, il lago di Roma. Diecimila mq d’acqua, addirittura balneabile dicono. Da qui sembra una pozza ma è abbastanza per far galoppare la fantasia verso orti galleggianti, macchie rosa di fenicotteri, grandi cespugli di Buddleja, minuscoli giunchi palustri e qualche salice piangente, capanne di legno per l'osservazione degli uccelli, mercati coperti al posto delle vecchie fabbriche. Questo specchio d’acqua risale agli anni ’90 ed è nato fondamentalmente per un errore umano durante i lavori in un cantiere per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. La zona si trova a pochi passi da via dell’Acqua Bullicante: proprio lì sotto scorreva il fosso della Marranella e poco più in profondità è situata una falda acquifera da cui sgorga purissima acqua minerale.Durante gli scavi, la falda iniziò a riempire l’invaso artificiale per il parcheggio: venne deviato il flusso nelle fognature per evitare il bocco dei lavori e la chiusura del cantiere, tuttavia Largo Preneste si allagò.
In quella zona si era quindi venuto a creare un laghetto autoalimentato: oggi è possibile ammirarlo accedendo al parchetto delle Energie.
La superficie del lago ex Snia supera quella del laghetto di Villa Borghese, particolarmente ricca l’avifauna locale: troviamo infatti il germano reale, il fagiano comune o il martin pescatore, ma anche esemplari di passaggio di falco pellegrino e beccacci....



giovedì 10 novembre 2022

VILLA CUSCIANNA


Oggi vi raccontiamo dell’ottocentesca Villa Cuscianna, un misterioso ed eccentrico edificio abbandonato completamente ricoperto di simboli alchemici ed esoterici.
Un luogo che per anni è stato al centro di storie e leggende create per spaventare i bambini, convinti che al suo interno ci fossero i fantasmi. Uno stabile che immagineremmo nascosto e isolato in buie strade di campagna e che invece si trova a pochi metri dalla affollata piazza principale di Matera.
Sulle due colonne del cancello di ingresso è inciso un nome: Leonardo Cuscianna. Si tratta di colui che alla fine dell’800 fece costruire questa villa dall’architettura eclettica con richiami allo stile moresco.
Non si conosce molto della sua vita: sappiamo solo essere nato a Matera nel 1884 e morto a Boston nel 1947, ma pare evidente che fosse interessato al mondo della Massoneria, di cui probabilmente faceva parte.
L’intero edificio riconduce alla dottrina dell’esoterismo e ciò lo si comprende andando a studiare i mille particolari disseminati su facciata, scale e persino sullo stesso cancello di accesso.
La ringhiera infatti riporta degli aguzzi decori in ferro che rappresentano il simbolo alchemico della “monade” che in sé racchiude la luna, il sole, gli elementi naturali e il fuoco: le unità fondamentali dell’Essere. Un segno che compare in altri monumenti come la Porta Alchemica di Villa Palombara a Roma.
Sulle due colonne è riportato invece il simbolo dell’arsenico: una decorazione di colore rosso formata da una linea con due tondi alle estremità. Si narra che questo elemento chimico, assieme allo zolfo, portasse a uno stato di trance mistica e rivelasse allo Spirito il cammino da intraprendere.
Altro particolare che notiamo affacciandoci tra le inferriate, e che ritorna in tutta la struttura, è una stella a otto punte in un cerchio bianco. Visibile sulle balaustre delle scale di accesso e sulla vetrata della torre sinistra, dove la stella appare a forma di fiore con una croce come stelo: una figura che rimanda a leggendario ordine segreto dei Rosacroce.
Di questo simbolo ne parla l’attuale proprietario Nicola Cuscianna, nipote di Leonardo, in un’intervista rilasciata alla testata SassiLive.
«La figura geometrica richiama il significato simbolico del numero otto, collegato alla resurrezione, che ricorre spesso negli impianti occulti dei Templari. Corrisponde al ritmo perfetto dell’armonia e della felicità che derivano dalla riconquista del Paradiso. Anche sul pianerottolo della prima scala è disegnato un quadrato di colore rosso che contiene un ottagono ispirato alla forma di Castel del Monte e quindi a Federico II di Svevia».
L’edificio è poi pieno di iscrizioni in latino. Sulla facciata centrale si trova la scritta “Donec Erunt Ignes” (“Finchè durerà il fuoco”), un’espressione usata dall’autore di testi di alchimia Fulcanelli per indicare il “fuoco segreto”, l’essenza spirituale senza cui non esisterebbe la vita stessa.
Ai lati due quadrati di pietra che racchiudono il “Quadrato del Sator”, una misteriosa e antica iscrizione latina, in forma di quadrato magico, composta dalle cinque parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS.
La loro giustapposizione, nell'ordine indicato, dà luogo a un palindromo, vale a dire una frase che rimane identica se letta da sinistra a destra e viceversa. La stessa frase palindroma si ottiene leggendo le parole del quadrato dal basso verso l'alto purché ogni riga sia letta da destra verso sinistra.
L'iscrizione è stata oggetto di frequenti ritrovamenti archeologici, sia in epigrafi lapidee sia in graffiti, ma il senso e il significato simbolico rimangono ancora oscuri, nonostante le numerose ipotesi formulate.
Sulle due porte laterali di ingresso sono presenti altre due frasi ermetiche. Sulla posta sinistra “Sub Rosae” con una rosa disegnata al centro, un chiaro riferimento ai Templari e ai Rosacroce.
Su quella di destra invece “Si sedes non is”, che letta da sinistra a destra significa “se ti siedi non procedi” e da destra a sinistra “se non ti siedi procedi”. In entrambi i casi rappresenta un invito a perseverare nel proprio obiettivo e nel miglioramento di sé: un’esortazione da sempre cara alla Massoneria.

L'inizio è la fine vicendevolmente

"Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all'apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente. Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada… La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. O lo attende alle spalle, come il vecchio Tobia. In realtà egli l’ha in sé da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto."
(Cristina Campo)



martedì 8 novembre 2022

Il vischio e la melagrana i frutti che segnano la discesa agli inferi

Siamo tutti alla ricerca del ramo d'oro come Enea nel sacro bosco di Diana, presso Cuma



di Francesco Lamendola - 01/10/2008 da Arianna Editrice

Vi è un episodio, nel VI libro dell'Eneide, che da sempre attira la curiosità dei lettori, per l'atmosfera arcana e misteriosa lo pervade; tanto che il celebre etnologo scozzese James G. Frazer vi si ispirò per la stesura della sua opera monumentale The Golden Bough, in dodici volumi (1911-1915). 

È l'episodio, appunto, del «ramo d'oro»: un misterioso ramo d'albero, senza il quale l'eroe troiano non avrebbe mai ottenuto da Plutone e Proserpina l'accesso ai regni dell'Ade, ove desiderava recarsi per incontrare l'anima del padre Anchise e apprendere da lui il destino che lo avrebbe atteso dopo l'arrivo nel Lazio.

La Sibilla Cumana, interpellata in proposito, era stata molto chiara, parlando per ispirazione del dio Apollo (Aen., VI, 136-148):

 

     … Latet arbore opaca

aureus et foliis et lento vimine ramus,

Iunonis infernae dictus sacer; hunc tegit omnis

lucus et obscuris  claudunt convallibus umbrae.

Sed non ante datur telluris  operta subire,

auricomos quam qui decerpserit arbore fetus.

Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus

instituit; primo avolso non deficit alter

aureus et simili frondescit virga metallo.

Ergo alte vestigia oculis et rite repertum

carpe manu; namque ipse volens  facilisque sequetur,

si tefata vocant; aliter non viribus ullis

vincere nec duro poteris convellere ferro.

 

Diamo qui di seguito la traduzione di Enzio Cetrangolo (Virgilio, Eneide, Sansoni Editore, Firenze, 1988, p. 243):

 

Nascosto in un albero folto è un ramo che ha foglie

d'oro e il gambo flessibile, sacro a Prosèrpina;

tutta la selva lo copre e fitte ombre lo cingono

di convalli. A nessuno è dato di entrare nei regni

segreti se prima non svelle quell'aureo germoglio.

La bella Prosèrpina vuole che a lei si riserbi

Questo tributo; al primo staccato non manca il secondo

d'oro anch'esso, e il ramo di foglie d'oro si veste.

Dunque ben addentro osserva con gli occhi e trovatolo,

come il rito prescrive, staccalo con la tua mano;

quello da sé docilmente verrà alla tua mano

se il fato ti elegge, altrimenti non forza ti giova

a piegarlo, né duro ferro a strapparlo.

 

Udito il vaticinio del Dio, Enea, accompagnato dal fido Acate, lascia pensoso l'antro dalle cento porte della Sibilla. Dalla sacerdotessa ha appreso, inoltre, che il cadavere di un suo compagno giace insepolto sul lido, e che deve trovarlo per rendergli onorevoli esequie sulla pira funebre; infine, dovrà compiere un sacrificio di pecore nere, sacre agli dei dell'Averno, per propiziarsi la temeraria impresa.

Per prima cosa, i due compagni s'imbattono proprio nel corpo di Miseno, precipitato in mare da Tritone, geloso della sua abilità nel suonare la tromba; poi, mentre - con gli altri Troiani - gli apprestano le esequie, Enea leva una preghiera affinché un segno gli mostri ove cercare il misterioso ramo d'oro, nel fitto della foresta di frassini e querce.

Ed ecco che la sua invocazione viene esaudita: compaiono due bianche colombe, uccelli sacri a Venere (la madre dell'eroe), che lo guidano fino al recesso ombroso ove cresce il ramo d'oro, che Enea riesce a svellere - benché esso sia inspiegabilmente resistente - senza eccessiva difficoltà (Id., 199-211):

 

pascentes illae tantum prodire volando,

quantum aciem possent oculi servare sequentum.

Inde ubi venere ad fauces grave  olentis Averni,

tollunt se celeres liquidumque per aëra lapsae

sedibus optatis gemina super arbore sidunt,

discolor unde auri per ramos aura refulsit.

Quale solet silvis brumali frigore viscum

fronde virere nova, quod non sua seminat arbos,

et croceo fetu teretis circumdare truncos,

talis erat species auri frondentis opaca

ilice, sic leni crepitabat brattea vento.

Corripit Aeneas extemplo avidusque refringit

cunctantem et vatis portat sub tecta Sibyllae.

 

Sempre nella traduzione di Enzio Cetrangolo (Op. cit., pp. 245-47):

 

Quelle a volo beccando tanto andavano innanzi

quanto gli occhi potessero intenti guardarle.

E quando alla bocca del livido Averno pervennero

veloci si levano a volo e dal limpido aere calando

si posan su l'albero strano, di doppia natura,

donde rifulse tra i rami un vivido d'oro

scintillio. Quale d'inverno il vischio nei boschi

di nuova fronda si veste che in altro albero ha il seme

e i lisci tronchi circonda di gialle sue bacche,

tale su l'ìlice nera sembrava dell'oro la fronda,

così crepitava al vento lieve la lamina.

Enea in fretta la prende e la stacca bramoso

mentre quella esitava e la reca nell'antro

all'indovina Sibilla.

 

Che il ramo d'oro fosse un ramo di vischio, pianta sacra nell'ambito varie religioni antiche (basti pensare, nel caso dei Celti, al druidismo), non è detto chiaramente; Virgilio si limita a paragonarlo a un ramo di vischio. La cosa, del resto, in questa sede non c'interessa, benché abbia affaticato la curiosità di molti insigni filologi classici.

Quello che ci preme evidenziare, è il significato simbolico che l'intero episodio riveste, in un contesto volutamente allusivo e misteriosofico; preludio ad altre e non meno impegnative allegorie,  delle quali è intessuta la discesa di Enea nell'Averno. Del resto, chi abbia visitato il monte di Cuma e percorso la lunga galleria che lo perfora, scavata nella viva roccia e adducente a un  vasto locale che era l'antico santuario sotterraneo della Sibilla,  ha di certo provato quel fremito arcano cui non sfugge il lettore del libro VI dell'Eneide, e che ha ispirato in gran parte il viaggio oltremondano di Dante nella sua Divina Commedia.

Virgilio, come appare dalla sua concezione del destino delle anime dopo la morte, era imbevuto di dottrine orfico-pitagoriche, ed anche notevolmente aperto (si veda la IV Egloga delle Bucoliche) al clima di aspettativa generalizzata di tipo messianico e soteriologico (cfr. anche il nostro saggio Il culto di Virgilio nel Medioevo, pubblicato nel quarto volume degli Atti della Società «Dante Alighieri» di Treviso, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).

Ciò su cui vogliamo riflettere in questa sede, tuttavia, non è il significato magico e religioso del «ramo d'oro» nel poema di Virgilio, quanto coglierne la dimensione iniziatica e simbolica a-temporale; e, quindi, il suo possibile significato anche per noi, cittadini - dal punto di vista materiale - di una società di massa dai ritmi sempre più frenetici, tali da distrarci in misura sempre maggiore dalla nostra interiorità e da un legame armonioso col mondo.

E, innanzitutto: che cosa può rappresentare il concetto del «ramo d'oro», non come simbolo iniziatico specifico (sia esso un ramo di vischio o di qualunque altra natura), ma come metafora di una clavis universalis mediante la quale accedere ai livelli profondi della realtà, quelli che sfuggono all'osservatore distratto, ma dai quali - in realtà - dipende l'orientamento fondamentale della nostra vita e, quindi, il nostro destino?

E, prima ancora: vi è bisogno di una siffatta clavis universalis; oppure tutto quel che serve, per affrontare il viaggio della vita, sono un discreto spirito pratico, una istintiva capacità di operare scelte e prendere decisioni, nonché una certa dose di sano buon senso?

Partiamo da questo secondo punto.

Non crediamo che lo spirito pratico, l'istinto e il cosiddetto buon senso - che è poi il mero senso comune -, siano sufficienti; e non perché la vita, oggi, sia divenuta particolarmente complicata (cosa, peraltro, innegabile), quanto perché la vita in se stessa, in qualunque società e circostanza, è sempre una avventura molto più complessa e ricca di possibilità - positive e negative - di quel che generalmente si creda e si ammetta.

Talmente complessa, che non sono poche le persone le quali non fanno in tempo ad impadronirsi nemmeno dei suoi meccanismi più semplici, prima che sia giunta, per esse, la fine del viaggio. Anche da ciò, crediamo, è nata, nel contesto di svariate culture, l'idea della reincarnazione o quella delle rinascite (concetti distinti, ma quasi sempre equiparati, se non addirittura confusi, nel linguaggio comune): non parendo sufficiente, in molti casi, il tempo di una vita umana per comprendere e attuare neppure gli elementi essenziali dell'arte di ben vivere.

Infatti, imparare a vivere è un'arte; ed è un'arte che non può essere insegnata - sebbene sia sempre possibile elargire dei buoni consigli -, ma solo sperimentata su se stessi, consumandola - in parte o anche del tutto - proprio nei reiterati tentativi di apprenderla. In questo sembrerebbe esservi un qualcosa di paradossale: perché l'idea dell'apprendimento, di norma, si accompagna all'idea che le cose imparate siano «spendibili» (come si usa dire, tradendo nel vocabolario la filosofia economicistica oggi dominante) in vista di un fine ulteriore; e non già che l'apprendimento stesso consista nell'esaurimento di ogni ulteriore possibilità d'iniziativa.

Però la contraddizione è più apparente che reale, perché l'arte di imparare a vivere si impara - se la si impara - vivendo; e quindi non vi sono un prima e un dopo, nettamente distinti; vivere e imparare a vivere sono due cose che procedono insieme.

Ciò detto, resta la prima domanda che ci eravamo posta: se, cioè, sia davvero necessario comprendere l'uso di uno strumento di lettura generale della realtà, dal momento che non basta semplicemente, procedere con il buon senso e la «normale» esperienza della vita stessa. Purtroppo, quest'ultimo concetto significa, molto spesso, né più né meno che abituarsi a ripetere sempre i medesimi errori, senza imparare mai nulla; ed è per questo che una «chiave» di accesso ai significati profondi della vita risulta, effettivamente, indispensabile. 

O, almeno, lo è se si desidera vivere in maniera non superficiale, ma con piena consapevolezza delle grandi responsabilità e delle amplissime possibilità che il fenomeno «vita»ci offre, purché non ci accontentiamo di soffermarci nei suoi livelli più elementari ed inferiori, ma avvertiamo l'esigenza di spingerci un poco più avanti.

In questo senso, come dicevamo, imparare l'arte di vivere corrisponde a una vera e propria iniziazione, ossia a una cerimonia di passaggio che introduce da un piano di realtà ad un altro; nel nostro caso, dal piano del contingente e del relativo, a quello dell'assoluto e del necessario.

 

Ora, l'iniziazione è una cosa che non è possibile darsi da sé; la si riceve; però, al tempo steso, è ben vero che la può ricevere solo chi ne sia veramente degno e che vi sia, in qualche modo, preparato ed in grado di accoglierla. Questo, crediamo, si cela dietro il significato allegorico che non basta aver trovato il ramo d'oro - impresa già di tutto rispetto -, ma bisogna anche essere in grado di svellerlo dall'albero su cui cresce (che è di tutt'altra natura), per essere degli iniziati: cosa che in nessun modo si può ottenere mediante un puro atto di forza.

Negli antichi Misteri - in quelli Eleusini, ad esempio - l'iniziazione veniva somministrata da un sacerdote o, comunque, da una persona che era già stata, a sua volta, iniziata. Nella società contemporanea, l'iniziazione può venire da una persona (non necessariamente da un iniziato nel senso tecnico del termine), ma anche da una situazione o da un complesso di circostanze. Il concetto fondamentale è che, quando un individuo è pronto per il passaggio ad un livello superiore di consapevolezza, sono le circostanze stesse a chiamarlo. Il profano dirà che quelle circostanze sono state casuali; ma la verità è che il caso non esiste, e che noi veniamo chiamati allorché siamo pronti, e non un minuto prima.

Un altro concetto fondamentale è che l'iniziazione segna bensì il passaggio a un livello più elevato di consapevolezza, ma anche la capacità e la possibilità di fare ritorno, arricchiti e illuminati da tale esperienza, al livello della vita cosiddetta ordinaria. Vi sono, pertanto, sia un movimento di ascesa, che uno di discesa; una andata  e un ritorno. 

Il vero iniziato non è colui che sa solamente partire, ma colui che ha appreso anche l'arte di ritornare. Ritornare fra gli uomini; ritornare fra le cose di ogni giorno, ma con un altro livello di consapevolezza

Ecco perché l'iniziato non si riconosce facilmente di primo acchito; e chi si atteggia a tale, certamente non lo è. Il vero iniziato è in grado di fare esattamente le stesse cose che fanno tutti gli altri esseri umani, però le fa con uno spirito diverso e con una diversa prospettiva.

 

Esistono, storicamente, diversi tipi di iniziazione.

Qualcuno si è preso la briga di raggrupparli in tre grandi categorie:  l'iniziazione tribale, che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta;  quella misterica, che ricerca le vie dell'altrove e dà accesso ai poteri soprannaturali; infine, per i cristiani,  quella cristica, che prevede una uscita dal mondo, ma anche un ritorno: esattamente come fece Gesù  quando - terminato il ritiro nel deserto, al principio della sua vita pubblica - ritornò fra gli uomini, dopo avere affrontato e vinto le tentazioni demoniache.

E il ritorno è sempre motivato da uno spirito di servizio e di altruismo nei confronti degli altri esseri umani.

Ecco, allora, che abbiamo forse trovato quella clavis universalis di cui andavamo alla ricerca, e che abbiamo compreso il significato riposto dell'allegoria del «ramo d'oro»: si tratta, né più né meno, dell'amore, inteso come apertura totale nei confronti dell'Essere e come assoluta docilità e disponibilità nei confronti del suo progetto cosmico.

 

Il domenicano Philippe-Emmanuel Rausis, nel suo libro L'iniziazione (titolo originale: L'initiation, Paris, 1993; traduzione italiana di Yasmina Melaouah, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1997, pp. 91-93), scrive:

 

Henri Atlan racconta che Rabbi Nahuman di Bratzlav, un maestro hassidim del XVIII secolo, un giorno disse: «da noi il vero problema non è partire (ratso) ma tornare (chouv)». Dicendo ciò pensava al movimento incassante di andata e ritorno (ratso vachouv) degli angeli nella visione di Ezechiele, che egli vedeva come una metafora dei cammini dell'illuminazione.  Ai suoi occhi ciò significa che se chiunque può salire i gradini dell'illuminazione, ben pochi riescono pi a ridiscendere. In effetti ogni uomo arriva un giorno all'illuminazione, non fosse che nel momento della morte. E il compito dell'iniziazione è proprio quello di condurre a questa conoscenza ultima, anticipando simbolicamente il momento della morte - facendo entrare la morte nella vita, essa permette che la vita stessa penetri nella morte - in modo da sollevare un angolo del velo di Iside, di cui è detto che nessun mortale può conoscere il segreto. Ma anche se ci permette di salire qualche grado mistico, non per questo l'iniziazione è compiuta nella sua integrità. Dopo essere salito, l'uomo dovrà ridiscendere, dopo aver contemplato «la vita che è altrove» dovrà raggiungere con tutto se stesso «la vita che è qui». «Io sono la porta - dice Gesù. - Se uno entra attraverso di me, sarà salvo: entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10, 9).

René Guénon ha saputo individuare chiaramente, in uno dei suoi ultimi scritti, questo aspetto fondamentale dell'iniziazione: «Nella realizzazione totale dell'essere, dice, è possibile rilevare l'unione di due aspetti che corrispondo in un certo senso a due fasi  dell'unione stessa, una ascendente e l'altra discendente. La considerazione della prima fase nella quale l'essere, partito da un certo stato di manifestazione, si eleva fino all'identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare  alcuna difficoltà poiché si tratta di ciò che viene sempre e dovunque espressamente indicato come lo svolgimento e il fine essenziale di ogni iniziazione, la quale ha come esito l'uscita dal cosmo. [...] Per quanto riguarda invece la seconda fase, quella della ridiscesa nel manifestato, pare che se ne parli più raramente, e, in molti casi, in maniera meno esplicita».

Che l'iniziazione debba essere concepita secondo lo schema di una andata e ritorno ne abbiamo un'ulteriore testimonianza in uno dei documenti più venerabili della tradizione iniziatica: la famosa Tabula Smaragdina. Il testo, nel suo ottavo articolo, dice: «Sale dalla terra al cielo per ricevere le luci dell'alto, poi di nuovo scende in terra, riunendo in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, perché la luce delle luci è in lui, sicché l'oscurità si allontana da lui». Salire dalla terra verso il cielo è l'opera dell'iniziazione misterica; scendere dal cielo sulla terra è l'opera dell'iniziazione clanica; riunire in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, è infine, è l'opera dell'iniziazione cristica. 

Questo andare e venire ricorda i pratyeka-buddha e i  bodhisattva delle religioni dell'India: i primi - che seguono la piccola via (hinayana) - sono giunti al nirvana; mentre i secondi - che seguono la grande via (mahayana)rinunciano alla loro felicità e accettano nuove incarnazioni per aiutare gli altri a sfuggire al circolo del samsara. «La salvezza deve essere accessibile non più solo ad alcuni asceti ma alla massa degli uomini». Ma ancor più che con il buddhismo è con la tradizione islamica che Guénon stabilisce il parallelo. In essa si trova infatti una distinzione dello stesso ordine tra il wali e il nabi. «Un essere può essere wali solo 'per sé'; […]; al contrario un nabi è tale solo perché ha una funzione una funzione da svolgere rispetto agli altri esseri». Questa è anche la regola dell'iniziazione cristiana: non è acquisita per sé ma per gli altri. Il solo modo per essere un iniziato cristiano, nel pieno significato del termine, è diventare a sua volta iniziatore: fermento di iniziazione per coloro che ci circondano. Facendo corpo con Cristo, l'uomo non è solo salvato ma diviene anch'egli, per partecipazione, un salvatore.

Tuttavia Guénon ci mette in guardia: questa discesa non deve diventare il pretesto per un attaccamento al mondo che non è mai stato vinto. Un coinvolgimento esteriore presuppone un'autentica realizzazione interiore. Allora, illuminato al fuoco della contemplazione, l'uomo può diventare una luce viva sul cammino degli altri, un segno di speranza per il mondo. ma tutto ciò richiede, oltre che la grazia, una certa qualità nel proprio rapporto con Dio, con se stesso e con gli altri. Valentin Tomberg lo riassume alla perfezione nella Regola d'oro  con la quale vorremmo concludere questa modesta riflessione:

Non perderti cercando il mondo,

non perdere Dio cercandoti,

non perdere il mondo cercando Dio.

 

Il vero iniziato, infatti, non è solo colui che conosce, oltre all'arte del partire, anche quella del ritornare (come bene è illustrato nel cammino iniziatico di Dante nella Divina Commedia), per portare agli altri i tesori della propria illuminazione. 

Egli è anche, e soprattutto, colui che ha imparato l'arte suprema di non sprecare nulla, di non disperdere nulla, di non rifiutare nulla; ma di assorbire ed accogliere ogni esperienza - lieta e triste, piacevole e dolorosa - in un abbraccio amorevole che tutto reintegra nella propria essenza più profonda, trasformandola in sostanza viva e luminosa dell'Essere, di cui egli stesso ha compreso di costituire una manifestazione.