martedì 31 marzo 2015

Serata incontro; la scoperta e le vicissitudini del "Tesoretto di Isola Rizza"

 

Evocazione e animali totemici...

…stanno uscendo allo scoperto ora, amano annunciare cosa stanno per fare, adorano la paura che esso può creare. E’ come la bassa modulazione nel ruggito di una tigre che paralizza la vittima prima del colpo. Inoltre, la paura nei cuori delle masse risuona come un dolce inno per il loro signore.
Capire la propaganda, R. Winfield



domenica 29 marzo 2015

UNA PIZIA DEI NOSTRI TEMPI: ELENA PETROVNA BLAVATSKY



 La grande sacerdotessa dell’occultismo occidentale moderno, Elena Petrovna Blavatsky, nacque a Jekaterinoslav nell’Impero Russo da una famiglia aristocratica di origine germanica: gli Hahn von Rotternstern. La sua linea di sangue vantava come capostipite la figura del capo vichingo Rurik, che prima del Mille percorse i grandi fiumi russi e fondò il Regno della Rus’.
 Più volte nel corso dei secoli gli Hahn si erano intrecciati con la nobiltà zarista e ancora nell’Ottocento avevano dimestichezza con il potere che discende dall’alto. La piccola Helena era la nipote del governatore zarista della città di Saratov. Lì ella trascorse la sua infanzia, mostrando curiosità per i tanti volumi della biblioteca del castello del nonno. Col passare degli anni la ragazza rivelò un carattere sempre più irrequieto e indipendente: era ancora un’adolescente quando decise di sua spontanea volontà di sposare il vecchio generale Blavatsky, governatore dell’Armenia. Helena aveva 17 anni, il governatore ne contava 72... Non sappiamo se nell’intimità lo chiamasse “papi”: vero è che al tempo – nello scorcio finale del XIX secolo – non ancora si era sviluppato quell’intreccio tra cronaca rosa e politica che caratterizza i nostri giorni
Sta di fatto che la fresca sposa, nei tre mesi di convivenza, dichiarò di non aver mai avuto rapporti intimi con il marito. Il matrimonio era nato dal desiderio di Helena di evadere dalla gabbia familiare e si concluse presto con una nuova fuga. La Blavatsky montò a cavallo e nella notte eluse i cosacchi che erano di guardia ai confini della residenza. Incominciò così la sua vita ricca di avventura, ma priva di affetti personali. Il cuore della Blavatsky era orientato verso un unico grande desiderio: quello della conoscenza. Una conoscenza che non si declinava in forma filosofica o scientifica, ma che seguiva i percorsi dell’occulto, della ricerca dei poteri interiori dell’anima e dei maestri sconosciuti che fossero in grado di rivelarli.
Tutto si può dire di Helena Petrovna Blavatsky, ma non si può negare che la sua fu una esistenza straordinaria: tale si rivelò sin dal suo esordio. Helena nacque nella notte tra il 30 e il 31 luglio del 1831. Secondo certe leggende russe, chi nasce in quella notte è un predestinato. Segnali gloriosi e accenni di maledizioni si intrecciarono però ai primi vagiti della bambina. Durante il suo battesimo, si sviluppò un incendio e lo stesso pope che amministrava il sacramento finì con l’essere ustionato. Intanto tutto intorno nella città di Jekaterinoslav infuriava una epidemia di colera. La Blavatsky non veniva al mondo in una notte di pace. L’intera Europa peraltro era scossa in quell’anno dalle insurrezioni liberali.
Per tutta la sua vita Helena fu sempre grassoccia, ma con affascinanti occhi grigi. Occhi di gatto, con un immediato impatto ipnotico. Si rivelò presto sonnambula. Nella notte compiva movimenti lunatici e di giorno si intratteneva a parlare con figure a lei solo note, quelle che in seguito sarebbero divenuti i “Maestri sconosciuti” della teosofia. A lei si attribuivano poteri psicocinetici: spostava oggetti, ne provocava una immediata apparizione. Questi fenomeni di cui è difficile dare una interpretazione definitiva attestavano comunque in Helena una forza psichica turbinosa.
Da quando era fuggita dal palazzo del governatore dell’Armenia, Helena aveva compiuto viaggi avventurosi nei territori dell’Impero Ottomano, in Grecia, anche in Tibet. A quell’epoca i viaggi non si prenotavano nelle agenzie e a spingerla su sentieri decisamente impervi era il desiderio di conoscere i misteri dell’umanità. Fu così che incontrò a Londra il maestro Morya, che gli apparve mescolato agli uomini di una delegazione nepalese. Interrogò lama buddhisti, sciamani pellerossa, esperti di riti vodoo. Decisamente il suo orientamento spirituale tendeva al sincretismo; dal recinto del suo eclettismo rimaneva esclusa forse solo la religione cattolica, verso la quale nutriva un astio non indifferente.
Era quella l’epoca in cui il risveglio spiritualistico si manifestava spesso sotto forma di interesse per lo spiritismo. Dai tavolini che ballavano e dalle presunte rivelazioni dei morti gli uomini dell’Ottocento cercavano di estrarre un antidoto al materialismo dominante. Per dimostrare la vita eterna, lo spiritismo scoperchiava idealmente le tombe e andava a scomodare i morti. A questo insistente bussare si univa il tentativo della parapsicologia di fornire una misurazione esatta dei fenomeni un po’ eccentrici che nel corso di quelle evocazioni si producevano. La Blavatsky espresse una posizione molto distante da quella degli spiritisti – come Kardec – ella sosteneva che nell’uomo erano latenti poteri segreti e che non era necessario scomodare i morti per darne una dimostrazione. La Blavatsky ci teneva a dire di non essere una medium e tuttavia intorno a lei si verificavano una serie di fenomeni generalmente classificati come medianici: colpi su mobili e pareti, misteriosi apporti di oggetti. Per dimostrare che tali fenomeni non erano frutto di prestidigitazione la Blavatsky si prestava anche a farsi immobilizzare su un letto.
Come carattere era generosa e irascibile, alternativamente. La sua dottrina spiritualistica predicava il vegetarianismo, eppure lei personalmente mangiava a dismisura. E pure carne. Della sua salute non si curava molto ed e per questo che ben presto cominciò a soffrire di reumatismi e altri acciacchi. Quando cominciò a muoversi tra Londra e New York in un ambiente permeato di compostezza vittoriana, la sua figura doveva produrre un effetto bizzarro e a suo modo intrigante.
Personalmente non si presentò mai come l’autrice delle dottrine esoteriche che esponeva, bensì come una sorta di amanuense dei maestri sconosciuti, che vivendo in corpi umani fisici o agendo da altre dimensioni ispiravano la sua scrittura. Mentre svolgeva questa sua funzione di moderna Pizia, la Blavatsky non smetteva di girare per il mondo e trovava il tempo di combattere a Mentana al fianco di Garibaldi  contro le truppe dello Stato Pontificio.

Alfonso Piscitelli

Pessoa e le su sette anime (eteronimi)


Severo narro. quanto sinto , penso.
Parlavas sao ideias.
Murmuro , o rio passa, e o que nao passa,
que è nosso, nao do rio.
Assim quisesse o verso: meu e alheio
e por mim mesmo lido.
Severo narro. Quanto sento,passo.
Parole sono idee.
Mormorante, il fiume passa, e quel che non passa,
che è nostro, non del fiume.
Così volesse il verso: mio e altrui
e da me stesso letto.
(Fernando Pessoa: "Odi di Riccardo Reis").

La danza della trascendenza



La danza dei dervisci rotanti

Il Semà dei sufi (dervisci) Mevlevi
Articolo apparso sul n. 2 della rivista Sufismo, trimestrale di cultura e spiritualità, edita dalla Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia. - 2007

Il Samâc (in turco, Semà), detto anche "la danza dell'estasi", è il tipico dhikr della Mevleviyya, la Confraternita sufi fondata a Konya (Turchia) da Jalâl âlDîn Rûmî nel XIII° secolo.

Nel suo insieme, tutto il semà rituale ha plurime valenze. Anzitutto: i Mevlevi danzano a Konya un Semà rituale completo la seconda settimana di dicembre per celebrare la morte di Jalâl âlDîn Rûmî. Altamente emblematica, altamente spirituale, questa danza è l'espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Il Semà simbolizza l'ascesa spirituale - viaggio mistico dall'essere a Dio - in cui l'essere si dissolve ritornando poi sulla terra («prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono giunto so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari» disse il grande maestro sufi del IX secolo Dhu âl Nûn âlMisrî).

Partecipano al rito da un lato un gruppo di musici e cantanti (mëtrëp), dall'altro il Maestro (shaykh della Mevlevihane, in funzione di qutub, "polo"), il capo dei danzatori (semazen basë) e i danzatori, che nel rito completo del 17 dicembre a Konya sono diciotto. Tutti hanno un abito bianco sopra il quale portano un mantello nero. Nessun altro colore è ammesso, e tutti sono, rigorosamente, maschi.
La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un nait (o naat, Naat âlSherìf, inno di lode al Profeta), o con la recitazione del wird che comprende i dieci passi più importanti del Corano (Âshr âlSherîf). Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione (taksim) con improvvisazione di flauto (ney). Un suono di tamburi - seconda fase - simbolizza la creazione del mondo (Corano, 36ª81-82); e poi - terza fase - la dolce melodia di un ney, col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.

Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall'orchestra inizia a cantarlo, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti - come già detto - da un mantello nero, simbolo dell'ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta, come lenzuolo mortuario, la luce e il distacco dall'Ego. Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero (o verde se ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), simbolo del suo grado, e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci hanno un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la loro pietra tombale. A passi lenti, i dervisci percorrono in senso antiorario (così come si svolge la circumambulazione della Ka`ba) tutto il perimetro per tre volte. 

E' il devr-i Veledî: il circolo del Sultano Veled, e rappresenta il cîlm âlYaqîn, cayn âlYakîn e haqq âlYaqîn («conoscendo la Certezza, vedendo la Certezza, sapendo la Certezza»). Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Se a questo momento i danzatori si siedono, prima di rialzarsi battono all'unisono le palme delle mani sul pavimento. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi (simbolo dell'alef, prima lettera dell'alfabeto arabo) rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle (nell'atteggiamento che aveva l'angelo Gabriele quando si rivolgeva al Profeta Muhammad prima di ogni discesa del Corano, e simbolo dell'Unità divina).

Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette "saluti" (salâm). A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e - dopo aver allargato le braccia - sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala (devri veledi), la mano destra volta al cielo per ricevere i doni di Dio, la mano sinistra volta alla terra per dispensare a tutti i presenti i doni ricevuti da Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un'ampia vorticosa immagine dell'Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro "saluti", interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell'ultimo "saluto", il Maestro stesso, "polo celeste" (qutb), compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.

Il primo "saluto" simboleggia la nascita dell'essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell'esistenza di Dio. Il secondo saluto simbolizza il raggiungimento d'una consapevolezza superiore, in cui l'essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l'essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui (fanâ), ed è l'estasi ed il superamento d'ogni transitorietà fenomenica. Il quarto "saluto" simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l'accettazione della materia dopo l'ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», illustrando i versetti 27-30 della 89ª sura del Corano, ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.

La fase finale (Segan taksimler ve ilâhiler) è agita dai musici e dai cantori che recitano versetti del Corano, in particolare 2ª115. E' composta da son pe?rev, yürük-semaî, as?r, dalla Fatiha e da un'ultima preghiera (Mevlevi Gülbank) cantata per tutti i profeti e per tutte le anime dei credenti, e che si conclude con le parole dello Shaykh: «Hu diyelim (Noi Lo vediamo).» Infine tutti esclamano Hu (Egli; e cioè Dio, in assoluto), chiudendo il rito con questa affermazione che trascende il vocabolo "Dio" quasi a significare il superamento d'ogni descrizione possibile della divinità da parte dell'essere umano.

Il sufi, a qualsiasi Confraternita appartenga, compie un cammino evolutivo declinato in sette tappe; ognuna rappresentata da un profeta. Per l'elaborazione d'ogni tappa abbiamo sette simboli, la cui penetrazione aiuta il cammino. Essi sono: suono, luce, numero, lettera, parola, simbolo, ritmo e armonia. Nel semà, in cui si uniscono musica, canto, poesia, pensiero, movimento, luce e colore, troviamo così espressi e presenti tutti e sette questi simboli, in una completezza che trasupera il solo pensiero-azione della preghiera musulmana, e rende così altamente suggestivo e globale questo particolare dhikr dei sufi mevlevi.
Concludiamo con quanto Rûmî stesso scrisse del Semà, nel suo Dìvàn-e Shams-e Tabrizî:

«Il semà è la pace per l'anima dei vivi,
e chi conosce ciò raggiunge la pace dell'anima.
Colui che desidera il proprio risveglio,
è quello che già dorme in un giardino.
Ma per chi dorme dentro a una prigione
il risveglio è soltanto un dispiacere.
Assisti al semà là dove si celebra un matrimonio,
non quando c'è un funerale, o in un luogo di dolore.
Chi non conosce la propria essenza,
colui ai cui occhi è nascosta questa bellezza lunare,
che se ne fa della danza e del tamburo?
Il semà è fatto per l'unione con l'Amato;
e per quelli che hanno il viso rivolto alla qibla
ecco, il semà rappresenta questo mondo e quell'altro.
E più ancora: il cerchio dei danzatori di semà
che dolcemente volteggiano ha nel suo centro la Ka`ba.
Se desideri la miniera della dolcezza, ecco, essa è là,
e se ti accontenti d'una briciola di zucchero, ecco:
questo dono è gratuito.»

La Redazione di "Sufismo"
rivistasufismo.it

La danza dei dervisci rotanti - Il Semà dei sufi Mevlevi

sabato 28 marzo 2015

Da Ariel

IO HO QUEL CHE HO DONATO


"Tutti gli idoli adombrano il  Dio vivo 
 Tutte le fedi attestanti l'uomo eterno 
 Tutti i martiri annunziano un sorriso 
 Tutte le luci della santità fan d'un cor d'uomo il sole 
 E fan d'Ascesi l'Oriente dell'anima immortale". 
(Gabriele D'Annunzio).

venerdì 27 marzo 2015

Le Vocali di Artur Rimbaud

Di Artur Rimbaud  
Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,
golfi d'ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi,
quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe
che l'alchimia imprime alle fronti studiose.
O, la suprema Tromba piena di stridi strani,
silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
- O, l'Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!
Voyelles
A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,
golfes d'ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d'ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
dans la colère ou les ivresses pénitentes;
U, cycles, vibrement divins des mers virides,
paix des pâtis semés d'animaux, paix des rides
que l'alchimie imprime aux grands fronts studieux;
O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges:
- O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux!Arthur Rimbaud
(1874)

"...ti insegnerò, mia anima, questo passo d'addio...." [Cristina Campo]

"Inquietudine che non è quella di altri tempi, in cui la vita era ricca di avventure, poiché è un'inquietudine che sopportiamo, nella quale ci sentiamo reclusi.
È un'inquietudine che ci viene da fuori, non un'attività liberatrice che scaturisce da dentro. La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato come se gli si concedesse a malapena un'opzione o fosse a stento possibile scegliere, senza poter prendere alcuna decisione perché qualcun altro, che non si prende la briga di consultarlo, la sta già prendendo al suo posto.
Tale passività si manifesta nella più tremenda solitudine. Oltre a sentirci inquieti ci sentiamo anche sottomessi a una "solitudine senza tregua". Ma con la solitudine succede lo stesso che con l'inquietudine: anche la solitudine è propria della vita di sempre, anch'essa sta nel fondo della vita umana. La solitudine dell'epoca di crisi è tuttavia ben diversa dalla solitudine dell'uomo sveglio, dato che non è dovuta a una maggiore lucidità e può perfino racchiudere una maggiore confusione. Si tratta di una solitudine provocata dall'inquietudine, poiché non sappiamo, né possiamo essere in qualche modo certi di alcunché. Ci ritroviamo così soli perché siamo inquieti e confusi".

Maria Zambrano
, "Verso un sapere dell'anima",

L'estasi:eterna, sciamanica, pagana, cristiana........

Non amo la parola “estasi”, per tutto quello che di eccezionalità psicologica - e dunque, implicitamente, di appropriativo - che essa porta con sé, così come, per essere sincero, non mi convince molto Georges Bataille per quella sua commistione di “giovedì grasso e venerdì santo” che lo contraddistingue e che è ben lontana dalla via maestra del distacco. Mistica è la continua, costante esperienza della grazia, ovvero del divino nell’umano e dell’umano nel divino. La sua estasi, se così vogliamo dire, è un’estasi del quotidiano, una profonda gioia nel presente, qui ed ora. Sotto questo aspetto, sono piuttosto da sottolineare le analogie con il buddismo zen.
“L’evento mistico si produce dentro l’anima, dentro ciò che nell’uomo vi è di naturale in virtù di qualcosa che naturale non è, e che sta fuori di essa, per lo meno in quanto, in senso stretto, non ne è parte”. È d’accordo con queste parole di Maria Zambrano?

giovedì 26 marzo 2015

L'ultima cena di Leonardo: una rappresentazione strana!


Un profondo mistero avvolge “Il Cenacolo” di Leonardo, commissionato all’artista nel 1495 dai frati della Chiesa di S. Maria delle Grazie, a Milano, per il loro refettorio. Appare in effetti alquanto plausibile che il grande Maestro non abbia aderito all’idea dei committenti di rappresentare l’Ultima Cena, interponendo piuttosto l’immagine di una diversa celebrazione che evidentemente teneva a realizzare: le nozze mistiche fra lo spirito cosmico, il Logos, e l’elemento femminile terrestre, rappresentato da Maria Maddalena. A parte la valutazione del libro in questione nella sua interezza ["Il Codice da Vinci" di Dan Brown], in cui vengono portati in basso i piú alti significati esoterici, compresi quelli alla base della Via del Graal – la Via che riconsacra la coppia umana nell’unione secondo il Sacro Amore – esaminando il dipinto si vede effettivamente che manca uno degli elementi essenziali e simbolicamente ineludibili dell’Ultima Cena: il prezioso calice di cui la Emmerick dà una descrizione tanto particolareggiata(1) e dal quale, secondo i Vangeli, bevono uno dopo l’altro tutti gli Apostoli. In questi ultimi c’è inoltre un atteggiamento di evidente contrasto rispetto a quella Verità rivelata, ancora troppo difficile da comprendere e accettare prima della discesa su di loro dello Spirito Santo. Uno solo fra tutti, Giovanni, posto piú in alto degli altri perché rappresentato in piedi – imberbe e vestito di rosso per renderlo ben riconoscibile secondo l’iconografia classica – porta le mani al cuore in pieno accoglimento del rito celebrato.
Lazzaro-Giovanni è infatti l’unico che ha ricevuto l’Iniziazione direttamente dal Cristo – come scrive il lettore e secondo quanto rivelatoci da Rudolf Steiner – quindi l’unico in grado di intendere nel giusto modo il mistero celato nell’unione mistica. E d’altronde, essendo tutta la vita del Cristo una prefigurazione di quanto l’uomo dovrà compiere nella sua intera esistenza per giungere alla propria spiritualizzazione, ovvero cristificazione, e quindi alla “resurrezione della carne”, una parte cosí centrale come il rapporto di coppia non poteva essere elusa, a dimostrazione della necessità per il discepolo di riconsacrare ciò che è stato svilito e contaminato, per tornare al ricongiungimento spirituale della “coppia superumana”.
In proposito Massimo Scaligero scrive mirabilmente: «La reintegrazione della dignità dell’uomo, la salvezza della cultura e della civiltà, la restituzione della gerarchia dei valori e della reale fraternità, sono ideali che non possono avere significato o potere di vita, ove non sia concepibile l’accordo di cui la coppia umana detiene il segreto. Nella relazione della coppia, infatti, tende a rivivere l’archetipo obliato. L’uomo può ritrovare la donna spirituale, la donna può ritrovare l’uomo spirituale. Questa è la possibilità dei nuovi tempi, in quanto l’oblio possa essere assunto come una condizione della coscienza aperta a ogni possibilità oltre se stessa. Proprio al punto in cui si è giunti, la via della reintegrazione può essere l’esigenza piú forte, come presso un limite ultimo. Tale via, ove susciti nello sperimentatore la decisione del superamento del limite, che è il limite della coscienza individuale, gli rivela via via il suo coincidere con il compito di ritrovamento dell’accordo eterico perduto. Il tema della donna interiore, o dell’amore celeste, gli si presenta come condizione di fondamento, presso alla possibilità dell’incontro effettivo con la creatura del sacro amore, l’unica, la sposa originaria ritrovata, epperò a lui portatrice del contenuto ineffabile del Graal»(2).
All’incessante meditazione sul mistero di Lazzaro-Giovanni occorre quindi aggiungere quella sul mistero del Sacro Amore e della riconquista del Graal.
(1) C.M. Brentano, La Passione secondo Anna Katharina Emmerick, Tilopa, Roma 1990, pp. 21-23.
(2) M. Scaligero, Graal, Saggio sul Mistero del Sacro Amore, Perseo, Roma 1970, pp. 41-42.
Dall'Archetipo - Novembre 2004

mercoledì 25 marzo 2015

La città sacra di Caral


La città di “CARAL” rappresenta la civiltà più antica d’America
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La città sacra di Caral rappresenta la civiltà più antica d’America: si sviluppò quasi contemporaneamente alle civiltà della Mesopotamia, dell’Egitto, dell’India e della Cina. Risulta che questa civiltà fu anteriore a quella del Centro America. Ci troviamo a 182 Km al nord della città di Lima, nella Valle di Supe, provincia di Barranca. L’insediamento urbano di Caral per la sua estensione – 66 ettari – e per la complessità architettonica è considerato come il principale tra quelli rinvenuti nel nuovo mondo tra il 3000 e il 2000 a.C  grandi risultati raggiunti dalla civiltà Caral – Supe nel campo agricolo e della pesca si tradussero nella produzione e lavorazione del cotone nelle società costiere, che si dedicarono alla produzione di indumenti e reti per la pesca massiva e permise un certo grado di specializzazione professionale e un intenso intercambio tra gli insediamenti agricoli e quelli dei pescatori. Ciò rese possibile una intensa produzione che fu la base per la divisione sociale del lavoro.
La società gerarchica che si sviluppò fu dominata da un governo centrale che riuscì a muovere grandi masse di lavoratori e grazie a complesse reti di intercambio riuscì ad ottimizzare i benefici derivanti da una produzione eccessiva in un territorio esteso.
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Parallelamente si svilupparono le scienze, la tecnologia e l’arte. Le conoscenze astronomiche, aritmetiche, biologiche etc, si tradussero nella elaborazione di un calendario e di un sistema metereologico, nelle costruzioni pubbliche, nel miglioramento delle tecniche di coltivazione e sfruttamento del suolo, nella medicina, nell’amministrazione pubblica e nel confezionamento di oggetti cerimoniali. Il complesso sistema di credenze miti e simboli fu la forza di controllo in assenza di una struttura militare.
La forma di organizzazione sociale e politica della civiltà Caral – Supe costituì la base delle strutture politiche tipiche delle civiltà delle Ande Centrali. Inoltre tale cultura si sviluppò, a differenza delle culture dell’America Centrale, in totale isolamento e raggiunse nonostante ciò un alto grado di sviluppo.
Caral è un ritrovamento recente che deve essere investigato a fondo per poter essere apprezzato e compreso nella sua importanza. A ciò si sta dedicando il Progetto Speciale Archeologico Caral – Supe /I.N.C: (Istituto Nazionale di Cultura, n.d.r.). Si tratta di una istituzione statale – fattore già di per se straordinario – che prevede un’investigazione archeologica integrale. Si lavora parallelamente allo studio dei monumenti rinvenuti, alla loro conservazione e valorizzazione in una prospettiva di sviluppo socio – economico delle popolazioni di Supe e della Provincia di Barranca. Lo scopo è convertire il prezioso patrimonio culturale della civiltà di Caral – Supe in uno strumento che permetta di migliorare le condizioni di vita dei locali.
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Israele, apparentemente uno stato laico dove la religione ha un suo peso

Israele: Completato l’altare per il terzo Tempio di Gerusalemme
24 MARZO 2015   STORIA & ARCHEOLOGIA

Secondo quanto affermato dall’organizzazione ebraica Tempio Institute, è stato completato l’altare per il futuro “Terzo Tempio di Gerusalemme”; lo schema architettonico è stato elaborato dal celebre architetto Shmuel Balzam.Lui stesso si sta occupando anche di elaborare i piani progettuali del Santuario del Sacro Tempio.
L’altare, che è stato riprodotto in modo identico a quello che esisteva nel Tempio di Gerusalemme al tempo di Gesù, verrà sistemato nella sua posizione originaria ed è una componente fondamentale del servizio di sacrificio; il tutto è stato realizzato conformemente a quanto scritto nelle sacre scritture: l’altare era nel cortile esterno del Tabernacolo, e più tardi nel Tempio. Era circa cinque metri (16 piedi) di altezza e 16 metri (52,5 piedi) di larghezza e una rampa.

“Il concretizzarsi della profezia della fine dei tempi non può prescindere dalla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme”, ha dichiarato uno degli studenti che si occupa dello studio della profezia biblica. “L’abominio della desolazione profetizzato in Daniele e nei Vangeli, deve avvenire entro i recinti del tempio. Così, anche l’apostolo Paolo parlò “dell’uomo del peccato, o Anticristo, seduto nel tempio di Dio “.
Alessandro Landolina – Notizievangeliche.com

lunedì 23 marzo 2015

Adesso è una chiesa, la villa dove visse e mori Plotino a Suio



Foto di Santa Maria in Pensulis, posta nella frazione di Suio nel comune di Castelforte.
 edificata su di una antica villa romana, Il luogo  è legato alla permanenza del grande filosofo Plotino nell'allora ager Minturnensis dato che doveva curarsi di una fastidiosa malattia della pelle che prevedeva delle specifiche cure termali,  il luogo è ricco di acque calde e curative per le patologie epitelianli

domenica 22 marzo 2015

Come le Vie Cave etrusche: a cosa servivano?

Ci sono piste molto simili sia a Malta che al El Fuerte di Samaipata in Bolivia il cui uso è tuttora sconosciuto.