Decisamente più giovane e più sorridente della Gioconda francese, quella di Isleworth ha una storia curiosa, che spiega anche il suo nome...
Poco prima della Grande Guerra l'eccentrico collezionista d'arte inglese Hugh Blaker adocchiò il dipinto in una vecchia casa padronale del Somerset, dov'era rimasto appeso a prender polvere per almeno un centinaio d'anni. Intravedendone la bellezza sotto lo strato di sporcizia, Blaker comprò il dipinto e se lo portò a casa a Isleworth (quartiere a ovest di Londra)... ed ecco spiegata l'origine del soprannome. Non molto tempo dopo il patrigno di Blaker, John R. Eyre, pubblicò una monografia sull'opera per consolidare l'idea che il quadro fosse un originale di Leonardo, così come credevano i vecchi proprietari, che lo avevano acquistato a suo tempo come originale.
Non fu da meno anche il nuovo proprietario del dipinto, il collezionista americano Henry F. Pulitzer (cugino del creatore dell'omonimo premio giornalistico), il quale, dopo esserne venuto in possesso, pubblicò a sua volta un trattato in cui cercava di consolidare la teoria della paternità leonardesca del dipinto. Ma la comunità scientifica internazionale non si è mai convinta definitivamente e, alla morte di Pulitzer il dipinto è sparito dalle scene per alcuni decenni. Ha fatto la sua ricomparsa nel 2003, quando è stato acquistato da un consorzio internazionale e, nel frattempo, è stata istituita la Mona Lisa Foundation, con sede a Zurigo, allo scopo di accertare l'autenticità del quadro.
domenica 31 gennaio 2021
Immortalità ed eternità
Ci sono grandi differenze nel concetto di immortalità ed eternità.
Essendo tutto quello che esiste nella materia eterno e mutabile ,la immortalità è qualcosa che viene attribuita a una coagulazione della coscienza ,in altre parole una sublimazione e fissazione della forza creativa immantata nel cervello coppa distillata della co creazione aurea del fanciullo ermetico
Novilunio da la nascita delle forme animali ma oltre questa vita può anche dare forma agli esseri che oltrepassano le forme umane e si trasmigrano in Dei
E cosi come si risolve la Crisopea del pneuma.
Soror Raziel
sabato 30 gennaio 2021
La messa cristiana e i riti del sacrificio nella religione etrusca
Le affinità fra la liturgia del sacrificio degli Etruschi con quella del sacrificio o “Messa” dei Cristiani sono evidenti, numerose e pure stringenti, per cui c’è da pensare a una fondamentale derivazione della liturgia cristiana da quella etrusca, però per via indiretta, cioè per il tramite di quella romana. Più esattamente i Cristiani hanno derivato molti elementi della loro liturgia sacrificale da quella dei Romani - ovviamente caricandoli di assai differenti contenuti religiosi e dogmatici - e i Romani in precedenza li avevano derivati da quelli degli Etruschi. Particolarmente importante e significativa è la continua presenza nel sacrificio etrusco del pane e della sua consumazione, del vino, dell’acqua e dell’incenso, della presenza di lumi accesi, del calice d’oro e della sua elevazione, della patena, quasi esattamente come risulta nel sacrificio cristiano
giovedì 28 gennaio 2021
Il secolo della ragione era costellato dall'aspetto magico cavalcato dalla massoneria che andava consolidandosi in Francia con il Grande Oriente
(Da Jacob Frank alla rivoluzione Francese)
Quella passione esoterica nel cuore dell'Illuminismo - la Repubblica.it
IL 5 aprile 1794, Sigmund Gottlob Junius Frey è ghigliottinato, insieme a Danton e ad altri, nella piazza della Rivoluzione per cospirazione contro la Repubblica, pur proclamandosi innocente e strenuo difensore della libertà — come il nome di Junius, datosi in onore dell'eroe romano Junius Brutus, lascia immaginare. Tale nome era in realtà il terzo che egli aveva assunto dopo quello, originario, di Moses (Levi) Dobrushka e l'altro, successivo, di Franz Thomas von Schönfeld. Ciascuno di essi aveva ricoperto, come una maschera cangiante, il suo volto sfuggente.
Nelle fasi diverse della sua vita avventurosa — di ebreo convertito, seguace di un ordine massonico di orientamento kabbalistico, di letterato fedele suddito dell'imperatore austriaco e, infine, di fervente giacobino, autore di una Filosofia sociale dedicata al popolo francese . Nipote acquisito del profeta eretico Jacob Frank al punto di apparirne il successore, legato all'alta borghesia austriaca di cui condivideva gli interessi finanziari, austero esperto di dottrine teosofiche, ma non alieno dai piaceri della carne, illuminista e mistico, chi era in realtà quest'uomo nato in Moravia nel 1753 e morto, quarantenne, sul patibolo?
Una risposta, tutt'altro che conclusiva, a questa serie di domande è fornita dal grande ebraista Gershom Scholem, nell'edizione italiana del saggio inedito Le tre vite di Moses Dobrushka , edito da Adelpi con una dotta e brillante postfazione di Saverio Campanini. Si tratta della stesura ampliata di una conferenza pronunciata a Parigi nel 1979 su invito dello storico della Rivoluzione François Furet, che conclude, sia pure in forma aperta e problematica, una ricerca complementare ai fondamentali studi sulle sette ebraiche avviati da Scholem alcuni decenni prima. E si situa al punto di tensione tra esoterismo e illuminismo cui, attraverso un percorso accidentato e ricco di pieghe, perviene il movimento, insieme mistico e nichilista, fondato da Shabbatay Zevi nel Seicento e proseguito, nel secolo seguente, dal successore Jacob Franck. Moses Dobruschka, figlio della cugina di Jacob, ebbe la classica educazione rabbinica, ma insieme fu iniziato alla fede sabbatiana. Intrapresa la carriera letteraria con il nome di Franz Thomas von Schönfeld, si convertì esteriormente al cristianesimo, come altri adepti, rimanendo però fedele al proprio credo segreto.
Stabilitosi a Vienna, fu introdotto nei circoli illuminati lealisti verso Giuseppe II, entrando in contatto con scrittori come Klopstock, Gleim, Ramler e Voss. Fu allora che aderì alla società massonica dei Fratelli Asiatici, di tendenza esoterica ed occultista, in una sorta di singolare miscela di razionalismo e misticismo, espressa dal doppio triangolo della Stella di David e del Candelabro a sette braccia. Spostatosi in Francia con il nome di Junius Frey, senza rinunciare alla radice kabbalistica, secolarizzò la propria prospettiva in senso politico, accostandosi agli ambienti rivoluzionari giacobini. Tuttavia la sua personalità controversa destò presto sospetti, tanto da essere accusato di spionaggio a favore degli austriaci con l'intenzione di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina, sotto la cui lama finì egli stesso insieme ai fratelli e al cognato, il deputato Chabot.
I pareri sulla sua effettiva posizione — di patriota repubblicano o di traditore della Francia — divergono. Scholem, influenzato anche dall'accorata protesta di innocenpiano za lasciata al figlio insieme allo scritto sulla Filosofia sociale , propende per la prima tesi, ritenendo possibile la commistione tra l'anima sabbatiana e quella rivoluzionaria, Nel saggio, incluso nella presente edizione, sulla Metamorfosi del messianismo eretico sabbatiano in nichilismo religioso l'autore individua il punto di possibile convergenza in un messianismo fin dall'inizio orientato in direzione rivoluzionaria e anche anarchica. Al centro della dottrina di Frank vi è la tesi, di matrice gnostica, secondo cui il mondo in cui viviamo non è stato creato da Dio, ma da un suo alter ego demoniaco alle cui leggi occorre sfuggire, infrangendole anche attraverso atteggiamenti apparentemente peccaminosi. Da qui la tesi, più tardi fatta propria da Bakunin, che «la distruzione è una forza creativa». Ciò spiega la compresenza di mistica e sovversione sul pubblico e di fede e vita dissoluta su quello privato. «I soldati della fede — sostiene Frank, sempre affascinato da immagini guerriere — non possono scegliere per quale via penetrare nella fortezza. Se necessario devono esser pronti a percorrere le fognature più immonde».
Nella sua sapiente postfazione Campanini, ricostruendo la storia del testo e anche l'ambiente in cui fu elaborato da Scholem, avanza qualche riserva sulla sua interpretazione innocentista — per un trasformista di mestiere del calibro di Moses farsi credere innocente per il prestigio proprio e degli eredi era tutt'altro che impossibile. Ciò non revoca in causa il procedimento dialettico di Scholem, teorizzato già nel 1937 nello scritto La redenzione attraverso il peccato ( edito, sempre da Adelphi, nel suo libro L'idea messianica nell'ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica ). Tale dialettica passa per il concetto antinomico di "pia colpa" o di "casta meretrix", termine rivolto al "messia femmina" Eva Frank, ma anche alla Chiesa nel suo complesso: la disattivazione della legge è l'unico modo di operare senza cedere al male prima della venuta del Messia. Un'idea non lontana dalla prospettiva paradossale di Kafka e dal pensiero di Benjamin, incrociati da Scholem anche attraverso la frequentazione di Max Brod. Ma non estranea neanche alla dialettica negativa di Adorno, che infatti teorizza la compresenza di illuminismo e mito. Tale conclusione, assunta da Scholem come chiave esplicativa della concezione sabbatiana, fu contrastata, per esempio da Jacob Taubes, come una punta avvelenata nel cuore dell'ebraismo. Se qualcuno è arrivato ad avvicinare la dottrina di Frank all'hitlerismo, Lukács ha visto nel suo nichilismo il nucleo segreto del comunismo. Ma ciò che, poco prima della morte, Scholem cercava nelle infinite metamorfosi di Moses Dobrushka era probabilmente qualcosa di più che la verità su una figura controversa. Era uno specchio deformante in cui rinvenire il tratto più estremo della propria inquietudine.
Le tre vite di Moses Dobrushka
di Gershom Scholem (Adelphi, trad.
di E. Zevi, pagg.
231, euro 22)
mercoledì 27 gennaio 2021
Roma. l’Ipogeo di Vibia
Una celebre immagine del giudizio dell’anima è contenuta nell’ipogeo di Vibia, un cimitero sotterraneo pagano, situato all’interno della seicentesca Villa Casali, sul lato sinistro della via Appia Antica. Il cimitero è costituito da otto distinti ipogei scavati a quote differenti, databile tra il III e gli inizi del V secolo d.C. ed è il luogo di sepoltura di Vincentius, sacerdote della setta del dio Sabazio, e di sua moglie Vibia. Il ciclo dipinto inizia con il ratto di Proserpina da parte di Plutone sulla quadriga. Segue l’immagine di Mercurio che accompagna i defunti agli inferi. Nel quadro centrale la defunta Vibia viene accompagnata da Alcestis e da Mercurius nuntius al giudizio finale pronunciato da due imponenti personaggi, Dispater e Aeracura , seduti su un podio. Al giudizio assistono fata divina, le tre Parche che regolano la vita degli uomini. In un’immagine successiva, Vibia, preceduta dal suo angelus bonus, attraversa la porta che la introduce nel mondo dei beati. Il ciclo si conclude con una scena di banchetto celeste tra i bonorum iudicio iudicati.
La catacomba fornisce un’importante testimonianza di come culti distinti, quelli cristiani e quelli di matrice orientale, potessero convivere nello stesso contesto funerario....
sabato 23 gennaio 2021
Il Viaggio in Egitto di Renè Guenon
Angelo Iacovella
in “Orientalia” da Secolo d’Italia di venerdì 11/02/05
Nel 1930, Rene Guénon compie un viaggio in Egitto in compagnia di Madame Dina, una ricca americana vedova dell’ingegnere egiziano Hasan Farid Dina. Lo scopo ufficiale della visita? Procurarsi rari trattati di esoterismo islamico, altrimenti irreperibili. La sua amica ritornò in Francia dopo qualche mese, mentre il grande metafisico francese decise, nello sconcerto dei più, di trattenersi al Cairo, dopo aver procrastinato più volte il viaggio di ritorno. Privo di un qualunque legame parentale in patria, si lasciò assorbire completamente dalla vita e dall’ambiente circostante, conducendo un’esistenza ritirata e dedita alla sua nuova famiglia, alle meditazioni e allo studio.
Iniziato alla confraternita Hamîdiyya Shâdhiliyya, guidata dallo sceicco Abd al-Rahmân al-Elish al-Kabîr, Guénon – stando alla testimonianza dei suoi amici e dei suoi conoscenti locali – riusciva a raggiungere, durante le cerimonie sufi, stati intensi di estasi, probabilmente grazie alla pratica dello dhikr individuale (o “menzione ripetuta del nome di Allah”) cui doveva indulgere nel suo ritiro cairota. Il professor ‘Abd al-Hamîd Mahmûd, teologo dell’università di al-Azhar, una volta recatosi con lui nella moschea del sultano Abû al-’Alâ, lo descrive con queste parole: «Avendo preso posto in un gruppo che faceva lo dhikr, René Guénon cominciò a bisbigliare fra sé e sé e a scuotersi, quindi le sue parole divennero udibili e i suoi movimenti si intensificarono; infine ecco che egli si immergeva e sprofondava completamente nello dhikr; dovetti in seguito svegliarlo finché si riscosse violentemente con un fremito; ho pensato che tornasse da contrade lontane e ignote».
Considerando la mole dei suoi studi e delle sue ricerche, i saggi dedicati specificatamente all’Islam non occupano, tutto sommato, che una fetta esigua delle monografie guénoniane. Si tratta per lo più di brevi articoli la cui ampiezza totale non supera qualche decina di pagine. Ciò nonostante, al di là della sua scelta personale, Guénon rappresenta tuttora per l’Occidente uno dei punti di riferimento più importanti per l’approccio alla cultura e alla religione islamica Questo enigma ci sembra possa essere, almeno in parte, sciolto dai numerosi riferimenti alla tradizione musulmana che si trovano disseminati nei suoi contributi sull’interpretazione dei simboli, e dei contenuti-chiave delle religioni tradizionali orientali e non, costituendo una sorta di trama sottile o di leit-motiv che ricorre e che fa da sfondo a tutte le sue trattazioni. In realtà ci sembra di poter affermare che l’influenza che egli ha esercitato e continua ad esercitare in maniera crescente sulle generazioni occidentali si possa attribuire al modo in cui per primo egli si è accostato all’Islam senza pregiudizi di sorta, esaltandone anzi la grande eredità spirituale. Sino a quel momento, la considerazione che si aveva dell’Islam in Europa era, al massimo, di carattere puramente e strettamente “culturale”, legata agli ambienti accademici ufficiali talvolta essi stessi contaminati da tesi preconcette e parziali. In alcune pagine illuminanti de L’ésoterisme islamique Guénon sintetizza in modo magistrale quelli che sono i due aspetti fondamentali dell’Islam: l’aspetto essoterico e quello esoterico (o in termini più prosaici la dottrina legalista ufficiale e la mistica via dei sufi) fornendo, al tempo stesso, la sua interpretazione personale che trovava nel secondo, e soltanto in esso, la vera giustificazione dell’essenza del primo.
«Di tutte le dottrine tradizionali, la dottrina islamica è forse quella in cui più nettamente è segnata la distinzione tra due parti complementari l’una all’altra, che si possono designare come essoterismo ed esoterismo. Esse sono, seguendo la terminologia islamica, es-shariyah, cioè letteralmente la “grande strada” comune a tutti, e el-haqîqah, cioè la “verità” interiore, riservata all’élite, non in virtù di una decisione più o meno arbitraria, ma per la natura stessa delle cose, perché non tutti possiedono l’attitudine o le “qualificazioni” richieste per pervenire alla sua conoscenza. Le si compara spesso, per esprimere il loro carattere rispettivamente “esteriore” e “interiore”, alla “scorza” e al “nocciolo” (el-qishr wa el-lobb), o ancora alla circonferenza e al suo centro. La shariyyah comprende tutto quello che il linguaggio occidentale designerebbe come propriamente “religioso”, e soprattutto l’aspetto sociale e legislativo che nell’Islam si integra essenzialmente alla religione. Si potrebbe dire che essa è prima di tutto regola d’azione, mentre la haqîqah è “conoscenza pura”; ma dev’essere ben chiaro che è questa conoscenza che dà alla shariyyah stessa il suo senso superiore e profondo, e la sua vera ragion d’essere».
Luoghi Di Potere: I Templi di Demetra in Italia
Agrigento tempio di Demetra risale al V secolo a.C.,trasformato in chiesa
Un luogo di potere è un luogo particolare sotto molteplici punti di vista: storico, naturale, emozionale, spirituale. Spesso sono luoghi dove si riesce a carpire ogni dimensione dell'esistenza interiore ed esteriore, e a sentirci certamente connessi con qualcosa che è più grande di noi. I nostri Avi costruirono in questi luoghi fisici i propri Templi. In Italia abbiamo tre luoghi di potere legati alla Dea Demetra, legata alla terra ed al ciclo stagionale; questa figura mostra la faccia della Grande Dea più vicina alla sfera agricola e naturale. Due di questi templi sono nelle nostre Isole principali, Sicilia e Sardegna, ed un altro è stato trovato pochi anni fa vicino a Viterbo.
In Sicilia il tempio si trova proprio nella valle dei Templi di Agrigento. Costruito in stile dorico nel 470 a.C. il tempio è stato inglobato nella chiesetta normanna di San Biagio. La costruzione di chiese sopra il luoghi di potere è molto frequente in Italia, e spesso gli scavi mostrano come sotto le fondazioni siano presenti luoghi di culto precedenti.
In Sardegna è conosciuto come Il tempio di Demetra e Kore, sito archeologico situato in località Bagoi, nella frazione di Terraseo del comune di Narcao, in provincia di Carbonia-Iglesias. Trovato casualmente nel 1971 è all’interno di una proprietà privata, e non viene molto valorizzato. Nel luogo sono state rinvenute numerose statuette raffiguranti Demetra velata, conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
L’ultimo Tempio di Demetra, trovato tra maggio e giugno del 2006, si trova a Vetralla in località “Macchia delle Valli” ed era completamente sconosciuto. Situato in una zona immersa in un bosco di cerri e querce, il sito archeologico ha certamente un fascino suggestivo, come molte altre zone del Viterbese, dove l’alchimia fra pietra e vegetazione crea innumerevoli suggestioni, tra cui il più noto è l’antico Sasso del Predicatore, meglio conosciuto come Piramide di Bomarzo.
Il Santuario di Vetralla era dedicato a Demetra, Vei per gli Etruschi o Cerere per i romani. E' un complesso che ha vari ambienti: all'esterno vi è una terrazza di culto da cui si compivano gli atti di libagione che dovevano disperdersi nella terra. All’interno vi è una cella piccolissima, realizzata all’esterno della grotta ed orientata secondo i punti cardinali. In un punto molto nascosto tra le pareti rupestri, è stata rinvenuta una statua della Dea in perfette condizioni. La scultura di piccole proporzioni, è seduta in trono ed abbigliata secondo la moda etrusco-italica, è un tipico prodotto ellenistico, databile alla fine del III sec. a. C
Il nostro augurio è che tutti coloro che venerano gli antichi Dei, o che comunque sono legati in qualche modo all'ambiente del paganesimo, siano i primi a prendersi cura di questi luoghi, e a farli nuovamente rivivere. Crediamo infatti che essendo patrimonio di tutti, non sia solamente compito dell'archeologia la loro manutenzione e divulgazione.
venerdì 22 gennaio 2021
La Giocondina
La Gioconda del Prado non è l'unica copia, per così dire, della Gioconda; che possiamo ribattezzare "Giocondina" perché mostra la stessa modella del dipinto parigino, ma di almeno dieci anni più giovane: Noto come "Earlier Mona Lisa" o "Isleworth Mona Lisa", questo dipinto è rimasto per quasi 40 anni in un caveau svizzero in attesa di autenticazione; finalmente, nel 2012 studiosi, scienziati e critici d’arte che l'avevano studiato nel corso degli anni, hanno decretato che non è da escludere che si tratti di un'opera autentica di Leonardo, dipinta probabilmente tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, perché i numerosi test di "geometria sacra" effettuati sul dipinto, hanno rivelato che la versione del Louvre e questa presentano la stessa struttura geometrica nelle proporzioni e nelle dimensioni, che poi è la stessa dell'uomo vitruviano. Ma nulla è certo perché i pareri, come spesso succede in questi casi, sono più che mai discordi.
FUNERALI E PROSTITUZIONE NELLA ROMA IMPERIALE
Nella Roma antica esisteva un ampio e variegato lessico per indicare le donne che esercitavano il mestiere della prostituzione.
Tra queste, forse quelle più insolite ai nostri occhi sarebbero state le "bustuariae".
Col termine "bustuariae" si indicavano le prostitute che vendevano il loro corpo presso i cimiteri.
Spesso queste erano dette anche "nucticulae", poiché praticavano la loro professione soprattutto durante le ore notturne.
Queste donne erano solitamente caratterizzate da una carnagione molto chiara e da uno sguardo spento, assente, come quello dei defunti.
Queste meretrici adescavano i loro clienti durante i funerali, dato che spesso di giorno lavoravano come prefiche - ovvero quelle donne che, dietro compenso, prendevano parte alle cerimonie funebri con canti e lamenti in onore del defunto.
Era proprio durante questi cortei funebri, che le donne circuivano i loro clienti, spesso vedovi recenti.
Il rapporto veniva poi consumato sulla nuda terra della sepoltura, o nei cimiteri.
Sembra che le bustuariae inoltre, durante l'amplesso, ricordassero proprio dei cadaveri. Assecondavano inoltre qualunque fantasia del cliente, come l’esser chiamate, durante l’atto sessuale, col nome della moglie defunta!
Alcune di queste meretrici sono citate anche da famosi autori latini, come Marziale, Giovenale, Catullo.
Di alcune bustuariae sappiamo anche i nomi.
La più famosa fu sicuramente Licia, la quale contava tra i suoi clienti anche uomini illustri della società romana.
Un’altra è una donna al limite del leggendario: Nuctina.
Pare che si facesse pagare con due monete d’oro e che, dopo l’amplesso, si coricasse in una fossa, e si ponesse i soldi sulle palpebre.
-Bibula
mercoledì 20 gennaio 2021
Il sarcofago di Melfi
Il Sarcofago di Melfi
Il Sarcofago di Melfi o Sarcofago di Rapolla è un monumento funerario di età antonina custodito nel Museo archeologico nazionale del Melfese.
Il monumento funebre fu rinvenuto casualmente nel 1856 durante gli scavi realizzati dall'amministrazione borbonica per la costruzione di una strada tra Melfi e Venosa in località Contrada Albero in Piano nell'agro di Rapolla. Esso era collocato in un sepolcro in muratura all'interno del quale era poggiato su un basamento addossato ad una delle pareti. Una delle facciate dei lati lunghi della cassa non era quindi visibile: si tratta di una circostanza che resta inspiegata. I sarcofagi destinati ad essere addossati al muro infatti non avevano decorazione sul lato posteriore, mentre quello di Melfi è riccamente istoriato su tutti i lati
Rimosso dal luogo di ritrovamento, il sarcofago venne portato a Melfi con l'iniziale proposito di destinarlo definitivamente al Museo Borbonico di Napoli. Quest'ultimo trasferimento non ebbe mai luogo e il monumento funebre rimase a Melfi dove ebbe nel tempo diverse collocazioni per essere infine conservato nel museo archeologico ospitato nell'insigne castello normanno-svevo della città.
Una delle testimonianze più vivide dell’età imperiale romana del II secolo d.C., accoglie il visitatore all’interno del castello Normanno-Svevo della di Città di Melfi. E’ proprio qui che nel 1231 Federico II di Svevia promulgò le Costitutiones Augustales, il codice legislativo del Regno di Sicilia.
Il monumento funebre, dedicato alla memoria di Emilia Scauro, figlia di un patrizio Romano, fu rinvenuto nel 1856 lungo il percorso della Via Appia, nel territorio di Rapolla, vicino i resti di una villa Romana. Il sarcofago, dalla colorazione candida e dalla imponente bellezza classica, è giunto ai nostri giorni in ottimo stato conservativo. Sul Kline vi è adagiata la statua della giovane defunta, reclinata su di un fianco, con ai suoi piedi i resti delle zampe di un cane a simboleggiare la fedeltà, immagine che riporta alla memoria Jacopo della Quercia ed il suo monumento funebre a Ilaria del Carretto. Interessante è l’acconciatura dei capelli della donna, ordinati e raccolti in forma ondulata, tipico costume dell’epoca.
Al di sotto del letto marmoreo vi è riprodotto un colonnato in stile corinzio, formato da edicole nelle quali sono presenti, in tutto lo splendore classico, eroi e protagonisti della guerra di Troia. Ritroviamo così quindici statue, rispettivamente cinque nei lati lunghi, tre nel lato breve sinistro e due sul lato breve destro, con al centro riprodotta la porta dell’Ade a simboleggiare il passaggio tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Nel lato sinistro si possono ammirare le statue di Elena, Ulisse e Diomede a ricordare verosimilmente l’episodio del ratto del palladio nella guerra di Troia.
venerdì 15 gennaio 2021
l'AvorioBarberini,
Un dittico bizantino del VI secolo che rappresenta Giustiniano, oggi al Louvre.
Avorio di elefante , il dittico era originariamente decorato con pietre preziose. Soltanto sette sono le perle rimaste ancora oggi. Sulla placca centrale è raffigurato il tema portante dell’opera, un imperatore a cavallo dalla non facile identificazione, mentre nella fascia inferiore una schiera di personaggi che recano doni. Sul rovescio della tavoletta, che si presenta piatto e liscio, vi sono delle striature incise sopra le scritte in inchiostro che recitano una preghiera per i defunti.
Il dittico arrivò in Gallia già intorno al 613, ma dell’opera non si hanno notizie fino al 1625 quando l’avorio venne offerto da Nicolas-Claude Fabri de Peiresc al legato Francesco Barberini ad Aix-en-Provence. Quindi, il dittico entrò nella collezione Barberini a Roma. L’opera venne, poi, acquisita dal Louvre nel 1899 dove tuttora è conservata
La potenza della parola
Moriremo di parole scritte,
dimenticandoci come si fa
a pronunciarle.
H. Offman
giovedì 14 gennaio 2021
lunedì 11 gennaio 2021
L'ESICASMO E LA PREGHIERA DEL CUORE
Parliamo della preghiera del cuore e delle tecniche che le sono associate. L'utilità di quanto andiamo a esporre è nella sua messa in pratica; la preghiera è vecchia come il mondo e la sua efficacia è indiscutibile. "Gli egiziani raffigurano il cielo, che non può invecchiare poiché è eterno, con un cuore posato su un braciere la cui fiamma alimenta il suo ardore...." (Plutarco: Iside e Osiride). L'oriente cristiano, come l'induismo, possiede il proprio yoga, una tecnica mistica di unione al Verbo Divino attraverso la preghiera, preghiera perpetuamente ininterrotta, come il respiro o il ritmo cardiaco. - Viene chiamata la "Preghiera del cuore" ed è la vera "Via Cardiaca". Non è una semplice e banale sensibilità ma, al contrario, esige una padronanza speciale, una tecnica della preghiera, una scienza spirituale alla quale i monaci si consacrano completamente. Il metodo della preghiera interiore o spirituale conosciuta sotto il nome di "Esicasmo" (dal nome di San Esichio del Sinai del VIII secolo) appartiene alla tradizione ascetica della Chiesa d'Oriente e risale all'antichità. Si trasmette oralmente da maestro a discepolo, con l'esempio e la direzione spirituale, come in India o in Tibet. Questa disciplina fu messa per iscritto all'inizio del secolo XI ma si trovano tracce di essa presso i grandi mistici del III secolo e in alcuni testi dove certi attributi del Cristo sono legati alla teoria dei Nomi Divini o Nomi di Potere/Potenza della Cabala. Già San Giovanni Crisostomo ci dice che: "Perché il Nome del nostro Signore Gesù Cristo discenda nel profondo del tuo cuore, e perché vi vinca il dragone che vi devasta i pascoli, e inoltre salvi l'anima e la vivifichi, aggrappati senza cessa al Nome del Signore Gesù affinché il tuo cuore beva il Signore e il Signore il tuo cuore, e che così i due divengano una cosa sola...." Come possiamo osservare, nell'Esicasmo, per realizzare l'unione divina luminosa, collaborano indissolubilmente la Grazia essenziale di Dio e la tecnica psicologica umana. Vediamo le regole generali di questa tecnica. L'Esicasta pratica questo tipo di operazione all'ora del tramonto (ora canonica dei Vespri) dalle ore 18 alle ore 21 solari, nella sua cella silenziosa e oscura. Alcuni testi dicono di pregare seduti. E la tradizione cristiana orientale indica invariabilmente l'orante rivolto a Est dove deve essere tracciata, sul muro una croce Non si fa cenno a fumigazioni effettuate nella cella, ma si ritiene che queste possano aiutare lo sviluppo del misticismo, a condizione che l'incenso sia stato sacralizzato. Nella tradizione dell'Oriente cristiano, le Icone riflettono il principio dell'Incarnazione delle "Sante Immagini" dall'alto nel nostro mondo imperfetto. Sono insomma gli Archetipi Divini che vengono materializzate seguendo un metodo estremamente occulto oltre che elevato. Innanzitutto, l'Icona deve riflettere solo immagini di pace e di luce: la Madonna e il Bambino, la Natività, l'Ascensione, i Grandi Arcangeli (Michael, Gabriele, Raffaele) o i Santi. L'Icona non deve mai materializzare (ho usato di proposito il verbo materializzare e non rappresentare) immagini di sofferenza, di dolore o di punizione. I monaci ai quali è affidato il compito di realizzarle, devono lavorare a digiuno, in stato di grazia, in ginocchio e a certe ore canoniche. Le dipingono su pannelli di legno ponendo successivamente degli strati di pittura speciale, le cui formulazioni risalgono ai primi secoli, contenente elementi minerali, vegetali ed animali. Il monaco associa dunque i tre regni a questa incarnazione salvatrice, del divino. Associa a questa ascesa purificatrice la natura intera, decaduta per colpa del primo uomo. Una volta stesi gli strati di pittura, dipinge il soggetto dell'icona, inserendovi quanto più oro possibile. L'icona deve essere di forma scavata affinché "la terra rifletta l'impronta del Cielo" secondo la tradizione. L'icona viene poi benedetta con una formula speciale, con fumigazioni abbondanti e frequenti di incenso, ponendo attorno ad essa o davanti ad essa, delle piccole luci: lumini a olio (rossi) o ceri di cera di api. La "Preghiera del cuore" deve, in effetti, essere una "adorazione" e non una domanda, secondo la regola secolare. Viene poi la recita del mantra. Per l'esicasta consiste nel pronunciare interiormente la seguente immutabile formula: "KYRIE ISSU CHRISTE IE THEU ELEISON IMAS AMARTANON" cioè "SIGNORE GESÙ CRISTO, FIGLIO DI DIO, ABBI PIETÀ DI ME PECCATORE" Le liturgie orientali e latine fanno uso frequente della formula: "Kyrie eleison ... Christe Eleison" e le vibrazioni sonore sono vicinissime le une alle altre nella formula cristiana. Prima di cominciare, l'esicasta dovrà meditare sulla morte, l'umiliazione di sé, la visione (naturalmente esoterica) del Giudizio finale con il quale ha termine la creazione presente e alla quale seguirà l'Eone futuro. Mediterà sulla "ricompensa", che è la fissazione delle anime attraverso il Fuoco- Principio, Fuoco che in qualche modo le immerge. Fissazione che può essere buona o malvagia, che deriva dal giudizio di tutte le creature, uomini o Angeli. Dovrà prendere coscienza di essere il più corrotto di tutti gli uomini, più malvagio degli stessi spiriti malvagi e, di conseguenza, di meritare il rigetto finale. Da questo stato d'animo interiore devono nascere la contrizione, la tristezza e le lacrime. Se questo stato di "trasmutazione" dell'essere interiore, analogo alla "putrefazione" alchemica, è raggiunto, l'esicasta deve rimanervi fino a quando questo stato scompare naturalmente. Ma se l'anima è rimasta insensibile a questa preparazione, la tradizione dell'esicasmo consiglia di pregare per ottenerlo, come una grazia. Faccio notare che non si tratta affatto di fare dell'esicasta un pessimista, un disperato. Al contrario, la regola afferma che deve vivere allegro, di buonumore e felice di sentirsi sulla buona via. Ma questa "putrefazione" deve essere raggiunta fin dal momento in cui si comincia gli esercizi. Il rosario serve a ritmare, a verificare il numero e lo svolgimento delle litanie del mantra. È consigliato un rosario composto da otto serie di otto grani (in ricordo delle otto beatitudini) separate ognuna da un grano più grosso, per un totale quindi di 72 grani (in ricordo dei 72 nomi divini della Shemamphorash). Per ognuno dei 64 grani ordinari si potrà usare la formula breve: KYRIE ISSU CHRISTE IE THEU ELEISON e pronunciare per gli otto grani che separano le serie, la formula lunga: KYRIE ISSU CHRISTE IE THEU ELEISON IMAS AMARTANON. La respirazione deve essere regolare, ritmata dalla formula che deve essere pronunciata durante la aspirazione, aspirazione effettuata unicamente attraverso il naso, e la recitazione è puramente interiore, mai verbale. L'esicasta respinge ogni desiderio di prodigio, fugge i poteri psichici, come mezzi usati dalle entità inferiori per distoglierlo dal suo cammino spirituale. Riporto quanto diceva un esicasta dei primi secoli: "Volendo contemplare la faccia del Padre Celeste, non sforzarti di vedere durante la tua preghiera qualche immagine o figura ... Fuggi il desiderio di vedere sotto una forma sensibile gli Angeli, le Potenze o il Cristo. Altrimenti rischi di sprofondare nella follia, di prendere il lupo per il pastore e di adorare i demoni al posto di Dio ... L 'inizio dell'errore è nel desiderio dello spirito di percepire la Divinità in una immagine o in una figura". Questa tecnica è spesso concomitante con grandi tentazioni, infestazioni, ossessioni e apparizioni demoniache. Colui che nel corso delle evocazione magiche sarà riuscito a vedere il mondo demoniaco e, senza esserne posseduto, sarà rimasto padrone di sé stesso, avrà la propria fede confermata per sempre. Abbiamo visto che la litania, il mantra, comporta otto parole in greco (formula completa) e sei parole solo nella formula abbreviata. La formula è pronunciata, lo ripeto, interiormente, durante la aspirazione visualizzando la formula, come veicolata con l'aria ispirata, discendere nel nostro cuore con l'immagine del Cristo. Se facciamo il raffronto con lo yoga tantrico, dove si parla di un "Loto del cuore", vediamo quanto esicasmo e yoga siano vicini. I rari documenti dell'esicasmo non fanno cenno alcuno alle fumigazioni: queste fanno parte delle istruzioni orali passate da maestro a novizio. È infatti evidente che l'aria elementare, quella che noi respiriamo, è molto impura. Sappiamo dalla tradizione cristiana (San Paolo, Lettera agli Efesini) che l'atmosfera è l'habitat del mondo demoniaco. Ecco quindi la necessità di purificarla con una fumigazione, la cui formula di sacralizzazione sia un corto ma efficace esorcismo. Sul risveglio di quello che il tantrismo chiama la Kundalini, una specie di energia psichica di natura ignea e che tutti i trattati affermano essere pericolosa da maneggiare, anzi addirittura mortale se non si è guidati da un vero maestro, le scritture giudeo-cristiane affermano: "L'eterno tuo Dio è un fuoco divorante" Deuteronomio IV, 24 "La mia parola è come un fuoco" Geremia XXIII, 29 "Farò uscire dalle tue viscere un fuoco che ti divorerà ... Tutti voi avete, acceso in voi, un fuoco che vi brucia, voi siete avvolti da fiamme. Camminate nella luce di questo fuoco che avete preparato, nelle fiamme che avete acceso... "Isaia L, 2 "Il fuoco che esce dall'uomo che contempla, lo divora" Hekhalot Rabbati III,4 Vi è in effetti un duplice aspetto di questo Fuoco. Sappiamo che il Tempio di Salomone, replica del Tabernacolo, fu realizzato da Salomone secondo i disegni ricevuti attraverso David, suo padre, dalle mani del profeta Nathan, depositano dell' esoterismo di Israele. Sappiamo che il Tempio fu costruito a immagine di Dio, dell'uomo e dell'universo e che studiano significa studiare l'uno e l'altro. Vi erano due Altari sui quali bruciavano due fuochi differenti: uno era l'Altare dei Profumi, sul quale, all'alba, a mezzogiorno e alla sera, veniva offerto a Dio dell'incenso di adorazione e di lodi. L'altro Altare, era l'Altare dei Sacrifici, sul quale i sacrificanti offrivano le vittime consacrate. L'Altare dei Profumi è l'immagine del nostro cuore, delle nostre buone azioni. L'Altare dei Sacrifici è la immagine del nostro cervello e del sacrificio che dobbiamo fare delle nostre passioni, rappresentate dagli animali. Ognuno dei cinque oggetti consacrati: l'Arca dell'Alleanza, il Candeliere a sette braccia, l'Altare dei Profumi, l'Altare dei Sacrifici e il Mare di Rame, corrisponde a uno dei nostri centri psichici essenziali nel tempio interiore che portiamo in noi. Da qui le parole del rosacrociano Robert Fludd: "Quando il Tempio sarà consacrato, le sue pietre morte ritorneranno viventi, il metallo impuro sarà trasmutato in oro e l'uomo riscoprirà il suo stato primitivo".
Gastone Ventura (Aldebaran) : La Via Cardiaca.
domenica 10 gennaio 2021
Heidegger, il Nulla e la Kabbalah
venerdì 29 aprile 2016
Dopo il furore iconoclasta che ha investito l’idolo Heidegger nel corso degli ultimi anni, in occasione della prima pubblicazione dei suoi Quaderni neri, da qualche tempo non ci sono che alcune sparute fiammate, perlopiù in difesa del filosofo tedesco, in attesa forse di un prossimo secondo round quando saranno pubblicati gli altri volumi.
Nel frattempo vale forse la pena dare un’occhiata da vicino ad un particolare affermazione che la filosofa Donatella Di Cesare ha ritenuto di dover fare, e che appare piuttosto spericolata, sottolineando una “convergenza tra il pensiero di Heidegger e la mistica ebraica” a proposito del concetto di Nulla.
La filosofa romana, a lungo vicepresidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, società di studi intitolata al filosofo tedesco, a pagina 218 del suo Heidegger e gli ebrei scrive: «Lungi dall’essere un oggetto, o un ente qualsiasi, il niente è “ciò che rende possibile” l’ente per l’esserci umano. È dal ni-ente che l’ente di volta in volta emerge (...) Ma non è incauto pensare un tale intreccio? A ben guardare, ancor più incauto è mettere per tal via in dubbio l’antico assioma metafisico ex nihili nihil fit, dal nulla non viene nulla».
Ed è qui che, secondo Di Cesare, «Heidegger non esita a rovesciare addirittura questo assioma: dal nulla viene ogni ente».
I greci in effetti non hanno mai accennato alla “creatio ex nihilo” che noi moderni diamo per scontata come indiscutibile pensiero dogmatico circa la creazione, che appartiene oggi alla tradizione religiosa di tutti e tre i monoteismi.
Loro piuttosto, i greci, «hanno sempre immaginato un caos primordiale che viene ordinato in un kósmos, che prende dunque forma».
Ma, aggiunge la filosofa con un sorprendente coup de théâtre, «l’eccezione è la Kabbalah. Sono stati i kabbalisti a scorgere tra le falde silenziose della creazione il baratro oscuro del nulla (...) Non si può, dunque, non constatare questa sorprendente convergenza, nel nulla, e nella creazione dal nulla, tra Heidegger e la Kabbalah». Cioè tra il filosofo nazista e la mistica dell’ebraismo spagnolo del XII-XIII secolo.
E sono ancora i kabbalisti a ricordare come «Aìn [ciò che non è] si volge in Anì [ciò che è], dal nulla l’Io» e che, temerari, «spingono il nulla fino a Dio, il nulla è Dio stesso nel suo aspetto più nascosto». Con questa frase davvero apodittica si avvia a conclusione il terzo capitolo - “La questione dell’Essere e la questione ebraica” - che è il più corposo del suo libro.
È però proprio il punto forte del ragionamento della filosofa romana - il pensiero greco sarebbe confutato in primis da quello kabbalista che introdurrebbe il Nulla nella storia del pensiero - che lascia perplessi.
Perché ampiamente contraddetto dai tanti e articolati saggi “sul Nulla” oggi esistenti.
Basta citarne un paio - Storia del nulla di Sergio Givone o Da zero a infinito. La grande storia del nulla di J. D. Barrow - per venire a sapere che la creatio ex nihilo, cioè l’idea di un Nulla originario da cui deriverebbe tutto il creato (e quindi l’essere) fu il parto delle infinite discussioni fra teologi e gnostici cristiani del II secolo e che questo stesso ambiente originò, un paio di secoli più tardi, quella particolare riflessione sull’essenza di Dio conosciuta come “teologia negativa” (Dio è ineffabile e non può quindi essere descritto per ciò che è, ma solo per ciò che non è). Qualche secolo dopo essa si concretizzò nella speculazione mistica che identificava Dio con il Nulla stesso, diffusa sia nel mondo cristiano che in quello islamico.
Solo a partire dal X secolo l’idea di “creazione dal nulla” fu accolta nella teologia ebraica e solo con il XII secolo l’idea, effettivamente temeraria, che identificava Dio con il Nulla veniva fatta propria dalla Kabbalah.
Il demerito (ma c’è il sospetto che per Di Cesare sia un merito) della mistica ebraica sarebbe quindi di aver veicolato nella cultura occidentale una sorta di vuoto originario, concetto che nasce invece altrove e da lì si dispiega poi in tutto il mondo allora conosciuto (eccezion fatta per l’Estremo Oriente che percorreva sentieri diversi, ma non così dissimili) grazie alle culture dominanti, non certo per uno sparuto gruppetto di mistici giudeo-spagnoli.
La Kabbalah, se mai ha avuto quello che a noi appare realmente come un merito, è stato di rifiutare esplicitamente l’ascetismo tipico della mistica cristiana per proporre come elemento fondamentale della realizzazione umana il rapporto uomo-donna («Un uomo non può essere definito uomo fino a che non è “uno” con la donna»). Una particolarità messa in evidenza da tutti gli studiosi specialisti, che caratterizza quindi la Kabbalah per un aspetto, il rapporto uomo-donna nella sua realtà carnale, non allegorica, che ben difficilmente può aver a che fare con un “nulla” ontologico interpretabile come incolmabile mancanza originaria, una specie di “peccato originale” in salsa giudaica.
Da qui la perplessità, come abbiamo detto, verso l’assunto della filosofa romana; ci si chiede perché abbia voluto tracciare una linea di connessione tra il filosofo tedesco, antisemita e nazista - lei stessa lo definisce così a chiare lettere - e la mistica ebraica e non, piuttosto, con la ben più diffusa tradizione islamica o con quella cristiana, cui accenna solo in una noterella a margine in cui ricorda il grande mistico tedesco del XIII secolo, Meister Eckhart, di cui Heidegger era appassionato studioso.
È noto che la filosofa romana ha dato una controversa definizione del pensiero di Heidegger, riassumendo così il risultato della sua esplorazione dei Quaderni neri: «Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale». Giustamente la filosofa Roberta De Monticelli si è chiesta: «ma che cosa ci sarà di così “elevato”?».
Finale caustico, ma condivisibile.
Se per Donatella Di Cesare il pensiero di Heidegger è “il più elevato” viene il dubbio che lei abbia denunciato apertamente l’antisemitismo del Maestro in omaggio alle proprie origini ebraiche, ma che, nello stesso tempo, ne volesse in qualche modo salvaguardare la filosofia agli occhi del mondo ebraico stesso, nonostante gli strali, numerosi e parecchio pungenti, che le sono piovuti addosso proprio da quel mondo, allibito e forse intimamente ferito dalla sua sostanziale difesa del filosofo di punta del III Reich.
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