Renzo Rossotti
Da Abstracta n° 7 (settembre 1986)
John Anster Fitzgerald, Fairies Looking Through A Gothic Arch (1864)
«...e poco prima che inizi il Duemila, le fate muteranno il
linguaggio e si esprimeranno in suoni "compositi", come facevano già
millenni addietro. Useranno cioè parole costruite insieme per esprimere
un concetto».
Cosi scriveva il reverendo Robert Kirk, scomparso nel 1692, dopo essere
stato pastore di anime in Gran Bretagna, ad Aber-foyle e a Balquedder.
Fu uno dei "grandi investigatori" del mondo delle fate, del Sleagh Maith,
definizione ampia che racchiude tutto il "piccolo mondo"
dell'invisibile. Kirk, dunque, era convinto che le fate si sarebbero
espresse con la "portmanteauword", un vocabolo britannico entrato
nell'uso per indicare un termine composito, una
parola-baule che ne comprende molte altre, per capirci.
Che cosa sono le fate? Questo interrogativo riappare anche nel libro di Anthony Burgess La fine della storia e l'autore fa dire a uno dei personaggi la risposta che ha in mente: «Un qualcosa nel cervello che ti fa dire le bugie».
Qualcosa di psicologicamente simile a un "leprechaun". folletto
malizioso del folclore irlandese. Diciamo una "fata-morgana magica",
esoterica, inesprimibile per chi non ci crede, come è inafferrabile. Le
fate c'introducono nel mondo delle fiabe e ne spiegano il linguaggio che
è già loro, forgiato spesso, se si va oltre il significato immediato
del racconto, proprio su questo lessico-enigma, in un gioco di parole
che pare costruito per iniziati. Che cosa si nasconde in una fiaba? Che
cosa vogliono dire Cappuccetto Rosso e Il gatto con gli stivali?
A produrre - non involontariamente è presumibile – il significato arcano
delle favole, basato su simbolismi, su raffigurazioni "folli" soltanto
in apparenza, fu Charles Dodgson, più noto come Lewis Carrol. Scrisse,
per divertire alcune bambine che gli erano care, favole stravaganti,
arricchendole di contenuti misteriosi. Così è possibile asserire che le
avventure di Alice nel paese delle meraviglie oppure Attraverso lo specchio,
rappresentano qualche cosa di enigmatico che può con tranquillità
essere paragonato alle pagine di Joyce. Carrol, se non ne è addirittura
l'inventore, certamente è un gran consumatore di "parole-baule" o di
"parole-valigia", quel modo cioè di creare vocaboli, sfornare
neologismi, inventare parole che gli anglosassoni hanno chiamato,
dicevamo "portmanteauword".
È attraverso questo "materiale", a tali vocaboli, che si entra nella
dimensione "fatata", ossia nel mondo delle fate dove vigono leggi
diverse dalle nostre. Ha osservato Pietro Citati, proprio parlando di
Alice che "di là" «non esiste il Peso, né il Numero, e la tavola
pitagorica impazzisce. L'"io", del quale noi siamo tanto fieri, si
perde, insieme a quel supremo simbolo della identità che è la memoria.
Tutto viene rovesciato. Per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le
spalle: per restare fermi, dobbiamo correre; per arrivare in un punto,
dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all'indietro, prima il
futuro, quindi il presente, infine il passato». Questo il mondo trasfigurato di Alice. E quello delle fate è il medesimo. [...].
La lingua non combacia - e non deve necessariamente combaciare - con la
realtà. Questo Carrol lo intese subito e sfruttò le capacità di
trasformazione del linguaggio espressivo. Fra la "cosa", ad esempio una
pietra o un pezzo di pane, e il vocabolo per dire, per definire questa
"cosa", c'è un abisso incolmabile e lo scrittore giocò appunto sulla
dissonanza tra l'oggetto e la parola.
«Giacché la lingua è arbitraria -per richiamare ancora un commento di Citati - egli
poteva desumere dai suoni che ne formano la superficie un universo del
tutto differente dal nostro. Bastava rispettare la lingua, come noi non
facciamo... Così, per esempio, se in inglese i rami si pronunciano "bau
", essi abbaieranno "dietro lo specchio " e i fiori sonnecchieranno
pigramente perché aiuola vale, in inglese, come "letto di fori"...»
Henry Meynell Rheam, Il bosco delle Fate (1903)
Da questo intrecciarsi di suoni, giochi di parole, nasce molto del
significato della fiaba, il suo meccanismo con gli eterni personaggi.
Peccato che si sia perso - che si trattò d'una edizione limitata a poche
copie - un libretto stampato dall'editore Delachaux a Parigi nel 1949,
intitolato appunto Le symbolisme des contes de fées, scritto da
M. Loeffler. Un lavoro gustoso che sottolineava i tre significati
essenziali di una fiaba: uno profano, uno sacro e uno riservato agli
iniziati. Secondo Loeffler, i vecchi re fiabeschi rappresentano la
"memoria del mondo", cioè l'inconscio universale. Le loro figlie,
sposando giovani e valorosi principi, costituiscono un frammento
dell'inconscio che "passa nella coscienza". Per spiegare i carri alati e
le carrozze fatate, occorre riandare a credenze cabalistiche anteriori
al Cristianesimo. Pollicino, secondo Loeffler, è l'espressione della
"coscienza assoluta" e, addirittura, del "corpo astrale". I suoi
fratelli incarnano qualità e facoltà dell'uomo. Siamo a un passo
dall'esoterismo e la fiaba, una qualsiasi, si scolora in una filosofia
misteriosofica.
Su questa scia ebbero influsso evidente Perrault e i Grimm. L'impronta
pedagogica che i due fratelli riuscirono a dare alle fiabe ha fatto
presa in misura maggiore, come forza di linguaggio e di persuasione, di
quanta ve ne sia in Perrault. Sarebbe del resto impossibile non riandare
al tessuto fantastico e ricco di significati, quasi da esserne
traboccante, del Peter Pan di J. M. Barrie, considerato un
capolavoro a tutti gli effetti, comunque ci si voglia porre davanti al
fatto raccontato. Il lettore non può non sentirsi proiettato in una
dimensione che supera di certo i confini della letteratura infantile. Il
"sogno" di Barrie può far discutere quanto la sciarada di Lewis Carrol.
Entrambi si servirono del "codice cifrato delle fate". Dopo la discesa
sulla Luna, dopo la catastrofe del Challanger , l'uomo medita
sulla soglia dello spazio e si pone le domande di sempre. C'è chi
sostiene, disposto a giurarlo, che la contrapposizione tra i blocchi, la
guerra di potenza, lo scontro bene-male, è in realtà la ripetizione
millenaria e alchemica della spartizione di ciò che vediamo fra luce e
non-luce. Diciamolo pure, lotta fra fate e streghe, anche sotto la
minaccia dei missili, con la prospettiva di una rovina totale.
L' archeologia "fatata" non è solo di ieri. Da sempre si rinnova con
sciarade sorprendenti fatte di luci e di suoni. Al termine del suo
ponderoso saggio La vie et la mort des fées non scrisse forse
Lucie Félix-Faure-Goyau che le fate ci accompagnano nel cammino e quasi
«cadenzano il nostro divenire»? Ecco perché il loro linguaggio di ieri
appartiene al più immediato futuro.
Stralcio dall'articolo di Renzo Rossotti Il linguaggio delle fate
pubblicato su Abstracta n° 7, settembre 1986 (Stile Regina Editrice)
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