venerdì 31 luglio 2015

Si restaura un'opera di Sironi, presso la Sapienza di Roma dopo , dopo un intervento devastante nel primo dopoguerra

 Risultati immagini per Affresco di mario sironi nell'aula magna della sapienza roma

Il murale del 1935 L’Italia fra le Arti e le Scienze, che copre l’intero catino absidale dell’Aula Magna, oggi non è più quello pensato ed eseguito da Sironi. Dopo la guerra venne brutalizzato da un intervento ipocrita. Braccio esecutivo di questa operazione di 'bonifica', il pittore Carlo Siviero che, cancellati i simboli del regime presenti nel murale, proseguì a ritoccare a suo gusto le ieratiche figure dell’opera. Il risultato, oltre a negare (anche giuridicamente) l’autografia dell’opera sironiana è deturpante.


 “L'Italia tra le Arti e le Scienze” è il titolo dell'affresco che il pittore sassarese Mario Sironi dipinse nel 1935, su incarico di Benito Mussolini. Dopo la guerra venne brutalizzato da un intervento ipocrita, gestito dallo stesso Marcello Piacentini subito diventato membro della commissione d’epurazione di quegli stessi simboli littori che aveva provveduto a 


http://notizie.admaioramedia.it/roma-dopo-80-anni-si-restaura-nella-citta-universitaria-laffresco-defascistizzato-del-pittore-sassarese-sironi-in-quale-versione/

La biografia volutamente alterata di San Francesco

Andrea Armati - Le stimmate dello
sciamano
Andrea Armati
Le stimmate dello sciamano. Il mito di san Francesco tra sangue e magia
Eleusi Edizioni 2010, p. 271, euro 18,00
ISBN 978-88-903884-2-2
Questo libro è costituito da una raccolta di articoli che approfondiscono alcune questioni riguardanti san Francesco e che segna la continuità col precedente: 

Lo stregone di Assisi di Andrea Armati .
Testo che continua gli  studi su questa figura ritenuta intoccabile, scrostandone ancora di più la patina di purezza e semplicità diffusa dalla tradizione e accettata acriticamente. Lo stile si fa ancora più ironico e impertinente, ed è sentita anche la polemica anti-accademica che porta avanti l’autore, rivolta ai molti studiosi mainstream che hanno perpetuato un vero e proprio «insabbiamento» della vita di san Francesco, «per non tradire le attese di un pubblico confessionale».
Il tono non deve lasciar supporre che questo lavoro sia semplicemente un attacco anticlericale irriverente e superficiale, perché anzi l’autore scava con attenzione proprio le fonti francescane, traendone aneddoti e indizi tanto succosi quanto imbarazzanti e rivelatori, tali da inquadrare il personaggio sotto una luce ben più umana, forse troppo, nonostante la scientifica opera di distruzione delle fonti non allineate da parte della Chiesa e la diffusione di una versione «canonica» (appunto!) della vita del santo.
Questione di un certo rilievo è quella delle stimmate, «prodigio» inizialmente visto con una malcelata diffidenza (dalla curia e dai domenicani, concorrenti dei francescani), ma poi riconosciuto dalla Chiesa, anche per venire incontro alla religiosità popolare. La Verna, il luogo ameno dove il santo avrebbe ricevuto le stimmate, si rivela in realtà un santuario fulcro di riti pagani di cui al tempo di Francesco ancora rimanevano tracce e che egli cerca di estirpare - o quantomeno di diluire e reinterpretare in senso cristiano. Tanto che dopo il prodigio presso La Verna, che l’autore non esita ad accostare ad un vero e proprio rituale di iniziazione sciamanica con tanto di estasi e ferite auto-inflitte (le stimmate, appunto), Francesco viene riconosciuto come uno «stregone» dalle genti del contado che, nonostante la diffusione del cristianesimo, ancora sono profondamente imbevute di simbologie paganeggianti. Così la tradizione ci parla di magie per purificare le acque e la terra, guarire gli animali, di divinazioni sui testi sacri, di comunicazione con gli animali (gli episodi di prediche agli uccelli andrebbero inquadrati infatti in questo contesto, piuttosto che come vago animalismo ante litteram): per la cronaca, tutte pratiche ritenute stregonesche, avversate per secoli dalla Chiesa e passibili di scomunica.
La predicazione di Francesco d’altra parte non è esente da motivazioni politiche: si veda ad esempio il caso di Narni, cittadina con velleità autonomiste rispetto al papa, teatro di una sospetto iperattività dei francescani. Le gesta di Francesco rivelano - al contrario della retorica mitizzante delle salde radici cristiane - che in larghe aree extra-urbane rimanevano, anche nel Medioevo inoltrato, radicate tradizioni pagane, sulle quali era necessario avviare vere e proprie campagne di ri-evangelizzazione. Lo stesso Francesco, appropriandosi di tradizioni precedenti e reinterpretandole in senso cristiano, con un «compromesso magico» riuscirà dove i benedettini (dediti invece alla sistematica distruzione di boschi sacri e santuari antichi) avevano fallito. L’autore arricchisce le sue ricostruzioni con i resoconti delle visite sul campo, con un esplicito piglio da «detective» provocatoriamente in contrasto con l’approccio accademico, accompagnandoci nei luoghi simbolo della predicazione francescana tra Rieti e Terni (come La Verna e Greccio - luogo dove verrà imbastito un presepe paganeggiante) per svelarne i misteri e gli aspetti meno noti e controversi. Altro capitolo sul quale indaga Armati è il rapporto tra Francesco e santa Chiara: al di là delle rappresentazioni idilliache, tra i due esiste una strisciante concorrenza alimentata anche dalla nota misoginia del santo, con tentativi di Chiara di rendersi indipendente dalla tutela di Francesco e di ingraziarsi il papa. D’altra parte, Francesco contrasterà con una durezza che male si accorda alla sua tanto proclamata mitezza le spinte alternative presenti tra i suoi confratelli per mantenere la leadership, cercando il sostegno dell’alto clero.
Altro mito da ridimensionare è quello della povertà francescana: indagando le fonti si nota come invece il movimento di Francesco avesse una non trascurabile disponibilità di mezzi, che ne permetteva le attività (tanto che la povertà dei predicatori, chiosa l’autore, all’epoca era di fatto «un lusso»), grazie a supportersdi rilievo.
Quella che emerge è la figura di un santo scaltro e a suo modo geniale, che vive di contraddizioni, di luci ed ombre, «un uomo in carne ed ossa, non un ectoplasma traslucido o un ologramma spiritato, ma un personaggio storico a tutto tondo», che da un lato si fa portatore di un populismo che coglie il cambiamento dalla società feudale a quella borghese e dall’altro si sottomette alla Chiesa e alla nobiltà portando avanti una «rivoluzione solo apparente» in campo dottrinale; che esalta povertà e astinenza, ma non disdegna affatto il sostegno dei ricchi e dei potenti; che mischia nella sua predicazione - sempre sul filo del rasoio e della scomunica - elementi pagani e cristiani. Il tutto, ovviamente, sempre ad maiorem Dei (et Ecclesiae) gloriam.

Valentino Salvatore
Marzo 2010

Morti in prescrizione

Marlene, la fabbrica della morte

Dal Mattino di Padova
Oltre cento tra malati e deceduti nella tintoria di Praia a Mare
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Oltre un centinaio di operai malati e deceduti per inalazione di sostanze tossiche e amianto e danni ambientali per sversamento ed interramento illeciti di rifiuti pericolosi. È attesa per il 7 ottobre, dopo due slittamenti, la prima udienza del processo che vede come imputati tredici dirigenti dell'ex stabilimento Marlane di Praia a Mare, nel litorale cosentino, rinviati a giudizio il 12 novembre scorso. Omicidio colposo plurimo, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e disastro ambientale i capi d'imputazione a loro carico. Tra i veneti inquisiti, Pietro Marzotto, a capo del gruppo Marzotto dal 1972 al 1998, Antonio Favrin, vicepresidente vicario di Confidustria Veneto, e Silvano Storer, già ai vertici di Stefanel e Benetton, 200 milioni di euro il risarcimento danni richiesto. Le accuse sono l'esito di un decennio di indagini, condotte dalla Procura della Repubblica di Paola (Cosenza), in seguito alla denuncia sporta nel 2001 da un gruppo di familiari degli ex operai della fabbrica. La vicenda è ripercorsa nel libro inchiesta «Marlane: la fabbrica dei veleni», scritto dai giornalisti Francesco Cirillo e Giulia Zanfino e dall'ex operaio Luigi Pacchiano, che sarà presentato sabato alle 16 in Villa comunale a Portogruaro. La storia della fabbrica di Praia a Mare comincia alla fine degli anni '50, quando il conte Stefano Rivetti di Val Cervo, fonda il Lanificio R2, secondo al Lanificio R1 di Maratea, nella confinante Basilicata. Alla fine degli anni '60 i due lanifici vengono acquisiti dall'Eni, allora detentore della Lanerossi, assumendo il nome di Marlane, acronimo di Praia a Mare e Lanerossi. L'Eni riunisce nell'unico stabilimento di Praia tutti i reparti di lavorazione. Nel 1987 la Lanerossi entra nell'orbita del gruppo Marzotto di Valdagno che diventa così proprietario della Marlane. La produzione prosegue ancora per una quindicina d'anni. Alla chiusura della tintoria, nel 1996, segue la cessazione definitiva dell'attività nel 2004. Con l'arrivo dei Marzotto vengono introdotte alcune misure di sicurezza prima non adottate, ma secondo l'accusa ancora insufficienti. Gli operai (circa un migliaio quelli avvicendatisi nella fabbrica) per anni sono stati esposti quotidianamente all'inalazione delle sostanze tossiche sprigionate dai coloranti, oltre che della polvere di amianto rilasciata dalla consunzione dei freni dei telai. Le prime morti per patologie riconducibili a tali condizioni risalirebbero ai primi anni '60, ma su di diesse è calata l'ombra della prescrizione, che si allunga fino alla prima metà degli anni '90. Proprio sulla negazione del nesso di causalità tra l'utilizzo delle sostanze tossiche e le patologie si reggono le argomentazioni dei legali della difesa, tra i quali il parlamentare Pdl Niccolò Ghedini. Gli scavi condotti nella zona circostante lo stabilimento hanno fatto emergere dei bidoni contenenti rifiuti tossici interrati qualche metro sotto il suolo, in prossimità del mare. Le analisi effettuate dall'Arpa Calabria su campioni di terra e di acqua di falda prelevati nell'area ne hanno dimostrato la contaminazione da metalli pesanti, quali cromo, nichel, piombo, zinco e arsenico. Essendo il sito ancora sotto sequestro, l'iter per l'avvio della bonifica è bloccato dal 2007, quando la Marzotto ha presentato alla Regione Calabria il «piano di caratterizzazione», prima tappa delle procedure di decontaminazione previste dal decreto legislativo 152/06. Il dilungarsi dei tempi del processo - iniziato a dieci anni dall'apertura delle indagini e la cui prima udienza, inizialmente fissata per il 19 aprile, ha subito due rinvii - preoccupa le parti civili, che affermano di lottare
 con la prescrizione. Un'eventualità che il 7 ottobre gli avvocati delle famiglie, appoggiate dal sindacato Si Cobas, cercheranno di allontanare chiedendo al pubblico ministero la commutazione di uno dei capi d'imputazione da omicidio colposo plurimo a omicidio volontario plurimo con dolo eventuale

La fabbrica del "pisa no": ovvero aniline che provocavano il cancro alla vescica

Fabbrica abbandonata: Ex IPCA

gen 15, 20150 commentiby 
Cirièun’ importante cittadina piemontese a pochi chilometri da Torino. Fin dall’inizio dell’800 la città dimostrò uno spiccato interesse verso lo sviluppo industriale, che ebbe il suo culmine nel corso del ‘900. Le industrie che componevano questa cittadina erano molteplici e racchiudevano i settori più disparati: tintorie, cuoifici, coltellerie, falegnamerie ecc.
L’IPCA (acronimo di: Industria Piemontese dei Colori di Anilina) venne fondata nel 1922 dai fratelli Sereno e Alfredo Ghisotti, sopra quello che rimaneva d’un vecchio complesso industriale dell’800, dedito alla produzione di fiammiferi. La fabbrica si trova lontano dal centro urbano di Ciriè, nella piccola frazione di Borche, una località nel mezzo dela campagna piemontese, dove un tempo vigeva l’epiteto “verde di riposi ristoratori“.
Questa fabbrica passerà alla storia come “La Fabbrica del Cancro” di Ciriè. Si sa, nel 1922 non esisteva ancora il concetto di sicurezza sul lavoro, così come le norme ambientali non erano nemmeno lontanamente concepibili. La fabbrica produceva colori con sostanze altamente nocive come la beta-naftilamina (benzidina) e aniline.

Colori assassini:

“L´ambiente è altamente nocivo, i reparti di lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore, vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”
Sono, purtroppo, le parole che scrissero nel 1956, la camera del lavoro di Torino, in seguito ad un’ inchiesta sulle condizioni di lavoro nella fabbrica. Ma tale inchiesta non portò a nulla, serviranno anni e morti per portare a galla quello che gli operai dell’IPCA dovettero subire sulla propria pelle. Già dopo i primi anni d’attività ci furono i primi malesseri, mali che nella maggior parte dei casi s’evolvevano in un calvario che conduceva in un’ unica direzione: il cancro alla vescica. Qualcuno, con un po’ di tetra ironia chiamava queste persone i “pissabrut“, gli urina-rosso.
Nel frattempo gli operai non stavano di certo a guardare, mentre sempre più persone s’ammalavano, dopo anni di lavoro in ambienti velenosi, nel 1968, due operai si licenziarono ed iniziarono ad indagare per conto proprio, sono Albino Stella e Benito Franza (che scoprirono in seguito d’essere anche loro ammalati), grazie a loro venne alla luce quello che per decenni venne tenuto all’oscuro.

L’indagine:

Erano anni che si parlava delle difficili condizioni di lavoro nell’IPCA, ma ci volle il coraggio e la determinazione di due operai per far venire a galla la verità.
L’indagine richiese diversi anni, l’annotazione dai cimiteri della zona di tutti i compagni morti tra il 1968 ed il 1972. Ne annotarono un numero decisamente inquietante: 134, solo in quei 5 anni.
In seguito alla preziosissima testimonianza, si arriverà finalmente ad un processo, che avrà una svolta nel 1977 con una condanna a 6 anni di carcere per omicidio colposo ai titolari e dirigenti dell’azienda. Ulteriori indagini accertarono che le vittime tra gli ex dipendenti sono state ben 168.

La chiusura:

In sguito alla condanna (e ad altri problemi amministrativi) l’IPCA chiuse i battenti nell’agosto del 1982, lasciando in eredità solo inquinamento e morte. Per 650 milioni di Lire il sito venne acquistato dal comune di Ciriè, nel novembre 1996 il Comune di Ciriè ottienne dal Ministero dell’Interno un finanziamento di circa 6 miliardi di Lire per l’eliminazione di 5677 fusti (solventi, diluenti, residui di verniciatura, coloranti e reagenti), eliminare 4.660.220 kg di liquami tossici e bonificare 50 serbatoi e 13 vasche di decantazione. La bonifica è terminò con pieno successo il 31 agosto 1998. Oggi la zona è completamente sicura e priva di agenti chimici pericolosi.
Ad oggi il complesso è completamente abbandonato, pur essendo poco vandalizzato, le strutture soffrono per la mancanza di manutenzione e l’esposizione agli agenti atmosferici. La zona è dichiarata pericolante ed è ufficialmente vietato accedervi. Da anni si discute su una possibile riqualificazione dell’area, ma per il momento quello che rimane, sono le macerie di una storia vergognosa che non deve più ripetersi.

Video:

Un piccolo documentario che ho girato personalmente.

Altre foto:

Italia - PiemonteLuoghi Abbandonati

Autore articolo:

Amministratore e fondatore di questo sito, è un comune lavoratore che nel tempo libero si dedica anche alla fotografia. E' appassionato di posti abbandonati, dal 2013 ha iniziato attivamente a fare esplorazioni urbane in posti assurdi dimenticati dal mondo. E' un concentrato di curiosità e passione, che si divide tra passato presente e futuro. E' stato in Giappone, praticamente vivendo per strada e dormendo in angusti spazi chiamati internet cafè, ama molto i viaggi avventurosi, leggere, scrivere, drogarsi di serie TV, il cazzeggio e la birra.

giovedì 30 luglio 2015

Misteri e tossicità sopratutto dei colori più sgargianti

Giallo cadmio

Ci sono molti veleni nella composizione delle terre e delle pietre che fornivano i colori ai pittori: se per l’ocra e la Terra di Siena la colorazione è dovuta quasi soltanto ai composti del ferro (i vari colori della ruggine), che è maneggiabile senza troppi problemi, il discorso cambia quando si passa ai colori più belli e brillanti. Fa impressione per esempio leggere cosa c’è dietro il colore giallo: solfuro di cadmio, cromati di piombo. I sali di Cromo, Cadmio e Piombo sono tra i più tossici per il nostro organismo. Il discorso non cambia, o anzi peggiora, con il rosso: solfuro mercurico (cinabro), solfuro di cadmio, e ancora ossido di ferro, che però non fornisce colori brillanti. Fa eccezione la cocciniglia, di origine animale. Nemmeno per il verde, che si può ottenere anche miscelando blu e giallo, possiamo stare tranquilli: ossido di rame e ossido di cromo.
L’ossido di rame lo si può osservare anche in casa, negli oggetti di bronzo (lega di rame e stagno) o sui tetti delle chiese antiche: proprio quel verde lì, anche se magari nei minerali è combinato con qualcos’altro. L’ossido di ferro, cioè la ruggine, può avere differenti colori a seconda dell’umidità e dell’invecchiamento della ruggine: si va dal rosso ruggine più classico fino al marrone. In presenza di umidità, invece dell’ossido di ferro si forma idrossido di ferro, che ha una tonalità leggermente diversa; ma i composti del ferro possono essere molteplici.
Il rosso dei mattoni è dovuto alla cottura: l’argilla con cui sono formati contiene ossido di ferro idrato (tendente al giallo-ocra), che con la cottura diventa ossido di ferro anidro (senz’acqua) cioè il tipico color rosso mattone.
La sanguigna, una matita molto usata dai pittori del Rinascimento, è sempre un minerale di ferro. Il nome di questo minerale (o roccia) parla chiaro: ematite. La stessa etimologia dell’emoglobina (il ferro nel sangue, che dà il colore rosso) ma anche delle matite nere, che in quegli anni si chiamavano “carboncino”. La matita come la intendiamo oggi verrà messa in commercio solo alla fine del ‘700.
Infine il color d’oro, molto usato nell’arte sacra e nelle icone russe: che è proprio la foglia d’oro, sottilissima, usata anche dai rilegatori per le dorature delle copertine dei libri. Ma queste sono cose che sanno tutti, le darei per scontate.
Un po’ meno scontati sono i colori del vetro: non sono coloranti, ma colori minerali (cioè pietre, rocce) dispersi nella pasta fusa del vetro. E’ per questo motivo che il vetro non può essere decolorato: la decolorazione che si fa sui tessuti, con la candeggina o con l’idrosolfito, va a distruggere o modificare la molecola del colorante; il vetro invece è pietra liquida (silicato) che contiene altra pietra macinata e mescolata. Il risultato non è modificabile, non con i mezzi a nostra disposizione (sarebbe un’operazione costosissima).
I colori delle pellicole fotografiche sono più o meno gli stessi che usavano i pittori, dispersi nelle apposite emulsioni; ma il discorso qui diventerebbe molto complesso.
Oggi comunque i colori e i coloranti sono quasi tutti sintetici, a meno che non si abbiano richieste particolari da parte del pittori prevalgono i colori prodotti dall’industria chimica, dispersi in resine acriliche.
Quando si comperano i colori per le stampanti, oltre al giallo troviamo indicazioni come ciano e magenta, ormai termini internazionali. Ciano è un turchese, cioè un blu corretto col giallo; magenta è un rosso che – se non ricordo male – prende il nome dalla sanguinosa battaglia di Magenta (1859, vicino a Milano, in pieno Risorgimento).
da www.wikipedia.it  :
Il magenta è un colore che non fa parte dello spettro ottico: cioè la sua tonalità non può essere generata con luce di una singola lunghezza d'onda. Un colore magenta può essere ottenuto mischiando quantità uguali di luce rossa e blu. Pertanto il magenta è il colore complementare del verde: il pigmento magenta assorbe la luce verde. Con il giallo e il ciano, costituisce i tre colori sottrattivi primari.
Il ciano è uno dei colori dello spettro che l'uomo riesce a vedere, la lunghezza d'onda è intorno a 480 nanometri. Insieme al giallo ed al magenta è un colore primario sottrattivo. La stessa tonalità può essere generata miscelando uguali quantità di luce verde e blu. Il ciano è il colore complementare del rosso: il pigmento di colore ciano assorbe la luce rossa. Il ciano viene a volte denominato turchese e spesso non viene distinto dall'azzurro. Inoltre, nei testi sulla fotografia, fino agli anni settanta il ciano è stato solitamente chiamato blu-verde. (...)
Per concludere questa serie iniziata dai colori dei pastelli (e dei pittori) porto qui sotto queste due immagini che ho trovato su internet, al sitohttp://mudwerks.tumblr.com  . Non so da dove vengano di preciso, però consiglio di fare attenzione perché è un piccolo gioco: non sono gessetti, sono i colori di alcuni minerali o composti chimici, e anche delle radiazioni emesse da alcuni elementi quando vengono riscaldati (eccitati). Ne ho già accennato in un post dedicato al saggio alla fiamma, e l’argomento è la spettrometria; per parlarne a dovere bisognerebbe andare fino alla struttura dell’atomo, alla fisica quantistica, a Max Planck, ad Albert Einstein... Insomma, un discorso molto complesso: ma l’origine dei colori è lì, la spiegazione è negli elettroni e nei salti quantici. E qui devo fare una confessione: anch’io ne so poco o niente, quello che so mi basta appena per non perdermi appena entrato. Però è sempre bello sapere come è fatto il mondo che ci circonda, sia nelle piccole cose che in quelle grandi.
nelle immagini: un ritratto a sanguigna di Annibale Carracci, un disegno di Rembrandt, due ritagli da un vecchi libri o giornali, e le due foto di cui parlo qui sopra.

la magia di mendeleev

La chiave di tutti i segreti

C’è un oggetto che ogni tanto appare nei film dell’orrore, o magari in Indiana Jones: la tavola magica, il simbolo segreto che svela tutti i segreti dell’umanità; magari affidato a un faraone egizio, a un mago assiro, a Harry Potter o a un alieno di Roswell, magari un anello, un tatuaggio, una pietra o una statua da rimettere al suo posto, e che crea maledizioni e catastrofi ed effetti speciali luminosi, magari in 3D.
Lo so che è antipatico dirlo, ma questa Tavola della Magia esiste già, più o meno dal 1860; e la stiamo già usando da più di cent’anni. I chimici la studiano a scuola, e da almeno mezzo secolo è l’incubo (incubo da interrogazione e da compito in classe) dei sedicenni che fanno la scuola di perito chimico: la stechiometria, il sistema periodico degli elementi.
Così la presenta un grande medico e grandissimo scrittore, Oliver Sacks: il titolo del libro è simpatico (“Zio Tungsteno”: Sacks aveva uno zio che costruiva lampadine) ma mi è sempre sembrato un po' astruso, forse con un altro titolo sarebbe stato un bestseller perché è molto chiaro e molto divertente. Ma, attenzione: questa non è una semplice sequenza di nomi più o meno astrusi, è una visione dell’Universo, della Creazione. Fate attenzione soprattutto ad uno di questi nomi: il Carbonio, su questa Terra, è l’unico degli elementi che è connesso alla vita.
Capitolo XVI - IL GIARDINO DI MENDELEEV (by Oliver Sacks)
Nel 1945 il Museo della Scienza di South Kensington fu riaperto (dopo una lunga chiusura nel periodo della guerra) e per la prima volta vidi la gigantesca tavola periodica che vi era esposta. 
La tavola, che copriva un'intera parete in cima alle scale, era in realtà una vetrina di legno scuro con una novantina di scomparti, ciascuno dei quali porta scritto il nome del proprio elemento, il suo peso atomico e il suo simbolo chimico. In ogni scomparto, poi, c'era un campione dell'elemento stesso (quanto meno, di tutti quelli che erano stati ottenuti in forma pura, e che potevano essere esposti in condizioni di sicurezza). Il cartellino informava, « La classificazione periodica degli elementi secondo Mendeleev».
I primi che vidi furono i metalli, esposti a decine in tutte le forme possibili: barrette, cubi, fili, fogli, dischi, cristalli, masse di forma indefinita. La maggior parte erano grigi o argentei, alcuni avevano sfumature azzurre o rosa. In qualche caso le superfici erano brunite e risplendevano debolmente di giallo; poi c' erano i colori intensi del rame e dell'oro.
Nell'angolo in alto a destra c'erano i non metalli - gli spettacolari cristalli gialli dello zolfo e quelli
rossi, traslucidi, del selenio; il fosforo, simile a pallida cera d'api, immerso nell'acqua; e il carbonio, sotto forma di minuscoli diamanti e grafite nera e lucente. C'era poi il boro, una polvere brunastra; e i cristalli di silicio, dalla superficie come increspata, di una lucentezza nera, intensa, simile alla grafite o alla galena.
A sinistra c'erano i metalli alcalini e i metalli alcalino-terrosi (i metalli di Humphry Davy), tutti, tranne il magnesio, immersi in bagni protettivi di nafta. Fui colpito dal litio, nell'angolo più in alto a sinistra, perché, leggero com'era, galleggiava sulla nafta; e anche dal cesio, più in basso, che formava una pozzanghera luccicante sotto la nafta. Il cesio, questo lo sapevo bene, aveva un bassissimo punto di fusione, e quello era un giorno d'estate molto caldo. Tuttavia, non mi ero del tutto reso conto, osservando le minuscole masserelle parzialmente ossidate che avevo visto fino ad allora, che il cesio puro fosse dorato: al principio lanciava solo un bagliore, un lampo d'oro, sembrava emettere un'iridescenza con una lucentezza dorata; ma poi, osservato da un'angolazione diversa, appariva di un color oro puro, e sembrava un mare d'oro, o del mercurio dorato.
C'erano poi altri elementi che fino ad allora erano stati per me solo dei nomi (oppure, in modo quasi ugualmente astratto, dei nomi associati a qualche proprietà fisica e a un peso atomico) e adesso per la prima volta li vedevo in tutta la loro diversità e la loro realtà. In quella mia prima, sensuale panoramica, percepii la tavola come un sontuoso banchetto, un enorme desco apparecchiato con un'ottantina di portate diverse.
A quell'epoca avevo ormai acquisito familiarità con le proprietà di molti elementi e sapevo che essi formavano un certo numero di famiglie naturali, come quella dei metalli alcalini, dei metalli alcalinoterrosi e degli alogeni. Queste famiglie (che Mendeleev chiamò « gruppi ») formavano le colonne verticali della tavola, con i metalli alcalini e quelli alcalino-terrosi a sinistra, gli alogeni e i gas inerti a destra, e tutto il resto collocato in quattro gruppi intermedi situati nel mezzo. Questi gruppi intermedi erano « gruppi » in un modo un po' meno chiaro - nel Gruppo VI, per esempio, vedevo lo zolfo, il selenio e il tellurio. Sapevo bene che questi tre elementi (i miei « puzzogeni ») erano molto simili - ma che ci faceva in mezzo a loro l'ossigeno, proprio in testa al gruppo? 
Doveva esserci un principio più profondo - e infatti c'era. Era stampato in cima alla tavola, ma nella mia impazienza di osservare gli elementi, non gli avevo prestato attenzione alcuna. Il principio più profondo, vidi poi, era la valenza. 
Il termine valenza non esisteva nei miei libri dell'epoca vittoriana, giacché era stato sviluppato correttamente solo verso la fine degli anni Cinquanta del diciannovesimo secolo. Mendeleev fu uno dei primi ad avvalersene e a usarlo come fondamento per la classificazione, offrendo così qualcosa che non era mai stato chiaro prima: una base razionale per spiegare la tendenza degli elementi a formare famiglie naturali e ad avere profonde analogie chimiche e fisiche gli uni con gli altri. 
(...)La tavola che avevo dinnanzi era dominata da una periodicità in base otto, sebbene si potesse anche vedere che nella parte inferiore, all'interno dei fondamentali ottetti, erano interposti alcuni elementi extra: dieci per ciascuno nei Periodi 4 e 5, e dieci più quattordici nel Periodo 6.
Così si procedeva, osservando ogni periodo completarsi e condurre al successivo imboccando una
serie di curve da capogiro - questa, almeno, era la forma in cui l'immaginavo io, così che la solenne tavola rettangolare che avevo di fronte si trasforma nella mia mente in anse e spirali. 
La tavola era una sorta di scalinata cosmica, o di scala di Giacobbe che saliva e scendeva verso un cielo pitagorico.
All'improvviso, fui travolto al pensiero di quanto dovesse esser sembrata sorprendente, la tavola periodica, ai chimici che la videro per primi – chimici che avevano una profonda familiarità con sette o otto famiglie di elementi, ma che non avevano mai compreso la base di quelle famiglie (la valenza), come esse potessero confluire a comporre un unico schema di ordine superiore. Mi chiedevo se non avessero reagito come avevo fatto io di fronte a quella prima rivelazione: «Ma certo! E così ovvio! Come ho fatto a non pensarci io? ».
Indipendentemente dal fatto che uno pensasse in termini di colonne verticali o di righe orizzontali, in un modo o nell'altro si arrivava alla stessa griglia. Era come uno schema di parole crociate, che poteva essere affrontato sia partendo dalle definizioni «verticali » che da quelle «orizzontali », salvo per il fatto che un gioco enigmistico era un costrutto arbitrario, squisitamente umano, mentre la tavola periodica rifletteva o rappresentava un ordine profondo della natura, perché mostrava tutti gli elementi disposti in base ad una loro relazione fondamentale. Avevo la sensazione che essa custodisse un segreto meraviglioso, ma si trattava di un criptogramma senza chiave: perché quella relazione era così? (...)
(Oliver Sacks, da “Zio Tungsteno”, ed. Adelphi – capitolo XVI, Il giardino di Mendeleev)

Perseguitato dai nazisti, dai russi Stalinisti, ed infine imprigionato negli USA morì in carcere

L’eredità di Wilhelm Reicho
I still dream of Orgonon (sognando Orgonon),
come dice la canzone di Kate Bush:CLOUDBUSTING (nubificare)





Il testo della canzone si riferisce chiaramente a W. Reich come a l’uomo che fa venire la pioggia e che la cantante non vuole dimenticare


E neanche noi vogliamo.
Nel rispetto delle ultime volontà del medico, scienziato e ricercatore W. Reich – scritte a testamento pochi giorni prima della sua incarcerazione - i sui archivi sono stati sorvegliati da il Wilhelm Reich Museum - Orgonon( Rangeley, Maine - USA) e secondo sue indicazioni:
«… accantonati e custoditi per 50anni per assicurare la loro salvezza dalla distruzione e falsificazione di chi è interessato alla distruzione e falsificazione della verità storica».
Oggi, "the Infant Trust" creata dopo la morte di W. Reich gestisce gli “Archives of the Orgone Institute” (nome ufficiale degli archivi di Wilhelm Reich) che si trovano ora nella collezione speciale dei libri presso il Francis A. Countway Library of Medicine dell’ Harvard University, una delle più prestigiose biblioteche mediche del mondo. Nel novembre 2007 o al più tardi agli inizi del 2008 questi archivi saranno resi disponibili a studenti e ricercatori.
I 50anni sono dunque “quasi” passati e a breve un patrimonio assai prezioso potrà dispiegarsi sotto gli occhi di futuri studenti interessati ad accedere, come si augurava Reich, all’ Energia Cosmica Primordiale, l’Energia della Vita.
Scrive ancora Reich nel suo testamento: «la tendenza dell’uomo, nato dalla paura…, a nascondere materiali scomodi è immensamente forte».
«Questi documenti – egli continua - sono di cruciale importanza per il futuro delle generazioni dei nuovi nati …durante tutta la mia vita ho amato neonati, bambini e adolescenti e anche da loro sono sempre stato riamato e compreso. I neonati di solito mi sorridono perché ho un contatto profondo con loro e i bambini di due o tre anni spesso guardandomi diventano pensosi e seri. Questo è stato uno dei felici privilegi della mia vita e voglio esprimere in qualche maniera i miei ringraziamenti per quell’amore che mi è stato riservato dai miei piccoli amici. Possa il Destino e il grande Oceano dell’Energia Vitale dal quale vengono e al quale prima o poi ritorneranno benedirli con felicità, soddisfazione e libertà durante la vita. Spero di aver contribuito in buona parte alla loro felicità».

Onorando le sue benedizioni e ancor più le sue ricerche Scienza e Conoscenza n°22, in edicola il 20 ottobre, dedica il suo titolo di testata all’eredità di questo grande ricercatore affidando alla voce di alcuni esperti del settore a livello nazionale e internazionale una serie d’interventi su i vari campi coperti dagli studi e dalle sperimentazioni di Wilhelm Reich – campi a tutt’oggi, poco conosciuti o poco e nulla praticati.

Tra gli articolisti: Roberto Maglione e Mariano Bizzarri, scienziati di livello internazionale che si occupano di branche diverse dell’orgonomia, che vanno dalla cura del cancro e delle malattie, allamodificazione del clima; James deMeo, attualmente l’esponente che meglio riflette a livello mondiale la biofisica orgonica oltre che autore di numerosi articoli e libri sull’argomento; Aneesha Dillon formata in studi neo-reichiani con Charles Kelley – uno dei diretti seguaci di Reich - al Radix Institute in California e fondatrice dell’Osho pulsation che mette in pratica l’incontro tra il lavoro di Reich e la meditazione.

Uno di questi campi poco conosciuti e su cui si soffermano Roberto Maglione e Carlo Splendore nellamonografia dedicata a W. Reich – a cura di Vincenzo Valenzi e Luigi de Marchi - in uscita a Novembre nella collana Scienza e Conoscenza di Macro Edizioni - è per es.la biofisica orgonica, una materia fondamentale per lo studio delle proprietà e delle applicazioni dell’energia orgonica che è conosciuta anche con il termine orgone(assimilabile al Chi cinese, al concetto di etere e anche all'odierno concetto di energia oscura che permea l'intero universo). Essa, al contrario della psicologia e della psicoterapia, che invece hanno avuto una larga diffusione, è attualmente poco conosciuta ed il suo significato è spesso interpretato erroneamente. Quasi tutti i libri di psicologia e di sociologia scritti da Reich sono stati ristampati e tradotti in diverse lingue mentre i giornali di ricerca, che riguardano lo studio delle peculiarità e delle applicazioni dell’energia orgonica, come l’International Journal for Sex-economy and Orgone Research, l’Orgone Energy Bulletin ed il Cosmic Orgone Engineering, sono disponibili solamente sotto forma di fotocopie delle edizioni originali reperibili presso il Wilhelm Reich Museum.
Reich vide, durante le sue ricerche di laboratorio, che l’energia orgonica seguiva alcune leggi fondamentali ed il suo comportamento era strettamente collegato ad alcune proprietà che i metalli o particolari materiali e sostanze possedevano nei confronti dell’orgone. Una delle leggi più importanti è quella dei potenziali orgonomici, che regola il flusso di energia che fluisce da un sistema ad un altro. Essa stabilisce che il flusso di energia orgonica va sempre dal potenziale più basso a quello più alto, come enunciato da Reich in DOR removal, nel Cloud-busting e altre manifestazioni legate ai sui esperimenti sul campo. 

Articolo tratto da scienza e conoscenza: http://www.scienzaeconoscenza.it/scienza/eredita_w_reich.htm