sabato 27 novembre 2010

In nome del cosiddetto progresso




In nome del cosiddetto progresso stiamo uccidendo la nostra parte
migliore
di Francesco Lamendola - 26/11/2010

Fonte: Arianna Editrice


Un tempo non tanto lontano, diciamo meno di due generazioni fa, la
vita delle persone era ancora piena di piccoli, grandi segni che ne
sviluppavano la parte migliore: la fantasia, la sensibilità, lo
stupore davanti al mondo, la “pietas” verso gli altri e verso i
defunti.
All’avvicinarsi della ricorrenza di Santa Lucia o del Natale, i
bambini scrivevano una letterina in cui tracciavano un bilancio del
proprio comportamento morale, si proponevano di migliorarlo e
chiedevano, trepidando, il giocattolo tanto a lungo sognato: non lo
pretendevano; lo domandavano, pur consapevoli di non averlo pienamente
meritato.
Era una lezione di umiltà verso se stessi e un avviamento alla
chiarificazione interiore. Era anche un esercizio di bello scrivere.
Infine era uno stimolo alla creatività e allo sviluppo del senso
estetico, perché quella letterina, che costituiva un vero e proprio
evento nella vita del bambino, veniva abbellita da disegni e
decorazioni che ne facevano un piccolo capolavoro di inventiva e di
capacità artistiche.
Poi sono venute le letterine natalizie già belle e pronte: si
compravano in cartoleria e avevano già tutti i disegni e le
decorazioni; bastava scrivere il testo.
Da ultimo è scomparsa anche la letterina, così come sono scomparsi
Santa Lucia e Gesù Bambino. I giocattoli li portavano direttamente i
genitori, senza che il bambino avesse fatto niente per meritarseli:
così, in omaggio al consumismo dilagante.
Un altro esempio.
All’epoca di cui stavamo parlando, presso molte famiglie era diffusa
una pia e dolce tradizione: quella di lasciare un bicchier d’acqua sul
tavolo della cucina, alla sera, la vigilia del 2 novembre, il giorno
della ricorrenza dei morti. Quell’acqua era destinata a dissetare le
anime del Purgatorio che, la notte, sarebbero venute a bere.
Un residuo di superstizione, una scoria dei tempi magici che la
scienza moderna ha dissipato? Certo, può darsi. Ma se anche fosse?
Non era una tradizione utile, oltre che poetica, dal momento che
contribuiva a tenere sempre frequentato il sentiero spirituale che
collega i vivi ai morti, mentre oggi quel sentiero si sta ricoprendo
inesorabilmente di erbacce, dato che nessuno più lo percorre?
Potremmo continuare a lungo con esempi del genere, ma crediamo di aver
reso l’idea di quel che vogliamo dire.
In genere, nel rendere ragione della scomparsa di tali gesti, come
quello di rendere grazie per il cibo quando ci si mette a tavola, o di
benedire una persona che esce di casa per affrontare un viaggio, si
risponde - se pure si ritiene di dover dare una spiegazione - che è
giusto liberarsi dei residui del passato, dato che viviamo in un mondo
ove la scienza, la tecnica e l’economia marciano sempre più in fretta.
Gira e rigira, quindi, è sempre la solita, eterna ideologia del
progresso illimitato, che dovrebbe spiegare tutto, giustificare tutto,
rendere ragione di tutto. Che cosa volete farci, è il progresso; e non
si può mica andare contro il progresso, questo è certo…
Eppure, basta una riflessione anche abbastanza frettolosa per rendersi
conto che le cose stanno altrimenti; che questa è solo una spiegazione
che si dà «a posteriori» per illudersi di avere ancora il controllo
della situazione; mentre è vero il contrario: che questo cosiddetto
progresso è sempre più simile a una locomotiva lanciata a tutta
velocità, senza macchinista e senza freni, lungo un binario morto.
Allo stesso modo in cui sono scomparsi i gesti gentili, le parole
buone, i simboli del nostro legame con la realtà soprannaturale, così
stanno scomparendo i popoli, le lingue, le culture; così stanno
scomparendo le specie vegetali e animali, a un ritmo sempre più
vertiginoso; così stiamo entrando, a vele spiegate (si fa per dire),
nel paradiso della modernità.
Vorremmo convincerci che tutto questo sia frutto di un piano
preordinato e che, sì, vi sono forse degli effetti collaterali non
previsti, ma insomma, nel complesso, gli aspetti positivi prevalgono
immensamente, senza possibilità di paragone.
Non è forse vero che tante malattie sono state domate (ma altre ne
sono comparse); che la vita umana si è allungata (ma solo la durata
media); che le comodità e il benessere si sono largamente diffusi (ma
solo in una parte dell’umanità e a prezzo di tensioni e nevrosi ogni
giorno crescenti)? E dunque, come dubitare della bontà del progresso?
E poi, il progresso non si giudica: è un valore evidente in se stesso;
chiunque lo metta in discussione deve soffrire di qualche disturbo
mentale. Meno male che c’è una scienza nuova di zecca, la psichiatria,
per curare questi individui sempre scontenti, inspiegabilmente ingrati
e potenzialmente pericolosi per l’intera società.
In Unione Sovietica si ricorreva alla psichiatria per “curare” quanti
non gradivano le meraviglie del socialismo reale; e il marxismo, a ben
guardare, non era che una delle tante forme di adorazione del
Progresso, una delle tante ideologie uscite dalla nobile e altruistica
convinzione illuminista (e positivista) che la ragione serva per
portare la felicità a tutti, sia che lo vogliano, sia che non lo
vogliano…
I contadini della Vandea, per esempio, non volevano un tal genere di
felicità: volevano tenersi i loro preti, le loro superstizioni e,
«horribile dictu», i loro signori; insomma volevano la tradizione e
l’ancién régime: ragion per cui gli eserciti repubblicani francesi, in
nome della Dea Ragione e della felicità, ne sterminarono circa un
milione.
Ma che cosa è mai un milione di cafoni della Vandea, davanti alle
“magnifiche sorti e progressive” della modernità? Che cosa sono mai
otto milioni di contadini russi, a fronte della creazione di una
industria pesante nel volgere di pochi anni e, nello stesso, della
totale distruzione della proprietà privata rurale, eterno focolaio di
reazione e di superstizione?
Il fatto è che, in nome del cosiddetto progresso, che poi è soltanto
brutale sviluppo materiale, stiamo uccidendo la parte migliore di noi
stessi: quella che sogna e si stupisce; quella che loda e ringrazia;
quella che si sente collegata a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che
vive, a tutto ciò che respira: cominciando con la Terra, «sora nostra
matre Terra», come la chiama San Francesco nel sublime «Cantico delle
creature»: sorella e madre al tempo stesso.
Noi non ci stupiamo più di nulla: sappiamo che la scienza ha una
risposta per ogni cosa; né ringraziamo più per tutto ciò che la vita
ci offre: non si tratta di un dono, ma una preda e, conquistandola,
non facciamo che esercitare un nostro diritto.
Un tempo non troppo lontano, i mandarini sulla tavola erano, per i
bambini, un gradito dono del Natale; anche le mele erano un dono,
anche il pane caldo appena sfornato era un dono. Quei bambini sapevano
quanto lavoro era costato il pane e sapevano che senza il sole, senza
la pioggia, senza il vento, non ci sarebbero stati mandarini sulla
tavola, né mele, né pane…
I bambini di oggi protestano se in tavola non ci sono i frutti fuori
stagione; se non ci sono i dolci confezionati di produzione
industriale; se non c’è la Coca Cola. Non si stupiscono più per le
piccole cose, non si sognano nemmeno di ringraziare qualcuno o
qualcosa.
Non è certo “colpa” loro.
I loro genitori li hanno cresciuti così; e, se non i genitori, la
televisione, il cinema, il computer, l’esempio dei compagni e delle
loro famiglie.
Eppure, nella vita del singolo così come in quella delle società, sono
soprattutto i piccoli gesti quotidiani, sono soprattutto i pensieri di
ogni giorno che costruiscono, lentamente ma immancabilmente, i valori
intorno ai quali la vita e il mondo trovano un significato; sicché,
aver lasciato scomparire quei gesti e quei pensieri non può che
produrre un vuoto esistenziale nel quale subito tendono ad introdursi
le male piante dell’edonismo, dell’egoismo, dell’indifferentismo.
Suvvia, dirà qualcuno, non esageriamo: dopotutto, si trattava
semplicemente di simboli.
Vero, verissimo; ma i simboli non sono un di più, non sono un fronzolo
o un abbellimento; i simboli rivelano l’anima stessa della vita, tanto
individuale che collettiva, qualora formino una rete armoniosa e
coerente tessuta dal susseguirsi delle generazioni.
Un individuo e una società che abbiano smarrito il linguaggio dei
simboli, hanno con ciò smarrito sia le proprie radici, sia il senso
del proprio destino; ed è inevitabile che vadano incontro al nulla,
cioè all’autodistruzione. Poco importa se ci vanno col sorriso sulle
labbra.
Questo è il pericolo che attualmente ci sovrasta.
Non la crisi economica, dalla quale ci si può riprendere; non la
guerra mondiale, dalle cui ceneri si potrà ricominciare; e nemmeno la
catastrofe ecologica, che pure servirà ad insegnare ai sopravvissuti
la strada di un nuovo inizio.
No: il pericolo mortale è la perdita delle radici e la perdita del
senso circa il proprio destino; diremo meglio: la perdita dell’idea
del destino. Al destino subentra il caso; a una visione organica del
mondo, subentra una visione meccanica; a un modo di porsi qualitativo,
subentra un modo di porsi puramente quantitativo.
Il mondo vivo, elastico, malleabile, del destino e del simbolo, viene
gradualmente sostituito da un mondo rigido, solidificato, morto, ove
una tecnica senz’anima celebra i suoi ultimi, spettacolari trionfi, in
una luce corrusca da apocalisse.
Dobbiamo fare molta attenzione.
Il mondo si regge anche sul piccolo gesto quotidiano di ringraziare il
Cielo per il nostro nutrimento, di ringraziare la Terra per i beni che
ci elargisce, e di benedire il figlio che esce di casa, andando
incontro al suo destino di adulto.
Questa rete di simboli ci teneva legati in una unità organa ed
impediva che le forze individualistiche dell’egoismo sfrenato ci
conducessero all’autodistruzione.
Il gesto pietoso rivolto ai nostri cari defunti ci teneva legati al
mondo dell’Aldilà e consentiva alle anime di coloro che ci hanno
preceduti di agire positivamente su di noi, proteggendoci dalle
conseguenze di un materialismo cieco e distruttivo.
Un tempo si insegnava ai bambini che accanto ad ognuno di essi vi è
una Presenza benevola, un Angelo custode che ne sorveglia
affettuosamente i passi e che gli fa scudo contro le energie malefiche
in agguato sulla sua strada.
Era solo una favoletta edificante? Non lo crediamo.
Le forze del Bene esistono, e così quelle del Male; e la loro azine
sul mondo fisico è tanto certa, quanto lo è quella degli agenti
atmosferici o della realtà storica.
Tuttavia ben diversa è la condizione di una umanità che ignora questa
rete di presenze spirituali e che fa affidamento solo e unicamente
sulle proprie forze; che spesso, anzi, tende a stringere un patto
scellerato con le forze del Male, in cambio di potere e successo.
Tale è la nemesi dell’uomo moderno, dell’uomo faustiano: colui che
stringe un patto col Diavolo, vendendogli la propria anima in cambio
di un dominio sempre più spietato sulla natura e sul mondo delle cose.
I gesti volgari e insultanti, le smorfie di irrisione, le parodie del
sacro che oggi imperversano ed il cui pessimo esempio giunge, sovente,
proprio da parte delle persone più in vista, magari da quelle che
ricoprono ruoli istituzionali, hanno sostituito i gesti benedicenti e
le parole di fede e di carità che, un tempo, accompagnavano la vita
umana.
Tutto questo è il prodotto di una modernità che ha smarrito le strade
dell’anima; che, anzi, ha smarrito perfino la coscienza di possedere
un’anima, e quindi di possedere una vocazione ed un destino
soprannaturali.
In cambio, abbiamo eretto i nuovi altari alla Ragione, alla Scienza,
alla Tecnica, al Progresso.
Da ultimo, li abbiamo eretti solo al nostro sfrenato egoismo e alla
nostra superbia luciferina.
E poi, che cosa ne sarà di noi?

martedì 23 novembre 2010

La Lega Nord riunifica l'Italia


Bastano le immagini e i simboli a chiarire le vere intenzioni, la storia non cambia!


Come Garibaldi , forse hanno cambiato idea sulla ladrosita della capitale.
Come disse Toto:O Roma o Orte, il sole delle alpi arriverà fino a Lampedusa.

lunedì 22 novembre 2010

Sempre l'Italia





Il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le
circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo,
sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.

Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo
male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare
verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato
di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e
Italia.

Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato
assai scomodo.
E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale
proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.

Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe
atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai
tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi,
con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto
dell'abbronzato
presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non
fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.

Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un
nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11
settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste
bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi
erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex
cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes,

l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo
ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono
risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo
prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale
di Roma.

Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano
la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo
per noi europei.
Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa
servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a
tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali,
precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad
accorgersene) - trascinano giù anche noi...

domenica 21 novembre 2010

Aspetti religiosi e storici del Tibet

Aspetti religiosi e storici del Tibet
di Gianluca Padovan - 18/11/2010

Fonte: Rinascita



In questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno
degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche
tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.
Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa,
avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero,
abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e
tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota
media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta
sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto
tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle
nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra
culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente
mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al
paleolitico superiore e al neolitico.
La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad
esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua
tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni,
nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno
studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.
Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più
antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione:
“Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria,
terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da
una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che
provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e
spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2
L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo
che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono
l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da
soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è
comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si
trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima
patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3
Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un
interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio
paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi.
La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo
dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del
tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu
governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso
animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione,
nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo
s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I
primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda
sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse
giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte,
recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani
come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari
insieme ai loro beni e al loro seguito».4
Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle
terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro
raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea
nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei
monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali
discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e
l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo
Tibetano”.5
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo
Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet,
nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai
Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista
residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe
cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il
trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica
Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche,
religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da
circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina
interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al
Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello
maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum
situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti
recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che
dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi;
quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per
informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana.
Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero
completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle
proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire
era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi
riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe
della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a
riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore
generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande
opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata
sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse
opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero
intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di
realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come
simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa
dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti
e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il
territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed
è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi,
tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera
della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che
irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e
imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi
cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati
europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro
l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere
pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista
dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino
distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo
che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere
oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo
sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con
l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la
risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci
di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere
danneggiati”.8
Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto
lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi
considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di
mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha
sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e
laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo
comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a
tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici
europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo
stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un
saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che
qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.

sabato 20 novembre 2010

L'importanza del mito, per Eliade.





Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita
di Francesco Lamendola - 16/11/2010

Fonte: Arianna Editrice


L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un
sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno
dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle
tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento
di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si
trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un
conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale
società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura
occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le
stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della
mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con
l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare
fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di
corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni
naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come
vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e
di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente
spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale,
sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo
sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa
esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti),
nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla
terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose
correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo
stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta,
padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per
esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano
germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del
lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della
natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante
i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la
Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza
e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che
riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e,
di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato
insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso
esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è
una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una
forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la
mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di
pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose
e della vita; non limitandosi - però - alla dimensione del pensiero
logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose,
ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il
volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per
mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di
conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo
della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di
esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto
questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico
è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente
dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner,
apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte
dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il
significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con
particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha
scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura
europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth
and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla
Editore, 1974, pp. 144-46):

«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente
rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con
il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il
mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi
animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti,
l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con
i suoi antenati oppure con i suoi “totem” - ad un tempo natura,
sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e
risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né
meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare
uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente
per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal
mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si
lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o
l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un
consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle
società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio,
sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e
tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può
influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua
sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e
sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa
che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne,
che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare
“centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca
in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i
rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è
visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far
prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura
delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il
cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della
valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito
come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte
più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso
socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad
accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a
uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e
animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di
Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre
un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte
integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura,
l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei
“primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un
parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste
soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta
ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa
concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa
di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione
religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La
sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un
significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella
costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto,
le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla
luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo
perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando
come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa
sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia
sacra”.»

Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni
edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito
del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e,
del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della
letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria
che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo;
episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura
molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di
un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un
legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla
luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune
vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato
anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla
celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni,
addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento
realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon),
dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al
Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è
indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e
l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo,
dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per
scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla
vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi
Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per
propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una
vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la
concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in
maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro
vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla
frustrazione di essere membri di una società esasperatamente
individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la
dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta
interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche
l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un
ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto
privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un
disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato
l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare,
almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella
fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare
l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume
le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento
della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e
potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare
alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i
vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude
all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da
vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali
forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che,
nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una
concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi
del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e
della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e
quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine
esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir
trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore
all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto
l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono
all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso,
il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale
radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni
siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e
realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra
presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e
continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne
l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e
scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di
razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto,
una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che
coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare
dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.

martedì 16 novembre 2010

La finanza sta divorando tutto




La finanza sta divorando ciò che rimane del nostro pianeta
di Massimo Fini - 15/11/2010

Fonte: Massimo Fini


La Cina sta superando gli Stati Uniti come prima potenza economica del
mondo. Ad essere cinesi ci sarebbe da star contenti. Invece proprio i
cinesi saranno i più fregati. Dopo aver pagato gli enormi prezzi del
"take off" industriale, e offerto a questo Moloch i consueti
sacrifici
umani (nella Cina attuale il suicidio è la prima causa di morte fra i
giovani e la terza fra gli adulti) si troveranno a primeggiare proprio
quando quel modello di sviluppo economico, liberista e globale, cui
hanno aderito di recente starà andando in frantumi. Saranno arrivati
troppo tardi.
Il ministro delle Finanze italiano, Giulio Tremonti, in un’intervista
al Corriere dello scorso inverno ha fatto trapelare fra le righe che
entro tre anni dobbiamo aspettarci un altro colpo tipo
"subprime". Lo
ha detto in modo velato sottolineando che mentre i valori finanziari
sono tornati ad essere quelli di tre anni fa, prima del crack, oggi
nel mondo ogni secondo si emettono miliardi di dollari o di euro di
debito pubblico. In altre parole: stiamo tamponando la crisi
immettendo nel sistema altro denaro inesistente, più tossico dei
titoli "tossici". Stiamo drogrando il cavallo già dopato
perché faccia
ancora qualche passo in avanti. Ma prima o poi il collasso definitivo
per overdose arriverà. Potrà non essere quello ipotizzato da Tremonti
fra tre anni ma quello successivo o quello successivo ancora, ma è
certo che arriverà. Ci sarà il crollo del mondo del denaro,
dell’"economia di carta" come la chiamò in un famoso e
preveggente
saggio del 1964 l’americano David T. Bazelon che, guarda caso, non era
un economista ma un intellettuale. E quando la gente delle città si
accorgerà che non può mangiarsi il cemento e bere il petrolio si
riverserà, disperata, nella campagna, quel poco che ne sarà rimasta,
venendo respinta a colpi di khalashnikov da coloro che, prudentemente,
non l’avranno abbandonata. Disegnando scenari apocalittici del resto
un’ottantina di anni prima di Bazelon il capo indiano Tatanga Jotanka,
alias "Toro seduto", ci aveva avvertito: "Quando avranno
inquinato
l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte,
pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter
mangiare il denaro accumulato nelle loro banche".
Il denaro, nella sua estrema essenza, è "futuro",
rappresentazione del
futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro,
simulazione del futuro ad uso del presente. Ma noi abbiamo messo in
circolazione una così colossale quantità di denaro da ipotecare questo
futuro fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo,
di fatto, inesistente. Prima o poi questo futuro, gravido dell’immenso
debito di cui l’abbiamo caricato, dilatato a dimensioni mostruose e
oniriche dalla nostra follia e dalla nostra fantasia, ci ricadrà
addosso come drammatico presente. Tutte le correnti di pensiero, sia
pur minoritarie, che ci hanno ragionato sopra (americane tra l’altro:
il bioregionalismo e il neocomunitarismo) parlano, per evitare
l’apocalisse prossima ventura, di un ritorno "graduale, limitato e
ragionato" a forme di autoproduzione e di autoconsumo che passano
necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento
drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale. I cinesi
hanno abbandonato la terra in favore dell’industrializzazione e del
libero mercato nel momento sbagliato. Saranno primi quando non avrà
più senso esserlo.

lunedì 15 novembre 2010

sabato 13 novembre 2010

La Papessa Giovanna

Intervista sulla Papessa Giovanna, proprio sui luoghi della sua tragica fine a Roma.

http://www.youtube.com/watch?v=TmW7YUgBSwY&feature=mfu_in_order&list=UL

Povera Italia, povera Padania




Questa è la sintei dei gravi difetti di questa classe politica. C’è l’arroganza del capo che, in barba alla legge, fuma tranquillamente il suo sigaro al chiuso, in un locale pubblico e durante un incontro istituzionale. C’è il braccio destro del capo che, invece di ricordare a quest’ultimo che sarebbe bene spegnere il sigaro, gli regge il portacenere. E c’è il figlio del capo che non ha avuto bisogno di meriti particolari, a parte essere il figlio del capo, per raggiungere e frequentare assiduamente le stanze del potere.
Impunità, arroganza, servilismo, nepotismo. Solo miseria e nessuna nobiltà. Povera Italia, povera Padania che sta affondando.

mercoledì 10 novembre 2010

L'arroganza della chiesa

La cattiveria che travalica i secoli



Giordano Bruno bruciato dalla cattiveria umana, dalla brutalità, dall'ignoranza. Ancora oggi i suoi carnefici vogliono incidere sulla politica italiana.
Il cappellano militare Bagnasco vocifera, vuole insegnare agli altri il buon governo, pensi alle sozzure del suo Vaticano, guardi nel suo misero campicello.
Siete sempre pronti a ferire, senza nessuna dignità. Usate il pacifismo quando vi accomoda.




Uno dei primi sottoscrittori del monumento di Campo de' fiori, il bostoniano George Hill, lanciò l'idea di un nuovo calendario che contasse gli anni a partire dalla morte di Bruno, che egli considerava l'inizio dell' "Era dell’uomo".

martedì 9 novembre 2010

Il forte di Rivoli Veronese



Uno dei più bei esempi di fortificazione austriaca che domina dalla collina incontrastato, un bianco anfiteatro alla fine dell Val d'Adige.
Fortezza costruita dopo la caduta di Napoleone esempio della capacità austoungarica di edificare costruzioni militari che allo stesso tempo erano veri e propri monumenti armoniosi e che si integravano con il paesaggio incantevole ed unico. Un forte solidissimo che domina incontrastato l'ultimo tratto dell'Adige ormai alle porte di Verona.Costruito per controllare e fermare i Piemontesi non sparo mai un colpo, come la fortezza nel romanzo il "Deserto dei Tartari" di Dino Buzzati, un avamposto di difesa che non fu mai attaccato.Sembra un tempio solido e allo stesso modo struggente ovunque vi troviate è presente e vi "osserva" occhio vigile che controlla e custodisce nelle sue viscere il ricordo dell'antico Casteliere.Il genio asburgico è riuscito a fondere la potenza con la grazia, la solidità con la bellezza e la difesa conciliando i simboli sacri. Un moderno castel del Monte che nei giorni di foschia sembra un sogno che galleggia e si erge sull'ultima valle dell'Adige prima della monotona pianura.