Il SAR Peladan.
mercoledì 31 luglio 2019
martedì 30 luglio 2019
DE GLI EROICI FURORI
Nell'opera,
inquadrabile nell'ambito della filosofia contemplativa, Bruno espone la
propria visione del rapporto fra uomo e conoscenza. In un universo
infinito, animato da un divino onnipresente ma irraggiungibile, l'uomo,
che ha come fine più alto la conoscenza della verità e la conseguente
azione adeguata, è mosso da una forza che sempre lo sospinge avanti,
assimilandolo a un eroe che con passione e a volte con impeto asseconda
razionalmente il suo amore infinito.
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Cattedrali: macchine del tempo per l'evoluzione dello spirito
La cattedrale è al centro della città medievale, che si sviluppa attorno a essa; non solo nel senso fisico – spesso le piazze e le strade sono pensate in modo da convergere nella cattedrale o irraggiarsi da essa – ma anche e soprattutto in senso vitale: le attività cittadine di tipo culturale, commerciale, artistico e civile tante volte ruotavano attorno alla cattedrale.
La storia ci informa che le università, ad esempio, sono nate proprio dalle “scholae” radunate nelle cattedrali. In alcune di esse, come nel duomo di Modena, sono scolpite all’esterno anche le “misure” che servivano per le compravendite nei giorni di mercato. È una ricchezza, quella dell’intreccio fra cattedrale e città medievale, che non si può richiamare solo come nostalgia dei tempi andati.
Con i dovuti e radicali aggiornamenti, la cattedrale oggi può tornare a essere centro propulsore della vita cittadina. La chiave è quella della missione evangelizzatrice. Una cattedrale deve essere una “casa” e non un museo, anche quando – come di solito avviene – ospita manufatti di grande pregio artistico. Deve avere, in altre parole, una sua vita: liturgie curate non solo nelle occasioni solenni ma anche, con sobrietà, in quelle feriali; possibilità di accedere alla confessione sacramentale per tutto il tempo dell’apertura; qualche iniziativa di predicazione e annuncio della Parola di Dio, ascolto della musica sacra e celebrazione di eventi culturali “alti”, sullo stile del “Cortile dei gentili” ideato da papa Benedetto XVI.
La cattedrale, poi, è luogo di riferimento per tutte le chiese diocesane. Essa è la “madre” delle altre chiese, che in molti casi nascono come sue derivazioni e quasi espansione della presenza ecclesiale anche nelle periferie e nei villaggi. Per questo le è richiesta una esemplarità, soprattutto nella celebrazione liturgica.
In molti casi, tuttavia, le cattedrali sono state edificate sulla base di criteri liturgici diversi da quelli recuperati e proposti dal Concilio Vaticano II, specialmente per quanto riguarda la celebrazione eucaristica. Il duomo di Modena, ad esempio, presenta un presbiterio originario sopraelevato di circa quattro metri rispetto al piano dell’assemblea liturgica; per questo dopo il Concilio è stato opportunamente realizzato un presbiterio inferiore. Se nel XII secolo spesso l’esperienza della Messa era vissuta come “spettacolo” sacro a cui assistere dal basso, il Vaticano II ha rimesso in primo piano la partecipazione del popolo di Dio, che richiede anche la visibilità dell’altare, dell’ambone e del presidente. Gli adeguamenti liturgici, per quanto raccomandati e normati, in qualche caso non sono facili e non riescono sempre ad armonizzare le legittime esigenze artistiche con le altrettanto giuste istanze liturgiche. È un lavoro da compiere secondo lo stile del “discernimento comunitario”: pastori e fedeli insieme.
Mi sembra che la cattedrale viva su tre grandi spazi, ai quali corrispondono altrettanti tempi. Esiste lo spazio della cripta, originariamente luogo del culto delle reliquie e successivamente, dal Medioevo, anche dell’adorazione eucaristica; è lo spazio della preghiera personale, del rapporto intimo con il Signore. E custodisce il tempo della storia e del mistero: la storia locale, rappresentata dalle reliquie del santo o dei santi, e il mistero della spiritualità personale. Esiste poi lo spazio dell’aula, a una o più navate, che è il luogo della liturgia e della celebrazione, con l’assemblea convocata che si nutre della Parola, dei sacramenti e specialmente dell’Eucaristia. È lo spazio della comunione, nel quale la comunità cristiana rinsalda i legami al proprio interno. E custodisce il tempo liturgico-escatologico. Infine esiste lo spazio della piazza, aperto verso la città e la sua vita. È lo spazio della missione, l’incontro con l’esistenza umana nella sua vita quotidiana, il richiamo all’annuncio e alla testimonianza. E custodisce il tempo dell’uomo, con i suoi ritmi di lavoro e di riposo, le sue gioie e le sue fatiche. Cattedrale e città sono un tutt’uno, pur nella rispettiva delimitazione spaziale e temporale.
Queste tre dimensioni – mistero, comunione e missione – incise nella concezione stessa della cattedrale sono altrettanti fasci di luce irradiati dal Signore sulla Chiesa e sulla città...
L'immagine sotto: il duomo di Modena, la zona presbiteriale
sabato 27 luglio 2019
Nicolas Flamel
(Pontoise, fl. 1330 – Parigi, 1418) fu uno scrivano pubblico, libraio e alchimista francese.
La reputazione di Flamel come alchimista nacque dopo la sua morte, quando venne collegato alla leggenda della pietra filosofale da una serie di opere alchemiche, pubblicate nel XVII e a lui attribuite, ma considerate apocrife. Flamel visse a Parigi nel XIV e XV secolo. Condusse due negozi come scrivano e sposò una vedova di nome Perenelle, più vecchia di lui e dotata di buon patrimonio, che morì nel 1397. I due avevano diverse proprietà ed effettuavano cospicue donazioni alla Chiesa, comprese le commissioni di diverse sculture. Una delle abitazioni appartenute a Flamel è ancora esistente, al 51 di rue de Montmorency. È considerata la più antica casa in pietra di Parigi.
A Parigi gli è stata dedicata una strada nei pressi del Museo del Louvre, rue Nicolas Flamel, che interseca rue Pernelle, dedicata alla moglie.
Nel 1410 Flamel progettò la propria pietra tombale, scolpita con immagini del Cristo, di San Pietro e San Paolo, conservata al Museo Nazionale del Medioevo (nell’Hôtel de Cluny) a Parigi. Tale dettaglio sarà oggetto di numerose interpretazioni successive. In questo periodo, Flamel contribuì anche nel restauro del vecchio Cimitero degli Innocenti di Parigi, per la realizzazione di strutture arcate poste sopra le murate, al fine di contenere le ossa dei cadaveri in eccesso. Il suo testamento, datato 22 novembre 1416, indica una certa agiatezza ma non la straordinaria ricchezza vantata nelle leggende alchemiche posteriori. Del resto, al di là dei testi apocrifi, non ci sono altre testimonianze che il Flamel storico abbia effettivamente esercitato l’alchimia, la medicina o la farmacia. [4] [1] Fu sepolto a Parigi, nel 1418, al Museo di Cluny, verso la fine della navata della vecchia Chiesa di Saint-Jacques-de-la-Boucherie.
Il mito del Flamel alchimista
La leggenda sul Flamel alchimista eccelso, che riuscì ad ottenere la pietra filosofale e l’immortalità, è basata in primo luogo su pubblicazioni del XVII secolo. L’opera centrale è Le livre des figures hiéroglyphiques , pubblicato a Parigi nel 1612 e, come Exposition of the Hieroglyphical Figures, a Londra nel 1624.
Si tratta di una collezione di disegni per un timpano del Cimetière des Innocents, presumibilmente recuperata dopo una lunga scomparsa. Nell’introduzione l’editore descrive gli sforzi di Flamel per venire a capo dei contenuti di un misterioso libretto di 21 pagine da lui acquistato dopo un sogno in cui gli avrebbe fatto visita un angelo, indicandoglielo. Flamel attorno al 1378 si sarebbe recato in Spagna per cercare aiuto, incontrando sulla via del ritorno un sapiente che avrebbe riconosciuto nel libro una copia del grimorio “la magia sacra di Abramelin il mago”. Flamel e la moglie negli anni successivi, anche tramite lo studio di testi cabalistici, sarebbero riusciti a decifrarne il contenuto, ottenendo la pietra filosofale, capace di tramutare i metalli comuni in oro, e l’Elisir di lunga vita.
Il fondamento di tale storia venne contestata già nel 1761 da Etienne Villain. Questi sosteneva che l’ideatore della leggenda era lo stesso editore dell’opera, P. Arnauld de la Chevalerie, che si sarebbe nascosto con lo pseudonimo di Eiranaeus Orandus. [4] Tuttavia la storia di Flamel l’alchimista era ormai stata adottata da diversi autori attivi nel campo dell’occulto e del fantastico, che l’avevano ulteriormente arricchita di dettagli.
Riferimenti alla leggenda appaiono ad esempio in scritti di Isaac Newton noto per gli interessi alchemici. La figura di Flamel tornò alla ribalta nel diciannovesimo secolo. Viene ad esempio menzionato da Victor Hugo nel romanzo Notre-Dame de Paris e da Albert Pike in Morals and Dogma of the Scottish Rite of Freemasonry. Viene citato come figura ispiratrice da André Breton nel “secondo manifesto surrealista”. Ha poi trovato ampia adozione nella letteratura popolare e nei media negli ultimi decenni.
La reputazione di Flamel come alchimista nacque dopo la sua morte, quando venne collegato alla leggenda della pietra filosofale da una serie di opere alchemiche, pubblicate nel XVII e a lui attribuite, ma considerate apocrife. Flamel visse a Parigi nel XIV e XV secolo. Condusse due negozi come scrivano e sposò una vedova di nome Perenelle, più vecchia di lui e dotata di buon patrimonio, che morì nel 1397. I due avevano diverse proprietà ed effettuavano cospicue donazioni alla Chiesa, comprese le commissioni di diverse sculture. Una delle abitazioni appartenute a Flamel è ancora esistente, al 51 di rue de Montmorency. È considerata la più antica casa in pietra di Parigi.
A Parigi gli è stata dedicata una strada nei pressi del Museo del Louvre, rue Nicolas Flamel, che interseca rue Pernelle, dedicata alla moglie.
Nel 1410 Flamel progettò la propria pietra tombale, scolpita con immagini del Cristo, di San Pietro e San Paolo, conservata al Museo Nazionale del Medioevo (nell’Hôtel de Cluny) a Parigi. Tale dettaglio sarà oggetto di numerose interpretazioni successive. In questo periodo, Flamel contribuì anche nel restauro del vecchio Cimitero degli Innocenti di Parigi, per la realizzazione di strutture arcate poste sopra le murate, al fine di contenere le ossa dei cadaveri in eccesso. Il suo testamento, datato 22 novembre 1416, indica una certa agiatezza ma non la straordinaria ricchezza vantata nelle leggende alchemiche posteriori. Del resto, al di là dei testi apocrifi, non ci sono altre testimonianze che il Flamel storico abbia effettivamente esercitato l’alchimia, la medicina o la farmacia. [4] [1] Fu sepolto a Parigi, nel 1418, al Museo di Cluny, verso la fine della navata della vecchia Chiesa di Saint-Jacques-de-la-Boucherie.
Il mito del Flamel alchimista
La leggenda sul Flamel alchimista eccelso, che riuscì ad ottenere la pietra filosofale e l’immortalità, è basata in primo luogo su pubblicazioni del XVII secolo. L’opera centrale è Le livre des figures hiéroglyphiques , pubblicato a Parigi nel 1612 e, come Exposition of the Hieroglyphical Figures, a Londra nel 1624.
Si tratta di una collezione di disegni per un timpano del Cimetière des Innocents, presumibilmente recuperata dopo una lunga scomparsa. Nell’introduzione l’editore descrive gli sforzi di Flamel per venire a capo dei contenuti di un misterioso libretto di 21 pagine da lui acquistato dopo un sogno in cui gli avrebbe fatto visita un angelo, indicandoglielo. Flamel attorno al 1378 si sarebbe recato in Spagna per cercare aiuto, incontrando sulla via del ritorno un sapiente che avrebbe riconosciuto nel libro una copia del grimorio “la magia sacra di Abramelin il mago”. Flamel e la moglie negli anni successivi, anche tramite lo studio di testi cabalistici, sarebbero riusciti a decifrarne il contenuto, ottenendo la pietra filosofale, capace di tramutare i metalli comuni in oro, e l’Elisir di lunga vita.
Il fondamento di tale storia venne contestata già nel 1761 da Etienne Villain. Questi sosteneva che l’ideatore della leggenda era lo stesso editore dell’opera, P. Arnauld de la Chevalerie, che si sarebbe nascosto con lo pseudonimo di Eiranaeus Orandus. [4] Tuttavia la storia di Flamel l’alchimista era ormai stata adottata da diversi autori attivi nel campo dell’occulto e del fantastico, che l’avevano ulteriormente arricchita di dettagli.
Riferimenti alla leggenda appaiono ad esempio in scritti di Isaac Newton noto per gli interessi alchemici. La figura di Flamel tornò alla ribalta nel diciannovesimo secolo. Viene ad esempio menzionato da Victor Hugo nel romanzo Notre-Dame de Paris e da Albert Pike in Morals and Dogma of the Scottish Rite of Freemasonry. Viene citato come figura ispiratrice da André Breton nel “secondo manifesto surrealista”. Ha poi trovato ampia adozione nella letteratura popolare e nei media negli ultimi decenni.
il Sass da Preja Buia
Il sasso si trova appena al di fuori dell'abitato di Sesto Calende (VA), in aperta campagna, vicinissimo al punto dove sorge un altro luogo sacro: l'oratorio di san Vincenzo.
Sacro continum...pare, infatti, che l'oratorio le cui fondamenta risalgono al X-XI secolo sorga su un tempio pagano...uhmmm se due più due fa quattro non dobbiamo stupircene affatto... Inoltre, se si ha la fortuna di visitare l'interno dell'oratorio campestre, ora piuttosto spoglio, si scopriranno due frammenti di affreschi molto significativi, il primo rappresentante San Giorgio ed il drago, il secondo i Re Magi, simbolo della Natività; ciò non fa che rendere ancora più affascinante e magico questo posto, dove fino a poco tempo fa le giovani donne si recavano a pregare per propiziarsi il dono della fertilità.Si tratta di un masso erratico in serpentinite verde di grosse dimensioni risalente all'Era Quaternaria, precisamente all'ultima glaciazione del Neozoico. Il ghiacciaio, nel ritirasi, trascinò sia materiale morenico sia dei grandi sassi, che come questo, appunto, è letteralmente scivolato fin qui dalla Val d'Ossola. Il masso erratico di Preja Buja è monumento naturale regionale vista la sua importanza storica e geologica.
La roccia bronzea racchiude in sé un arcano potere dovuto alle sue caratteristiche magnetiche: in questo luogo la bussola smette di funzionare e l'ago impazzisce!
In epoche antiche e remote, si pensa che il Sass da Preja Buia fosse utilizzato come altare sacrificale. Lo si deduce dai numerosi petroglifi e coppelle , poste su una seconda pietra, più piccola, collocata ai piedi del masso vero e propri.Forse, proprio la presenza delle coppelle ha determinato l'etimologia del termine büja, nel senso di "bucata". Su questa pietra sacra, adibita ad altare, si praticavano riti pagani con una valenza simbolica legata al culto della fertilità, culto che si è protratto sino all'inizio del secolo scorso; le giovani spose si recavano infatti al masso, simbolo di maternità a chiedere, agli dei pagani prima e al Dio cristiano poi, la grazia di poter generare un figlio e la protezione della creatura che custodivano in grembo durante la gravidanza.
Sappiamo ormai che tutti i popoli antichi per spiegarsi ed esorcizzare l'ignoto crearono miti e leggende e anche questo enorme monolito ha stimolato la fantasia popolare..
La Paleo-astronomia (disciplina che si riferisce alla pratica dell’astronomia tra le civiltà del mondo antico), ipotizza invece che il masso sia stato modellato, probabilmente dai nostri avi celtici tra il IX e l’VIII sec. a.C., per darvi la forma di ariete.L’ariete, antico simbolo di fecondità e virilità è il primo segno dello zodiaco e corrisponde all’equinozio di primavera, momento di rinascita della natura. Il 21 marzo il sole illumina l’occhio dell’ariete nel megalite della Preja Buja, inciso nel sasso a forma di sole.
Leggende e fantasia, scienza, geologia, archeologia, astronomia ed antropologia si fondono insieme in questo luogo sacro, i contorni sbiadiscono e si fondono insieme nel cerchio magico della nascita e della vita!...
venerdì 26 luglio 2019
La Chiesa e la Danza...
….
Spiriti, fantasmi, apparizioni è ampio il repertorio degli orrori che invadono la scena dell’uomo medievale. E’ stato sfatato, ormai, il tabù che vuole il Medioevo un periodo triste e buio. Dagli occhiali all’orologio, dalla carta ai bottoni, dalle note musicali fino alla danza la cui attività, prima che venisse elaborata grazie ad una serie di trattati scritti dai maestri di ballo, era considerata ancora festosa, quasi si confondeva al gioco. La società medievale, improntata principalmente sulle teorie del Cattolicesimo, è un sistema religioso chiuso in cui tutto è spiegabile ricorrendo alla Fede. E con l’avvento del Cristianesimo, le invettive contro il danzare diventano sempre più frequenti tant’è che Sant’Agostino, uno dei Padri della Chiesa, si esprimeva in questi toni: “…codesti infelici e miseri uomini che praticano i balli e le danze proprio davanti alle basiliche dei santi, non hanno timore nè arrossiscono…”. Una delle caratteristiche basilari della danza è quella di avere un forte potere comunicativo. Nel corso della storia, infatti, Re e Regine hanno ben governato servendosi di quella formula magica conosciuta con il nome di danza. Ciò si traduceva in rituali, feste, matrimoni, banchetti che forgiano le coscienze delle masse attraverso lo svago coreutico. Nel Medioevo “il corpo è luogo di un paradosso” , poiché è sede del peccato. Con le deliberazioni di alcuni Concili tenutisi tra il 589 ed il 654 d.c. si tenta di regolamentare le manifestazioni nei luoghi sacri.
Si stabilisce, ad esempio, che l’avversione per la pratica coreica dovesse considerarsi accentuata se praticata negli edifici sacri, oppure se praticata dal Clero. Ma perché la danza è stata ostacolata dalla Chiesa? Le condanne hanno come obiettivo l’oscenità proprie dell’esibizione in quanto, secondo le autorità ecclesiastiche, chi danza usa il proprio corpo per fini illeciti, spettacolarizzando il peccato. Dunque immorale. Nell’Alto Medio Evo i Padri della Chiesa si scagliano a più riprese contro l’uso del danzare specialmente nei cimiteri, nelle Chiese, nelle Processioni anche se i divieti non sempre vengono rispettati. Premesso che l’atteggiamento censorio è comunque connesso al binomio danza-culto pagano, la religione Cattolica nel Medioevo mostra comunque un duplice atteggiamento nei confronti degli spettacoli di danza. Se da un lato il corpo in movimento è oggetto di trasgressione e pertanto perseguibile moralmente, d’altro canto viene utilizzata come mezzo di edificazione e di propagazione della Fede. Ciò è vero poiché sono attestate nella Chiesa d’Oriente forme liturgiche assimilabili del tutto a danze religiose. Verosimilmente il Cristianesimo non ha cambiato il modo di concepire ed eseguire le danze, difatti ritroviamo tutti i temi delle civiltà precedenti, dalla fertilità alla morte ai raccolti alle nozze. A partire dal XI secolo, una nuova spinta innovativa avviene ad opera delle concezioni di San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura secondo i quali il divertimento può essere utile per il riposo dell’anima. Bisogna sottolineare, infatti, come la danza abbia la finalità di ammaliare, di attirare a sé, di facilitare la persuasione proprio perché rientra nella sua natura. Probabilmente per troppo tempo la Chiesa ha considerato l’arte al servizio della gloria di Dio allo scopo di migliorare gli uomini. E’ il concetto dell’ancilla theologiae, la storia si trasforma in teologia della storia in considerazione dei disegni divini, ma sarà così ancora nei secoli a venire? Già nel Quattrocento, d’altronde, una bolla di Papa Eugenio IV autorizza lo svolgimento di certe manifestazioni coreutiche, a testimonianza di un atteggiamento positivo della Chiesa nei confronti dell’arte coreutica. Con la scoperta delle Americhe il “millennio medievale” volge al termine, almeno secondo gli storici. Una nuova concezione dell’uomo, di Rinascita, vede impegnata la società. Non fa eccezione la danza che entrerà a far parte dell’alveo di altri vitali spazi istituzioni, quelle delle Corti Rinascimentali…
Spiriti, fantasmi, apparizioni è ampio il repertorio degli orrori che invadono la scena dell’uomo medievale. E’ stato sfatato, ormai, il tabù che vuole il Medioevo un periodo triste e buio. Dagli occhiali all’orologio, dalla carta ai bottoni, dalle note musicali fino alla danza la cui attività, prima che venisse elaborata grazie ad una serie di trattati scritti dai maestri di ballo, era considerata ancora festosa, quasi si confondeva al gioco. La società medievale, improntata principalmente sulle teorie del Cattolicesimo, è un sistema religioso chiuso in cui tutto è spiegabile ricorrendo alla Fede. E con l’avvento del Cristianesimo, le invettive contro il danzare diventano sempre più frequenti tant’è che Sant’Agostino, uno dei Padri della Chiesa, si esprimeva in questi toni: “…codesti infelici e miseri uomini che praticano i balli e le danze proprio davanti alle basiliche dei santi, non hanno timore nè arrossiscono…”. Una delle caratteristiche basilari della danza è quella di avere un forte potere comunicativo. Nel corso della storia, infatti, Re e Regine hanno ben governato servendosi di quella formula magica conosciuta con il nome di danza. Ciò si traduceva in rituali, feste, matrimoni, banchetti che forgiano le coscienze delle masse attraverso lo svago coreutico. Nel Medioevo “il corpo è luogo di un paradosso” , poiché è sede del peccato. Con le deliberazioni di alcuni Concili tenutisi tra il 589 ed il 654 d.c. si tenta di regolamentare le manifestazioni nei luoghi sacri.
Si stabilisce, ad esempio, che l’avversione per la pratica coreica dovesse considerarsi accentuata se praticata negli edifici sacri, oppure se praticata dal Clero. Ma perché la danza è stata ostacolata dalla Chiesa? Le condanne hanno come obiettivo l’oscenità proprie dell’esibizione in quanto, secondo le autorità ecclesiastiche, chi danza usa il proprio corpo per fini illeciti, spettacolarizzando il peccato. Dunque immorale. Nell’Alto Medio Evo i Padri della Chiesa si scagliano a più riprese contro l’uso del danzare specialmente nei cimiteri, nelle Chiese, nelle Processioni anche se i divieti non sempre vengono rispettati. Premesso che l’atteggiamento censorio è comunque connesso al binomio danza-culto pagano, la religione Cattolica nel Medioevo mostra comunque un duplice atteggiamento nei confronti degli spettacoli di danza. Se da un lato il corpo in movimento è oggetto di trasgressione e pertanto perseguibile moralmente, d’altro canto viene utilizzata come mezzo di edificazione e di propagazione della Fede. Ciò è vero poiché sono attestate nella Chiesa d’Oriente forme liturgiche assimilabili del tutto a danze religiose. Verosimilmente il Cristianesimo non ha cambiato il modo di concepire ed eseguire le danze, difatti ritroviamo tutti i temi delle civiltà precedenti, dalla fertilità alla morte ai raccolti alle nozze. A partire dal XI secolo, una nuova spinta innovativa avviene ad opera delle concezioni di San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura secondo i quali il divertimento può essere utile per il riposo dell’anima. Bisogna sottolineare, infatti, come la danza abbia la finalità di ammaliare, di attirare a sé, di facilitare la persuasione proprio perché rientra nella sua natura. Probabilmente per troppo tempo la Chiesa ha considerato l’arte al servizio della gloria di Dio allo scopo di migliorare gli uomini. E’ il concetto dell’ancilla theologiae, la storia si trasforma in teologia della storia in considerazione dei disegni divini, ma sarà così ancora nei secoli a venire? Già nel Quattrocento, d’altronde, una bolla di Papa Eugenio IV autorizza lo svolgimento di certe manifestazioni coreutiche, a testimonianza di un atteggiamento positivo della Chiesa nei confronti dell’arte coreutica. Con la scoperta delle Americhe il “millennio medievale” volge al termine, almeno secondo gli storici. Una nuova concezione dell’uomo, di Rinascita, vede impegnata la società. Non fa eccezione la danza che entrerà a far parte dell’alveo di altri vitali spazi istituzioni, quelle delle Corti Rinascimentali…
Porte verso l'eternità
PORTA MISTICA DI RIVODUTRI
A poco più di un centinaio di chilometri da Roma esiste da tempo una strana “porta” adornata da simboli che rimandano sia al “Cantico dei Cantici” di Salomone e, in parte, anche all’Ars Regia, insieme ad alcune scritte di non facile interpretazione e da tutta una serie di messaggi che la fanno assomigliare alla sua omologa di Piazza Vittorio Emanuele II, La “Porta Alchemica” di Roma. Si tratta della “Porta”di Rivodutri,” – che ci piacerebbe denominare “Porta Mistica” – piccolo paese a pochi chilometri da Rieti. La “Porta Mistica”, forse e più nota in ambito locale come ”Porta Nicolò” è un singolare monumento di notevole valore artistico, databile tra la fine del XVI secolo e gli inizi del secolo successivo.
Non si conosce con sicurezza né il nome del committente, né quello di chi la eseguì. Di certo quest’ultimo doveva essere un artigiano dotato di notevoli doti artistiche e forse non digiuno della simbologia legata a temi biblici, alla Grande Opera, alle trasutazioni alchemiche. La “Porta Mistica” di Rivodutri – dalle poche notizie che è stato possibile ricavare – in origine faveva parte di un edificio lasciato in testamento, nel 1757, da messer Bernardino Camisciotti alla famiglia Nicolò e da tale nucleo familiare ceduto al Comune di Rivodutri, nel 1874, per adibirlo a scuola.
Alla fine del XIX secolo tale edificio fu smontato per allargare la via principale, ora via Umberto I, e rimontata su un nuovo edificio.
Poi nel 1948 un terremoto rase al suolo l’edificio ma la “Porta” si salvò dalla distruzione e le sue parti furono conservate per poi esser ricostruite nell’attuale sede, all’ingresso di un picolo giardino affacciato sulla valle sottostante.
A poco più di un centinaio di chilometri da Roma esiste da tempo una strana “porta” adornata da simboli che rimandano sia al “Cantico dei Cantici” di Salomone e, in parte, anche all’Ars Regia, insieme ad alcune scritte di non facile interpretazione e da tutta una serie di messaggi che la fanno assomigliare alla sua omologa di Piazza Vittorio Emanuele II, La “Porta Alchemica” di Roma. Si tratta della “Porta”di Rivodutri,” – che ci piacerebbe denominare “Porta Mistica” – piccolo paese a pochi chilometri da Rieti. La “Porta Mistica”, forse e più nota in ambito locale come ”Porta Nicolò” è un singolare monumento di notevole valore artistico, databile tra la fine del XVI secolo e gli inizi del secolo successivo.
Non si conosce con sicurezza né il nome del committente, né quello di chi la eseguì. Di certo quest’ultimo doveva essere un artigiano dotato di notevoli doti artistiche e forse non digiuno della simbologia legata a temi biblici, alla Grande Opera, alle trasutazioni alchemiche. La “Porta Mistica” di Rivodutri – dalle poche notizie che è stato possibile ricavare – in origine faveva parte di un edificio lasciato in testamento, nel 1757, da messer Bernardino Camisciotti alla famiglia Nicolò e da tale nucleo familiare ceduto al Comune di Rivodutri, nel 1874, per adibirlo a scuola.
Alla fine del XIX secolo tale edificio fu smontato per allargare la via principale, ora via Umberto I, e rimontata su un nuovo edificio.
Poi nel 1948 un terremoto rase al suolo l’edificio ma la “Porta” si salvò dalla distruzione e le sue parti furono conservate per poi esser ricostruite nell’attuale sede, all’ingresso di un picolo giardino affacciato sulla valle sottostante.
Il cristianesimo dei primi tempi:atipico
BASILICA DI FELICE E ADAUTTO
(Chiesa rupestre – VI secolo)
Roma-Ostiense (RM)
La basilica dei Santi Felice e Adautto, realizzata agli inizi del VI secolo all’interno delle catacombe di Commodilla, secondo l’ipotesi di alcuni archeologi, è il luogo dove questi furono sepolti in due loculi sovrapposti, peraltro situati al di sotto della traditio clavium, l’affresco della seconda metà del IV secolo che li raffigura assieme al Cristo in trono tra i santi Pietro e Paolo. Senza trascurare l’altro grande e bizantineggiante dipinto della Vergine con Bambino affiancata da Felice, Adautto e Turtura (prima metà del VI secolo) e, poco distante, quello di san Luca (seconda metà del VII secolo), raffigurato con i ferri del mestiere, e l’altro della Consegna delle chiavi a Pietro (VI secolo), che fanno della piccola basilica un prezioso scrigno d’arte altomedievale.
(Chiesa rupestre – VI secolo)
Roma-Ostiense (RM)
La basilica dei Santi Felice e Adautto, realizzata agli inizi del VI secolo all’interno delle catacombe di Commodilla, secondo l’ipotesi di alcuni archeologi, è il luogo dove questi furono sepolti in due loculi sovrapposti, peraltro situati al di sotto della traditio clavium, l’affresco della seconda metà del IV secolo che li raffigura assieme al Cristo in trono tra i santi Pietro e Paolo. Senza trascurare l’altro grande e bizantineggiante dipinto della Vergine con Bambino affiancata da Felice, Adautto e Turtura (prima metà del VI secolo) e, poco distante, quello di san Luca (seconda metà del VII secolo), raffigurato con i ferri del mestiere, e l’altro della Consegna delle chiavi a Pietro (VI secolo), che fanno della piccola basilica un prezioso scrigno d’arte altomedievale.
Monumenti inquietanti della provenza celtica
Portale
in calcare, con nicchie in cui sono collocati crani umani (circa I sec.
a.C.), proveniente da Roquepertuse, antico centro religioso celtico nei
pressi della città di Velaux, in Provenza, ora al Musée-Borély di
Marsiglia, Francia.
La presenza di teste separate dal corpo, anche nella scultura, è un tratto molto ricorrente nell’arte celtica, che ha fatto pensare a una sorta di “culto delle teste”. È probabile infatti che le teste di guerrieri morti in battaglia venissero conservate: gli autori latini riferiscono (con raccapriccio) l’usanza delle popolazioni germaniche di appendere le teste dei nemici uccisi accanto alla capanna dei capi o alle briglie dei cavalli dei guerrieri vittoriosi. Nell’epica irlandese, l’eroe Cu Chulainn ritorna dalla battaglia recando nove teste in una mano e dieci nell’altra. Le tradizioni mitiche enfatizzano inoltre la sacralità della testa, riferendo come la testa di alcuni eroi, come il gallese Brân il Benedetto, continuassero a parlare per lungo tempo dopo essere state recise dal corpo.
Sembra che i Celti percepissero i confini tra mondo dei vivi e mondo dei morti come tenui e permeabili: alcuni luoghi, come il focolare o la tomba erano considerati punti di passaggio, attraverso i quali i defunti potevano ritornare in contatto con il mondo che avevano lasciato con la morte. Nel periodo più antico i Celti continentali praticavano l’inumazione dei cadaveri, ma nel periodo più tardo iniziarono a cremare i morti, forse su influenza dei costumi romani. Tra i Celti insulari, tuttavia, non vi sono tracce di inumazione prima del I sec. a.C., un indice del fatto che i defunti venivano cremati o lasciati decomporre all’aperto. Sembra che i morti non occupassero un mondo radicalmente separato da quello dei viventi, ma che esistesse una certa contiguità, che consentiva ai morti di entrare periodicamente in relazioni con i vivi. Questo era consentito soprattutto durante la festa di Samhain, il primo novembre, quando lo schermo che separava i due mondi si assottigliava fino a svanire per un breve periodo. Luoghi marginali, liminari, come grotte o paludi, erano considerati vie di accesso attraverso le quali si poteva penetrare in questa “altra dimensione”, in cui vivevano i morti, le divinità e gli spiriti, e che esisteva a fianco di quella degli uomini. In questo mondo alternativo, il tempo scorreva in modo diverso rispetto al nostro, per cui un breve soggiorno al di là del confine tra i mondi poteva significare un periodo di centinaia di anni nel mondo umano. Questo spiegava perché coloro che vivevano nel mondo invisibile non erano soggetti all’invecchiamento e alla morte. Tale mondo era chiamato in vari modi: Mag Mell (“Pianura del Miele”), Tir Na Nog (“Terra della Giovinezza”) o Avalon ...
La presenza di teste separate dal corpo, anche nella scultura, è un tratto molto ricorrente nell’arte celtica, che ha fatto pensare a una sorta di “culto delle teste”. È probabile infatti che le teste di guerrieri morti in battaglia venissero conservate: gli autori latini riferiscono (con raccapriccio) l’usanza delle popolazioni germaniche di appendere le teste dei nemici uccisi accanto alla capanna dei capi o alle briglie dei cavalli dei guerrieri vittoriosi. Nell’epica irlandese, l’eroe Cu Chulainn ritorna dalla battaglia recando nove teste in una mano e dieci nell’altra. Le tradizioni mitiche enfatizzano inoltre la sacralità della testa, riferendo come la testa di alcuni eroi, come il gallese Brân il Benedetto, continuassero a parlare per lungo tempo dopo essere state recise dal corpo.
Sembra che i Celti percepissero i confini tra mondo dei vivi e mondo dei morti come tenui e permeabili: alcuni luoghi, come il focolare o la tomba erano considerati punti di passaggio, attraverso i quali i defunti potevano ritornare in contatto con il mondo che avevano lasciato con la morte. Nel periodo più antico i Celti continentali praticavano l’inumazione dei cadaveri, ma nel periodo più tardo iniziarono a cremare i morti, forse su influenza dei costumi romani. Tra i Celti insulari, tuttavia, non vi sono tracce di inumazione prima del I sec. a.C., un indice del fatto che i defunti venivano cremati o lasciati decomporre all’aperto. Sembra che i morti non occupassero un mondo radicalmente separato da quello dei viventi, ma che esistesse una certa contiguità, che consentiva ai morti di entrare periodicamente in relazioni con i vivi. Questo era consentito soprattutto durante la festa di Samhain, il primo novembre, quando lo schermo che separava i due mondi si assottigliava fino a svanire per un breve periodo. Luoghi marginali, liminari, come grotte o paludi, erano considerati vie di accesso attraverso le quali si poteva penetrare in questa “altra dimensione”, in cui vivevano i morti, le divinità e gli spiriti, e che esisteva a fianco di quella degli uomini. In questo mondo alternativo, il tempo scorreva in modo diverso rispetto al nostro, per cui un breve soggiorno al di là del confine tra i mondi poteva significare un periodo di centinaia di anni nel mondo umano. Questo spiegava perché coloro che vivevano nel mondo invisibile non erano soggetti all’invecchiamento e alla morte. Tale mondo era chiamato in vari modi: Mag Mell (“Pianura del Miele”), Tir Na Nog (“Terra della Giovinezza”) o Avalon ...
Quando il sacro è nel tessuto
Esistono in Indonesia popolazioni quali gli Iban che ancora oggi sono
molto conosciuti per la creazione di tessuti lavorati a mano, utilizzati
durante i rituali e in ogni pratica religiosa. Le popolazioni Iban
credono che nel profondo delle trame di queste stoffe vi sia un potere
spirituale in grado di attirare la benevolenza degli spiriti. Questi
tessuti sono chiamati comunemente Ikat o anche ‘pua kumbu’.
La parola “ikat” è in sé un procedimento per la tintura dei filati e ci sono varie diatribe sul significato di questo termine: alcuni sostengono significhi “nuvola”, altri che significhi legare insieme. Pablo Picasso, fra i più illustri conoscitori di quest’arte, la definì “una tecnica appassionante, trascendentale e di notevole importanza”. L’ikat tecnicamente è una “tintura a riserva”, cioè un tipo di tintura dove parti dei filati vengono protette tramite una stretta legatura per non essere tinte, mentre le parti non legate si colorano. Con la parola ikat peró non si intende solo la tecnica, della tessitura ma anche i tessuti stessi fatti a mano, colorati con la stessa tecnica. L’ikat si distingue facilmente dalle imitazioni stampate, per la tipica compenetrazione e fusione dei colori nei punti di inizio e fine dei disegni. Questo tipo di tessitura veniva generalmente riservata alle donne, mentre agli uomini veniva permesso di occuparsi della tintura di alcuni fili.
Le fasi di tintura richiedevano la massima segretezza e spesso la zona dedicata a queste operazioni era all’interno delle longhouses (le case lunghe) ed era protetta da pareti divisorie. Gli intrusi venivano cacciati pubblicamente e per punizione costretti ad assaggiare il colore. I fili dovevano venir montati sul telaio solo in un giorno propizio, altrimenti si sarebbero spezzati e in alcuni villaggi costieri erano necessarie la luna piena e l’alta marea. Se nel villaggio si verificava un caso di morte, le operazioni di tessitura venivano interrotte immediatamente, per evitare che lo spirito del defunto si vendicasse portando malattie ai tessitori e indebolendo i fili. I tessuti erano e sono tutt’ora considerati ‘sacri’. Il prodotto finito veniva consacrato, e forse proprio per questo si riteneva che certi tessuti avessero poteri in grado di proteggere il tessitore e che la loro presenza fosse necessaria per l’esecuzione di magie e rituali nelle pratiche concernenti il ciclo vitale. Durante la caccia alle teste nei secoli scorsi, le donne accoglievano i guerrieri al ritorno da un combattimento, avvolgendo la testa tagliata del nemico in un ikat preparato appositamente per l’evento, il cui colore predominante era ed é sempre il rosso scuro. Gli ikat rivestivano e tutt’oggi rivestono un ruolo importante all’interno della società basti pensare al massimo status sociale della quale viene investita la tessitrice più competente. Ad oggi ci sono pochissimi studi pubblicati su questa arte, se ne possono trovare alcuni riguardanti la tecnica, i colori, i disegni, ma quasi nessuno che abbia mai trattato del vero significato e soprattutto dell’interpretazione dei simboli rappresentati. Gli ikat vengono utilizzati per la maggior parte dei rituali nella vita di ogni persona, dalla nascita alla morte e spesso vengono chiamati “sogni tessuti” poiché rappresentano la trasposizione dei sogni delle donne Iban. In generale, l’esperienza onirica e i sogni sono un importante mezzo di contatto con il mondo sovrannaturale, infatti c’è una comune credenza tra queste popolazioni secondo la quale l’anima umana può entrare o lasciare il corpo generalmente attraverso la fontanella del cranio. È specialmente durante i sogni che l’anima dell’individuo abbandona il corpo e prova ogni genere di avventura e contatto con gli spiriti. Questa è la ragione per cui i sogni e la loro interpretazione sono ritenuti importanti nella vita quotidiana, anche per far sì che gli individui possano valutare se le loro imprese avranno successo o meno. I sogni sono anche un importante meccanismo d’innovazione religiosa e di cambiamento, poiché le esperienze oniriche possono produrre idee e pratiche completamente nuove. I sogni sono parte integrante della pratica della tessitura ikat.
Se durante il sonno, un’anima si allontana troppo o si perde, essa provoca una malattia perché il corpo è privato della sua essenza spirituale. Se l’anima non può essere recuperata la morte sarà inevitabile. Da madre a figlia tramandare l’arte dell’ikat é stato sempre un strumento per comunicare la propria identità. Tramandare questa arte non implica solo la conoscenza della tecnica di filatura, ma vuol dire soprattutto tramandare il significato (i motifs) dei simboli e dei disegni in essi rappresentati. Dalla fine degli anni ottanta però la tecnica ikat ha perso terreno, gli ikat originali sono diventati difficili da trovare e i pochissimi e rarissimi esemplari vengono tenuti gelosamente quale eredità lasciata dai vecchi capi villaggio. La situazione attuale purtroppo fa notare che le nuove generazioni e specialmente le giovani donne Iban non sembrano mostrare particolare interesse al significato e alla pratica di questa cultura materiale che sta via via scomparendo.
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La parola “ikat” è in sé un procedimento per la tintura dei filati e ci sono varie diatribe sul significato di questo termine: alcuni sostengono significhi “nuvola”, altri che significhi legare insieme. Pablo Picasso, fra i più illustri conoscitori di quest’arte, la definì “una tecnica appassionante, trascendentale e di notevole importanza”. L’ikat tecnicamente è una “tintura a riserva”, cioè un tipo di tintura dove parti dei filati vengono protette tramite una stretta legatura per non essere tinte, mentre le parti non legate si colorano. Con la parola ikat peró non si intende solo la tecnica, della tessitura ma anche i tessuti stessi fatti a mano, colorati con la stessa tecnica. L’ikat si distingue facilmente dalle imitazioni stampate, per la tipica compenetrazione e fusione dei colori nei punti di inizio e fine dei disegni. Questo tipo di tessitura veniva generalmente riservata alle donne, mentre agli uomini veniva permesso di occuparsi della tintura di alcuni fili.
Le fasi di tintura richiedevano la massima segretezza e spesso la zona dedicata a queste operazioni era all’interno delle longhouses (le case lunghe) ed era protetta da pareti divisorie. Gli intrusi venivano cacciati pubblicamente e per punizione costretti ad assaggiare il colore. I fili dovevano venir montati sul telaio solo in un giorno propizio, altrimenti si sarebbero spezzati e in alcuni villaggi costieri erano necessarie la luna piena e l’alta marea. Se nel villaggio si verificava un caso di morte, le operazioni di tessitura venivano interrotte immediatamente, per evitare che lo spirito del defunto si vendicasse portando malattie ai tessitori e indebolendo i fili. I tessuti erano e sono tutt’ora considerati ‘sacri’. Il prodotto finito veniva consacrato, e forse proprio per questo si riteneva che certi tessuti avessero poteri in grado di proteggere il tessitore e che la loro presenza fosse necessaria per l’esecuzione di magie e rituali nelle pratiche concernenti il ciclo vitale. Durante la caccia alle teste nei secoli scorsi, le donne accoglievano i guerrieri al ritorno da un combattimento, avvolgendo la testa tagliata del nemico in un ikat preparato appositamente per l’evento, il cui colore predominante era ed é sempre il rosso scuro. Gli ikat rivestivano e tutt’oggi rivestono un ruolo importante all’interno della società basti pensare al massimo status sociale della quale viene investita la tessitrice più competente. Ad oggi ci sono pochissimi studi pubblicati su questa arte, se ne possono trovare alcuni riguardanti la tecnica, i colori, i disegni, ma quasi nessuno che abbia mai trattato del vero significato e soprattutto dell’interpretazione dei simboli rappresentati. Gli ikat vengono utilizzati per la maggior parte dei rituali nella vita di ogni persona, dalla nascita alla morte e spesso vengono chiamati “sogni tessuti” poiché rappresentano la trasposizione dei sogni delle donne Iban. In generale, l’esperienza onirica e i sogni sono un importante mezzo di contatto con il mondo sovrannaturale, infatti c’è una comune credenza tra queste popolazioni secondo la quale l’anima umana può entrare o lasciare il corpo generalmente attraverso la fontanella del cranio. È specialmente durante i sogni che l’anima dell’individuo abbandona il corpo e prova ogni genere di avventura e contatto con gli spiriti. Questa è la ragione per cui i sogni e la loro interpretazione sono ritenuti importanti nella vita quotidiana, anche per far sì che gli individui possano valutare se le loro imprese avranno successo o meno. I sogni sono anche un importante meccanismo d’innovazione religiosa e di cambiamento, poiché le esperienze oniriche possono produrre idee e pratiche completamente nuove. I sogni sono parte integrante della pratica della tessitura ikat.
Se durante il sonno, un’anima si allontana troppo o si perde, essa provoca una malattia perché il corpo è privato della sua essenza spirituale. Se l’anima non può essere recuperata la morte sarà inevitabile. Da madre a figlia tramandare l’arte dell’ikat é stato sempre un strumento per comunicare la propria identità. Tramandare questa arte non implica solo la conoscenza della tecnica di filatura, ma vuol dire soprattutto tramandare il significato (i motifs) dei simboli e dei disegni in essi rappresentati. Dalla fine degli anni ottanta però la tecnica ikat ha perso terreno, gli ikat originali sono diventati difficili da trovare e i pochissimi e rarissimi esemplari vengono tenuti gelosamente quale eredità lasciata dai vecchi capi villaggio. La situazione attuale purtroppo fa notare che le nuove generazioni e specialmente le giovani donne Iban non sembrano mostrare particolare interesse al significato e alla pratica di questa cultura materiale che sta via via scomparendo.
L'antica capitale del Regno Armeno
Ani è una città medievale in rovina situata nella provincia turca di Kars, vicino al confine con l'Armenia.
Nel medioevo fu la capitale del regno armeno, che comprendeva la maggior parte dell'attuale Armenia e della Turchia orientale.
La città è collocata tra le gole del fiume Akhurian ed est e la Tzaghkotzadzor valley ad ovest. Il fiume Akhurian è un affluente del fiume Aras e forma parte del confine tra la Turchia e l'Armenia.
Chiamata la "Città delle 101 chiese", la città era al crocevia di diverse strade commerciali e i suoi edifici religiosi, palazzi e fortificazioni erano tra i più avanzati, sia a livello tecnico che artistico, del mondo.
Nel suo periodo di massimo sviluppo, all'interno delle mura di Ani vivevano tra i 100.000 ed i 200.000 abitanti e la città, nota in tutta la regione per lo splendore e la ricchezza, fu rivale di Costantinopoli, Il Cairo e Baghdad; successivamente fu, però, abbandonata e dimenticata per secoli.
Nella prima metà del XIX secolo, i viaggiatori europei scoprirono Ani e pubblicarono descrizioni della città nei giornali accademici e nei racconti di viaggio.
Nel 1878 la regione di Kars, inclusa Ani, venne incorporata nel territorio dell'Impero Russo. Nel 1892 iniziarono i primi scavi archeologici soponsorizzati dall'Accademia delle Scienze di Sanpietroburgo e supervisionati dall'archeologo e orientalista Nikolai Marr (1864-1934). Gli scavi di Marr ripresero nel 1904 e continuarono fino al 1917. estesi settori della città furono scoperti, portando alla luce edifici, e i ritrovamenti furono studiati e pubblicati sui giornali accademici. Vennero scritte guide turistiche sui monumenti e sui musei, e l'intero sito venne per la prima volta ispezionato.
Gli edifici maggiormente a rischio di crollo furono sottoposti a restauri di emergenza. Venne fondato un museo per raccogliere le decine di migliaia di reperti trovati durante gli scavi. Il museo fu ospitato in due edifici: nella moschea Minuchihr e in un altro edificio in pietra appositamente costruito a tale scopo.
Nel 1918, durante gli ultimi episodi della prima guerra mondiale, l'esercito dell'impero ottomano si fece strada attraverso il territorio dell'appena dichiarata Repubblica Armena conquistando Kars nell'aprile del 1918. Ad Ani vennero compiuti dei tentativi di evacuare i reperti contenuti nel museo mentre i soldati turchi si avvicinavano. Circa 6.000 oggetti, tra i più trasportabili, vennero rimossi dall'archeologo Ashkharbek Kalantar, uno dei partecipanti agli scavi condotti da Marr. Su richiesta ufficiale di Joseph Orbeli, i reperti salvati vennero riuniti in un'unica collezione museale; oggi fanno parte della collezione del Museo di Stato di Storia Armena di Yerevan.
Tutto ciò che non poté essere salvato venne perso o distrutto. La resa della Turchia alla fine della prima guerra mondiale condusse al ritorno di Ani sotto il controllo armeno, ma una nuova offensiva contro la Repubblica Armena nel 1920 fece sì che la Turchia rientrasse in possesso della città. Nel 1921 la firma del Trattato di Kars formalizzò l'incorporazione del territorio contenente Ani all'interno della Repubblica turca.
Nel maggio del 1921 l'Assemblea Nazionale Turca ordinò al comandante del Fronte Orientale, Kazım Karabekir, di "spazzare via i monumenti di Ani dalla faccia della terra". Karabekir scrive nelle sue memorie di avere ignorato tale ordine, ma il fatto che ogni traccia degli scavi eseguiti da Marr e dei restauri degli edifici sia stata cancellata suggerisce che l'ordine venne almeno parzialmente eseguito...
Sulla fascinazione
Il principale veicolo di fascinazione è lo sguardo (gli occhi, l’ “ogu malo” come si dice in Sardegna, ovvero il “malocchio”).
Le principali o le più frequenti vittime sono i bambini. La donna “strega” invidiosa delle altrui gravidanze e della altrui prole ha un precursore mitico nella figura di Lamia regina della Libia. Lamia fu rivale in amore di Era: Zeus difatti se ne invaghì e mise al mondo dei figli per mezzo suo. Ma Era, rabbiosa di gelosia, uccise tutti i figli che Lamia ebbe da Zeus, e condannò inoltre Lamia a non chiudere mai gli occhi. In conseguenza di questo episodio, schiacciata dal dolore, Lamia iniziò ad essere gelosa di tutti i nascituri e a far morire così per invidia i figli di tutte le altre femmine. Sembra che li divorasse succhiandone il sangue o che li trucidasse, e inoltre, questa figura è collegata agli occhi stregati. Zeus, per compassione e nel tentativo di placarla, le diede il dono degli occhi movibili, che Lamia poteva perciò mettere e togliere a suo piacimento. Questa capacità di rimuovere gli occhi permise a Lamia di accedere ad una percezione particolare, sia da un punto di vista profetico che, probabilmente, della forza magica e magnetica degli occhi stessi.
giovedì 25 luglio 2019
La villa Girevole di Marcellise
Gianpietro Gala si trova presso Marcellise
VILLA GIRASOLE!
Uno dei gioielli nascosti dell'architettura italiana! Un capolavoro di ingegneria se si considera l'epoca della sua realizzazione! È stata costruita negli anni 1929-1935 dall'ingegnere Angelo Invernizzi e dall'architetto Ettore Fagiuoli!
Si tratta di un edificio che ruota su se stesso seguendo il movimento del sole!
Uno dei gioielli nascosti dell'architettura italiana! Un capolavoro di ingegneria se si considera l'epoca della sua realizzazione! È stata costruita negli anni 1929-1935 dall'ingegnere Angelo Invernizzi e dall'architetto Ettore Fagiuoli!
Si tratta di un edificio che ruota su se stesso seguendo il movimento del sole!
Il cuore è più potente del cervello
Un motto alchemico dice
Tam ethice quam fisice,
Ciò che si mostra nel cuore si manifesta nel mondo .
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Tam ethice quam fisice,
Ciò che si mostra nel cuore si manifesta nel mondo .
mercoledì 24 luglio 2019
Il sacro che va remengo
architerror...
Chiesa dei santi Amministratore Unico e Consigliere Delegato, patroni dei colletti bianchi. Luogo ideale per celebrare gli uffici divini, l'edificio ripropone lo stilema tipico della palazzina per uffici padana, riconoscibile dalla facciata continua in finto vetro e dall'ingresso assiro-brianzolo. Appena entrati, i fedeli, in sede della solita acquasantiera trovano un più consono timbrasantini, mentre il crocifisso è in sala mensa. Interessante infine la scelta escheriana di realizzare il campanile sottodimensionato, così da sembrare uno sfondo lontano e non una parte integrante dell'edificio. (Fano)
Chiesa dei santi Amministratore Unico e Consigliere Delegato, patroni dei colletti bianchi. Luogo ideale per celebrare gli uffici divini, l'edificio ripropone lo stilema tipico della palazzina per uffici padana, riconoscibile dalla facciata continua in finto vetro e dall'ingresso assiro-brianzolo. Appena entrati, i fedeli, in sede della solita acquasantiera trovano un più consono timbrasantini, mentre il crocifisso è in sala mensa. Interessante infine la scelta escheriana di realizzare il campanile sottodimensionato, così da sembrare uno sfondo lontano e non una parte integrante dell'edificio. (Fano)
martedì 23 luglio 2019
Il saluto militare
"La luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a
coprirseli, la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e
da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto della mano che sale alla
fronte, diventato poi l'attuale saluto militare."
Chi visitasse il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa: rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare», portando la mano di taglio sulla fronte.
Il gesto si ripete identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro, quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio, come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.
La prima riflessione che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto. In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani usavano salutare i superiori in questo modo.
Il sostanziale isolamento del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre «istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.
Dalle forti analogie tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato.
Chi visitasse il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa: rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare», portando la mano di taglio sulla fronte.
Il gesto si ripete identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro, quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio, come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.
La prima riflessione che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto. In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani usavano salutare i superiori in questo modo.
Il sostanziale isolamento del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre «istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.
Dalle forti analogie tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato.
La psicologia ha radici lontane (pagane)
Acuminate
pagine Puliga dedica al mal di vivere in alcuni grandi della
letteratura latina: Lucrezio, Cicerone, Orazio, Seneca, e specialmente
Ovidio, il poeta che più e meglio di ogni altro seppe notomizzare, senza
reticenze, anzi quasi con clinica precisione, la depressione in cui
piombò negli anni del forzato esilio sulle lontane coste del Mar Nero.
Egli si rendeva lucidamente conto del fatto che il suo malessere era
psicofisico che mai lo abbandonava (quae mihi sempre adest)
e la ‘noia’ (taedium), ovvero il disgusto per la vita, lo portavano a
coltivare il desiderio di morte (amor mortis), anzi a vedersi già come
un morto che cammina. Nondimeno riuscì a dare una veste letteraria
sofisticatissima (il capitolo che il saggio gli dedica si intitola,
molto appropriatamente, l’arte di essere depresso) a questa sua
fondamentalmente sincera autoanalisi, trovando proprio nella scrittura
l’unico possibile sostegno terapeutico: «Se vivo, e resisto … devo
ringraziare te, o musa. Tu mi dai sollievo … tu vieni a me come una
medicina».Il contributo più originale del libro sta però
nell’individuazione di una differenza semantica tra gli antichi e noi,
che rivela una interessante differenza antropologica noi associamo la
depressione all’essere schiacciati verso il basso, come gravati da un
peso mentre i romani la collegavano all’idea del ‘marcire’, dell’andare
in putrefazione. Anche l’animus, la sede immateriale delle facoltà
psichiche, poteva secondo i romani decomporsi al pari della materia
organica. Ma la categoria del marcio era più ampia per loro che per noi:
marcidus/murcidus comprendeva tutto ciò che è fiacco, languido,
vacillante, torpido, obnubilato. La depressione era perciò vista come
uno stato di spossatezza, di abbattimento, di progressivo venir meno
delle forze vitali.Benché a Roma gli schiavi fossero considerati alla
stregua di cose (res), erano pur sempre esseri umani, e dunque accadeva
anche a loro di cadere nella depressione . Scopriamo però con Puliga che
un serio dibattito divise i giuristi romani sulla possibilità di
chiedere indietro al venditore il prezzo pagato per un servus
melancholicus. Le cose potevano avere un’anima sofferente?
L’ultimo capitolo del libro (Murcia in convento) indaga quella particolare forma di depressione che rappresentava il lato oscuro della vita monastica: quell’inerzia eccessiva a cui portava la vita contemplativa diventerà il vizio capitale dell’accidia.
Molti sono i fili con cui l’autrice ha tessuto la sua tela: se l’ordito è rappresentato dalla civiltà classica e dall’antropologia, la trama è data dalla psicologia, dalla psichiatria e anche dalla fisiologia. In tutti questi campi Donatella Puliga si muove con sicurezza e scioltezza: la sprezzatura della scrittura lascia comunque trasparire l’ingente lavoro di ricerca multidisciplinare di cui il saggio è apprezzabile frutto...
L’ultimo capitolo del libro (Murcia in convento) indaga quella particolare forma di depressione che rappresentava il lato oscuro della vita monastica: quell’inerzia eccessiva a cui portava la vita contemplativa diventerà il vizio capitale dell’accidia.
Molti sono i fili con cui l’autrice ha tessuto la sua tela: se l’ordito è rappresentato dalla civiltà classica e dall’antropologia, la trama è data dalla psicologia, dalla psichiatria e anche dalla fisiologia. In tutti questi campi Donatella Puliga si muove con sicurezza e scioltezza: la sprezzatura della scrittura lascia comunque trasparire l’ingente lavoro di ricerca multidisciplinare di cui il saggio è apprezzabile frutto...
(tratto da Alias)
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