"[Dopo
la fuga di Pompeo da Roma, Cesare] Trovò la città più ordinata di
quanto si aspettava, con un gran numero di senatori, ai quali fece un
discorso benevolo
e conciliante,
esortandoli a mandar messi a Pompeo per un ragionevole accordo. Ma tutti
si rifiutarono, vuoi perché temevano che Pompeo potesse vendicarsi per
essere stato abbandonato, vuoi perché credevano che Cesare la pensasse
diversamente e si servisse di quelle belle parole per nascondere le sue
reali intenzioni. Fatto sta che quando Metello, tribuno della plebe,
cercò d’impedirgli di attingere denaro dalle casse dello Stato, citando
alcune norme in proposito, esclamò: «In tempo di guerra leggi di guerra.
Se quel che faccio non ti sta bene, fuori dai piedi!». E aggiunse: «La
guerra non consente libertà di parola: quando saremo giunti ad un
accordo e avrò deposto le armi, allora potrai fare il demagogo. E bada
che così facendo rinuncio ai miei diritti, in quanto tu e tutti gli
altri siete nelle mie mani». Ciò detto, si avviò verso la porta della
stanza in cui giaceva il tesoro, ma le chiavi le avevano i consoli, e
allora, chiamati dei fabbri, ordinò di spezzare i battenti. Ancora una
volta Metello, spalleggiato da alcuni, cercò di opporsi, al che Cesare,
alzando la voce: «Ragazzino, se non la smetti d’infastidirmi ti ammazzo!
E tu sai che mi è più facile farlo che dirlo». Metello, spaventato, si
tirò indietro e lasciò che fosse dato subito e agevolmente a Cesare ciò
che gli bisognava per la guerra."
(Plutarco, Cesare, 35)
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