Un albero senza Dei, senza fate, senza significati trascendenti, è già un albero morto. Contro la passione distruttiva dell’uomo dissacrato non ha difesa.
Se c’è, in un cortile, un cedro del Libano più vecchio delle Piramidi che impaccia la sosta delle vetture di undici avvocati, nove commercianti, tre dentisti, un fotografo, una pediatra, lo si taglia subito. Ma se al cedro del Libano è legata la credenza che, tagliandolo, tutto il casamento crolla, perché morrebbe con l’albero il genio protettore del luogo, un rispettoso terrore impedirà il taglio; sbarrato da Psiche, il cortile resterebbe vuoto. Ai piedi dell’albero, velata, una prostituta sacra raccoglie monete dai balconi.
L’uomo tolto alle manette del sacro può fare soltanto quello che sta facendo; non chiedetegli di rispettare quel che non gli si presenta come una realtà oscura, funesta e imprevedibile. Si pensi al padre, al facile parricidio se padre significa una cosa qualunque, un atto, un’abitudine. L’opinione di Haudricourt e Hédin che tutte le piante attualmente coltivate sono state in origine sacre, e solo per questo sono sopravvissute, è da ritenere. Al culmine della secolarizzazione, c’è soltanto la distruzione.
E la ragione può così poco, nei fatti umani, che la distruzione degli alberi procede anche se la ragione, uscita dal suo sonno, si è messa a gridare che bisogna impedirla. Il razionalismo ecologico sostiene che bisogna salvare il verde (che cos’è il verde?) perché altrimenti l’aria diventa irrespirabile, e il suo stupore è grande, vedendo che un consiglio per sopravvivere non ha nessun effetto. La sopravvivenza non interessa concretamente l’anima umana; la risposta del cuore è glaciale. Quel che cerchiamo non è la sopravvivenza della specie (che cos’è la specie?), è un senso alla vita.
Gli alberi non sono il verde, sono «i nostri grandi fratelli immobili», una gente pelosa, umida e cornuta la cui caratteristica, inconcepibile per l’uomo, è una bontà infinita. Gli è impossibile vivere senza devozione disinteressata; li abbiamo lordati di sufficienza e di terrori. E l’ecologia fallirà, perché il suo orizzonte mentale non è diverso, in profondo, da quello del distruttore.
Di più dirò: ch’a gli alberi dà vita
spirito uman che sente e che ragiona.
Per prova sollo: io n’ho la voce udita
che nel cor flebilmente anco mi suona.
(Tasso, Ger. Lib., 13, 49)
Virgilio, incominciando a parlare della peste del Norico, dice: Nec via mortis erat simplex, cioè la morte non arrivava per una sola strada. La morte degli alberi arriva per molte strade.
Una calvizie inesorabile, per la quale non ci saranno parrucche, va denudando dappertutto il cranio del pianeta. L’eccesso di popolazione umana divoratrice di mondi è un terribile contagio; tutti questi respiranti sono nemici del respiro; l’aria è consumata da loro. Le cliniche da cui i piccoli roditori umani escono in processione senza fine, sono grandi disboscatrici, dissimulate tra i pini e gli eucalipti. I gas tossici procreati senza misura da una città o da un impianto industriale partecipano, anche da grandi distanze, a tutte le stragi vegetali. Anidride solforosa, acido fluoridrico, organoclorati, viaggiano senza bisogno di passaporti falsi. La civiltà uccide gli alberi col fiato, come l’odore della tarasca, il drago di santa Marta, uccideva i tarasconesi.
Sotto il miasma, l’uomo (forse perché miasma lui stesso) resiste meglio: vive e delira anche dove la pianta, orfana di umidità sacrale, muore. L’uomo può scendere nel sottosuolo; la pianta può solo salire. Attraverso la nostra agricoltura avvelenata dalla peste chimica, la via mortis assume i frastagli, i meandri e le illusioni lugubri di un labirinto. «Il mondo, vaso spirituale, non può essere modellato. Chi lo modella lo distrugge» (Tao tê ching, 29).
Dappertutto immagini dell’epidemia: giungle asiatiche spiantate dai defolianti; macchia mediterranea e pinete fra i tentacoli di morte del miasma marino, untuosa garza in cui si combinano le schiume detergenti portate dai fiumi infetti e colatura di petroliera; l’Amazzonia brasiliana, di cui piani forsennati di sfruttamento imprenditoriale e governativo hanno decretato la distruzione; fondi marini senza vita. Ho sovente l’impressione, passando per certe nostre campagne, di trovarmi in un quartiere storico in demolizione, non ancora tutto abbandonato, ma istupidito, ubriacato dai crolli, dove i superstiti fissano il vuoto che cammina.
Non si creda che la perdita del Mato amazzonico sia inoffensiva per i bambini di Pinerolo o per gli studenti di Urbino. Non lo sarà che per quelli che non ne vedranno la fine. Senza conseguenze per tutti è soltanto la morte sicura di quelle poche migliaia di Indios che sopravvivono, nudità tristi, ombre piumate, coi latrati d’infinito della nostra rabbia intorno alle loro capanne, laggiù, nelle foreste amazzoniche. Tutti li hanno, tacitamente, condannati a morte. I superstiti dentro, forse, ai sarcofaghi ministeriali delle riserve. Ma prima, almeno, tirate tutte le vostre frecce avvelenate, ci sia per ogni punta una gola bianca! Anche per loro, come per gli alberi l’Ecologo, c’è l’Etnologo protettore, che li vuole vivi per portare in visita nella foresta i suoi schiamazzanti scolari: ecco il Popolo Primitivo! Date l’Etnologo ai coccodrilli, buona gente, non lasciate che scrivano libri, non lasciatevi capire da loro…
Ma una terroristica rete di autostrade calata sopra l’Inferno Verde demolito, enorme altare nero dell’ingegneria sadica e della Megera pioniera, non darà più soddisfazioni di quell’ottusa foresta piena di mostri e di preistoria? Il safari all’anaconda, senza neanche il modesto rischio di una freccia negli occhiali! Dov’è il freno capace di frenare? Perché un qualche terribile prodigio non paralizza le nostre mani? Perché non colano sangue i tronchi abbattuti?
L’untore, in questa pestilenza, uno dei gomiti della via mortis, esiste veramente. Ogni velenoso che al cinema catapulta tra le file di sedie vuote la sua cicca accesa, cova in sé la bragia di molti incendi. La stessa mano ignobile, in una collina asciutta, farà di un grande bosco carboni spenti.
Ogni nostra estate, per i boschi delle coste e delle colline, è una lunga corsa tra le fiamme. Cicca buttata, latta di petrolio, abulia della legge, sono tre facce e una testa sola: la miseria di un popolo che ignora, in alto e in basso, il rispetto della bellezza e della vita. È possibile avvicinarsi al distruttore e dirgli: «Quel che distruggi è il simbolo della Vita cosmica, e col simbolo avrai bruciato anche la vita» senza avere in risposta una coltellata?
Leopardi (Alla Primavera) usa, parlando di boschi, una parola che oggi si può intendere in due sensi: vissero. Voleva dire che i boschi vissero perché il dio Pan e le ninfe li abitavano, ma non è sbagliato intendere, insieme a questo, che vissero, come forma vivente, finché gli Dei e le ninfe li abitarono. Rimando il lettore a questo testo leopardiano e anche alla chiusa e all’abbozzo in prosa dell’Inno ai Patriarchi (da applicare agli ultimi Indios) come esempi non di scrittura poetica, ma di autentico vaticinio. Vissero è una piccola chiave per capire l’attuale peste della vegetazione, nella sua fatalità e nella sua sconcertante dipendenza umana. Un albero diventato semplice cosa, utilità, ornamento, dopo che fu abitazione vivente di esseri divini, sede di una forza soprannaturale, traccia visibile di una divinità, non è più salvabile. Vissero. Il petrolio dell’incendiario, la nube tossica, il dente del dozer non trovano ostacoli.
Nelle campagne meridionali, uno dei più orrendi e sfrontati delitti di mafia è la distruzione di uliveti: li segano di notte, per rappresaglia e per avvertimento. È un delitto che, se si avesse un’idea giusta del rapporto uomo-terra-ulivo-cielo, dovrebbe essere spietatamente punito con la morte. Sappi, uomo vile, che per un ulivo tagliato cadrà la tua testa. Divina legge, la legge che parlasse questo linguaggio forte.
Nell’Attica l’ulivo era sacro ad Atena, era Atena. Niente di più degno, nel momento grave in cui gli alberi prendono congedo dalla terra, di quel coro dell’Edipo a Colono, congedo del vecchio Sofocle dalla vecchiaia e dall’Attica, dove si canta la vegetazione che fiorisce alle porte di Atene. È l’incantato inno all’ulivo di Sofocle, all’ulivo che protegge la città dalla distruzione: «… una pianta di cui non so se mai ne sia nato l’uguale, in terra d’Asia o nella grande isola dorica di Pelope, una pianta indomabile, che si rifà da sola … l’ulivo dalle foglie cerulee, che nutre i nostri figli, l’albero che nessuno, né giovane né vecchio, può brutalmente distruggere o saccheggiare». Custodi dell’ulivo, dice Sofocle, sono Zeus e Atena, i cui sguardi mai l’abbandonano.
Da molto tempo lo hanno abbandonato, e i nostri ulivi non rinascono il giorno dopo, come quello dell’Eretteion bruciato dai Persiani. Li avvolge la via mortis nei suoi lenti giri. L’ulivo, finché vivrà, nutrirà, ma senza interdetto sacro, senza quegli occhi nascosti, è nelle mani del distruttore.
Tratto da Guido Ceronetti, La carta è stanca
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