Gabriele D'Annunzio fu Martinista, con il nome iniziatico di Ariel...
Altri legionari ed esponenti del Martinismo, furono Marco Egidio Allegri e Ottavio Ulderico Zasio.
Il Simbolo centrale è un classico Ouroboros, che racchiude l'Orsa Maggiore (Septem Triones), probabilmente nel senso dei Sapta Rishi, i sette saggi della Tradizione Indù...
sabato 28 settembre 2019
Esoterismo nella Reggenza del Quarnaro
Previsioni bibliche dell'Armageddon
TEL MEGIDDO ...
In questo luogo, dicono le Scritture (Apocalisse 16, 14-16), si svolgerà la battaglia finale tra Bene e Male e si compirà il destino della specie umana e della sua civiltà. Tell Megiddo si trova in territorio israeliano, a metà strada tra la costa mediterranea e il Giordano, sul confine tra la Galilea a Nord e la Samaria a Sud. Si fregia del termine biblico “har”, che significa monte, ma si presenta da lontano al visitatore come una modesta collina, con le pendici coperte da una rada vegetazione, pochi alberi che offrono scarsa ombra a chi si inerpica per vedere il sito archeologico. Gli scavi presentano il tracciato di varie costruzioni, tra cui si pensa di aver individuato le fondamenta della residenza di Salomone. Nel Libro III dei Re (Cap. IX,15) al sovrano viene attribuita la fortificazione delle mura e dei grandi portali della città fortezza: «Tanto spese il re Salomone nella fabbrica della Casa del Signore e della casa sua e di Mello e nelle mura di Gerusalemme e di Heser e di Mageddo e di Gazer…». Nel complesso urbanistico portato alla luce, oltre ai resti del palazzo reale, ben definiti appaiono gli edifici delle scuderie, gli alloggiamenti della guarnigione e le cisterne, che venivano alimentate da un ingegnoso sistema di approvvigionamento idrico che consentiva agli occupanti la città fortezza di poter resistere per mesi a eventuali assedi. Il luogo si porta addosso infatti un karma che lo ha reso nel tempo scenario di conflitti e battaglie. Partendo dal neolitico, strati geologici evidenti in una profonda fenditura della collina dimostrano che Megiddo ha sopportato in vari periodi eventi di distruzione e incendi. Di questo pedigree conflittuale la storia ricorda in particolare lo scontro che avvenne in quest’area nel 1150 a.C. tra le armate del faraone Ramsete III e le compagini disperate dei sopravvissuti ai cataclismi che avevano colpito le isole dell’Egeo e la stessa Creta. Quei profughi, coalizzati per necessità in un’orda numerosa ma scoordinata, furono letteralmente annientati dall’esercito del sovrano egizio. A quel tempo il luogo aveva nome Magadil, e i derelitti che vi erano sbarcati alla rinfusa provenienti da ogni dove della Grecia e dall’area minoica vennero genericamente denominati col termine della componente piú numerosa di origine cretese: i Pulasati. Il faraone non volle infierire e permise che i sopravvissuti si stabilissero nella regione, che prese quindi il nome di Palestina. Alcune sette apocalittiche ritengono imminente in quest’area un evento distruttivo che giustificherà il ruolo di Armageddon assegnato a Megiddo. Una sorta di esplosione, da cui si sprigionerà una grande luce, seguita da un fuoco catartico che porrà fine all’attuale civiltà. Poco piú a Nord di Megiddo si erge il Monte Tabor, quello dove il Cristo venne trasfigurato da una luce che testimoniava la sua divinità. Noi tutti ci auguriamo che l’odierna Megiddo, al centro di un teatro di conflitti insanabili, possa sprigionare dalle sue rovine non il bagliore di un’ennesima distruzione umana, ma la radianza che illumina le anime e le menti, la luce taborica della salvezza, il fulgore sonoro che Giovanni sperimentò nell’estasi di Patmos: il Verbo che promette all’uomo di buona volontà, attraverso la pratica del perdono e della fratellanza, una vera pace e la finale redenzione…..
1In questo luogo, dicono le Scritture (Apocalisse 16, 14-16), si svolgerà la battaglia finale tra Bene e Male e si compirà il destino della specie umana e della sua civiltà. Tell Megiddo si trova in territorio israeliano, a metà strada tra la costa mediterranea e il Giordano, sul confine tra la Galilea a Nord e la Samaria a Sud. Si fregia del termine biblico “har”, che significa monte, ma si presenta da lontano al visitatore come una modesta collina, con le pendici coperte da una rada vegetazione, pochi alberi che offrono scarsa ombra a chi si inerpica per vedere il sito archeologico. Gli scavi presentano il tracciato di varie costruzioni, tra cui si pensa di aver individuato le fondamenta della residenza di Salomone. Nel Libro III dei Re (Cap. IX,15) al sovrano viene attribuita la fortificazione delle mura e dei grandi portali della città fortezza: «Tanto spese il re Salomone nella fabbrica della Casa del Signore e della casa sua e di Mello e nelle mura di Gerusalemme e di Heser e di Mageddo e di Gazer…». Nel complesso urbanistico portato alla luce, oltre ai resti del palazzo reale, ben definiti appaiono gli edifici delle scuderie, gli alloggiamenti della guarnigione e le cisterne, che venivano alimentate da un ingegnoso sistema di approvvigionamento idrico che consentiva agli occupanti la città fortezza di poter resistere per mesi a eventuali assedi. Il luogo si porta addosso infatti un karma che lo ha reso nel tempo scenario di conflitti e battaglie. Partendo dal neolitico, strati geologici evidenti in una profonda fenditura della collina dimostrano che Megiddo ha sopportato in vari periodi eventi di distruzione e incendi. Di questo pedigree conflittuale la storia ricorda in particolare lo scontro che avvenne in quest’area nel 1150 a.C. tra le armate del faraone Ramsete III e le compagini disperate dei sopravvissuti ai cataclismi che avevano colpito le isole dell’Egeo e la stessa Creta. Quei profughi, coalizzati per necessità in un’orda numerosa ma scoordinata, furono letteralmente annientati dall’esercito del sovrano egizio. A quel tempo il luogo aveva nome Magadil, e i derelitti che vi erano sbarcati alla rinfusa provenienti da ogni dove della Grecia e dall’area minoica vennero genericamente denominati col termine della componente piú numerosa di origine cretese: i Pulasati. Il faraone non volle infierire e permise che i sopravvissuti si stabilissero nella regione, che prese quindi il nome di Palestina. Alcune sette apocalittiche ritengono imminente in quest’area un evento distruttivo che giustificherà il ruolo di Armageddon assegnato a Megiddo. Una sorta di esplosione, da cui si sprigionerà una grande luce, seguita da un fuoco catartico che porrà fine all’attuale civiltà. Poco piú a Nord di Megiddo si erge il Monte Tabor, quello dove il Cristo venne trasfigurato da una luce che testimoniava la sua divinità. Noi tutti ci auguriamo che l’odierna Megiddo, al centro di un teatro di conflitti insanabili, possa sprigionare dalle sue rovine non il bagliore di un’ennesima distruzione umana, ma la radianza che illumina le anime e le menti, la luce taborica della salvezza, il fulgore sonoro che Giovanni sperimentò nell’estasi di Patmos: il Verbo che promette all’uomo di buona volontà, attraverso la pratica del perdono e della fratellanza, una vera pace e la finale redenzione…..
La Reggenza del Carnaro
Le
idee del 68 sono geminate nella Reggenza del Carnaro, e come al solito
lo stato sabaudo ha distrutto il tentativo di creare una società Nuova!
Chi era la destra e chi faceva la parte della sinistra politica in
questo contesto? Credo si difficile rispondere al quesito
fondazionefeltrinelli.it
non salvate il pianeta
Anche se detonassimo tutte le bombe atomiche di cui siamo in possesso, sterminando ogni specie animale e vegetale, il pianeta starebbe bene lo stesso.
La vita ricomincerebbe, sorgerebbero nuovi organismi adattandosi persino alle radiazioni, come accade a Chernobyl. La Terra, come la Vita, sta e starà sempre bene. Chi è in pericolo siamo solo noi.
Noi possiamo danneggiare o salvare solo noi stessi. L'espressione "salvare il pianeta" è, in senso psichico, una proiezione del nostro stato sul pianeta, oltre che un delirio di onnipotenza. Un po' come accade a chi, quando a stare male è lui, si offre di aiutare qualcuno altro che, di essere aiutato, non ha chiesto e non ha nemmeno bisogno.
"Salvare il pianeta" è un modo di dire che nasconde un patologico spostamento all'esterno della nostra paura e della consapevolezza della nostra fragilità. Secondo la struttura narcisistica che ci caratterizza a livello collettivo, siamo scollegati dal nostro sentire, e fuggiamo dalla nostra parte intima, sofferente e bisognosa d'aiuto per proiettarci in un'idea mentale di noi stessi, intessuta di grandiosità, nella quale noi siamo i nobili e potenti salvatori dell'ambiente.
venerdì 27 settembre 2019
La statua di Costantino a San Giovanni in Laterano ovvero il primo Papa!
L’Arcibasilica
del SS.mo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista,
comunemente detta San Giovanni in Laterano, sorge nelle vicinanze del
monte Celio.
E’ la mater et caput di tutte le chiese di Roma e del mondo.
In questa zona, sorgeva anticamente una dimora di proprietà della nobile famiglia dei Laterani. La loro casa sorgeva nei pressi della Basilica, probabilmente verso l’attuale Via Amba Aradam, e i terreni coprivano tutta la zona che comprende anche l’attuale area basilicale.
Secondo gli “Annali” di Tacito nel 65 queste case e terreni furono confiscati dall’Imperatore Nerone, poiché Plauzio Laterano, console designato per l’anno 65, cospirò contro l’imperatore stesso nella congiura detta dei “Pisoni”. Fallita la congiura, Plauzio fu condannato a morte ed espropriato dei suoi beni, che passarono all’Erario Imperiale.
Successivamente parte di questi terreni furono utilizzati da Settimio Severo, che per consolidare l’organico della propria guardia del corpo formata dagli equites singulares (cavalieri scelti) che avevano una caserma nei pressi dell’attuale Via Tasso, si trovò nella necessità di costruire una seconda caserma che accogliesse le nuove leve. Scelse a tal fine l’area lateranense, dove l’erario imperiale aveva svariate proprietà, prima di tutte quella dei Laterani, acquisite con la confisca neroniana.
In una parte di questi terreni dei Laterani l’imperatore edificò un grande complesso militare chiamato Castra nova equitum singularium (Nuova Caserma delle guardie scelte).
Gli scavi, condotti a più riprese sotto il pavimento della basilica e sotto il chiostro, hanno rimesso in luce vari tratti delle fondazioni severiane, e parte dell’alzato del piano terreno della Caserma.
Nello stesso periodo Settimio Severo donò un’altra parte dei terreni confiscati a Tito Sextio Laterano, amico di Settimio Severo e suo valoroso comandante nella spedizione mesopotamica. Non si sa se l’imperatore donò la stessa casa che fu di Plauzio Laterano o Tito Sextio o ne costruì una nuova, ma si sarebbe trattato, comunque, di un’abitazione così lussuosa e così importante da costituire un punto di riferimento topografico e, anche dopo la loro scomparsa, nel Medioevo si continuò ad indicare gli edifici che sorgevano nell’area con la locuzione iuxta Lateranis (presso il Laterano), fino ad arrivare all’odierna denominazione del Laterano.
C’è da dire che si è pensato ad un rapporto di parentela tra il Plauzio Laterano morto sotto l’imperatore Nerone e il Tito Sextio Laterano amico di Settimio Severo. Una lontana parentela dei due personaggi non si può del tutto escludere è anche vero che non è dimostrabile un rapporto preciso tra queste due persone e le loro abitazioni.
Successivamente questi terreni divennero di proprietà, non si sa se per acquisto o per eredità, ad una certa Fausta, in quanto si menziona successivamente una domus Faustae nel territorio lateranense. Si è voluto identificare la Fausta in questione con la seconda moglie dell’imperatore Flavio Valerio Costantino , al cui nome è legato il ricordo della fondazione della Basilica.
Sconfitto Massenzio, Costantino, va a Milano e rinsalda l’alleanza con Licinio, il quale, morto Massimino, rimane padrone delle province orientali . A Milano Costantino proclama anche un editto (313) in cui riconosce al Cristianesimo libertà di culto.
Tornato a Roma Costantino si preoccupa di offrire alla chiesa nascente un luogo adatto per svolgere pienamente il proprio ministero spirituale.
Allora nella zona dei laterani vi erano la domus Faustae, la casa di Fausta, che, come già detto, forse era quella Fausta moglie di Costantino e sorella di Massenzio, che la stessa Fausta aveva portato in dote a Costantino, e la Castra Nova Equites singularium.
Costantino scioglie il corpo degli equites singulares, che avevano appoggiato Massenzio e dona a Papa Melchiade i terreni per costruirvi una domus ecclesia.
La Basilica venne consacrata nel 324 ( o 318 ) da Papa Silvestro I, e dedicata al SS.mo Salvatore. Nel IX sec., Sergio III la dedicò anche a San Giovanni Battista, mentre nel XII sec. Lucio II aggiunse anche San Giovanni Evangelista.
Dal IV secolo fino al termine del periodo avignonese (XIV sec.), in cui il papato si spostò ad Avignone, il Laterano, fu l’unica sede del papato. Il Patriarchio, o dimora lateranense (l’antica sede Papale), annesso alla Basilica fu la residenza dei Papi per tutto il medioevo. Il Laterano, quindi, fu da questo periodo fino al XIV sec. la sede e il simbolo del papato e quindi, il cuore della vita della Chiesa. Vi furono ospitati anche cinque concili ecumenici.
E’ la mater et caput di tutte le chiese di Roma e del mondo.
In questa zona, sorgeva anticamente una dimora di proprietà della nobile famiglia dei Laterani. La loro casa sorgeva nei pressi della Basilica, probabilmente verso l’attuale Via Amba Aradam, e i terreni coprivano tutta la zona che comprende anche l’attuale area basilicale.
Secondo gli “Annali” di Tacito nel 65 queste case e terreni furono confiscati dall’Imperatore Nerone, poiché Plauzio Laterano, console designato per l’anno 65, cospirò contro l’imperatore stesso nella congiura detta dei “Pisoni”. Fallita la congiura, Plauzio fu condannato a morte ed espropriato dei suoi beni, che passarono all’Erario Imperiale.
Successivamente parte di questi terreni furono utilizzati da Settimio Severo, che per consolidare l’organico della propria guardia del corpo formata dagli equites singulares (cavalieri scelti) che avevano una caserma nei pressi dell’attuale Via Tasso, si trovò nella necessità di costruire una seconda caserma che accogliesse le nuove leve. Scelse a tal fine l’area lateranense, dove l’erario imperiale aveva svariate proprietà, prima di tutte quella dei Laterani, acquisite con la confisca neroniana.
In una parte di questi terreni dei Laterani l’imperatore edificò un grande complesso militare chiamato Castra nova equitum singularium (Nuova Caserma delle guardie scelte).
Gli scavi, condotti a più riprese sotto il pavimento della basilica e sotto il chiostro, hanno rimesso in luce vari tratti delle fondazioni severiane, e parte dell’alzato del piano terreno della Caserma.
Nello stesso periodo Settimio Severo donò un’altra parte dei terreni confiscati a Tito Sextio Laterano, amico di Settimio Severo e suo valoroso comandante nella spedizione mesopotamica. Non si sa se l’imperatore donò la stessa casa che fu di Plauzio Laterano o Tito Sextio o ne costruì una nuova, ma si sarebbe trattato, comunque, di un’abitazione così lussuosa e così importante da costituire un punto di riferimento topografico e, anche dopo la loro scomparsa, nel Medioevo si continuò ad indicare gli edifici che sorgevano nell’area con la locuzione iuxta Lateranis (presso il Laterano), fino ad arrivare all’odierna denominazione del Laterano.
C’è da dire che si è pensato ad un rapporto di parentela tra il Plauzio Laterano morto sotto l’imperatore Nerone e il Tito Sextio Laterano amico di Settimio Severo. Una lontana parentela dei due personaggi non si può del tutto escludere è anche vero che non è dimostrabile un rapporto preciso tra queste due persone e le loro abitazioni.
Successivamente questi terreni divennero di proprietà, non si sa se per acquisto o per eredità, ad una certa Fausta, in quanto si menziona successivamente una domus Faustae nel territorio lateranense. Si è voluto identificare la Fausta in questione con la seconda moglie dell’imperatore Flavio Valerio Costantino , al cui nome è legato il ricordo della fondazione della Basilica.
Sconfitto Massenzio, Costantino, va a Milano e rinsalda l’alleanza con Licinio, il quale, morto Massimino, rimane padrone delle province orientali . A Milano Costantino proclama anche un editto (313) in cui riconosce al Cristianesimo libertà di culto.
Tornato a Roma Costantino si preoccupa di offrire alla chiesa nascente un luogo adatto per svolgere pienamente il proprio ministero spirituale.
Allora nella zona dei laterani vi erano la domus Faustae, la casa di Fausta, che, come già detto, forse era quella Fausta moglie di Costantino e sorella di Massenzio, che la stessa Fausta aveva portato in dote a Costantino, e la Castra Nova Equites singularium.
Costantino scioglie il corpo degli equites singulares, che avevano appoggiato Massenzio e dona a Papa Melchiade i terreni per costruirvi una domus ecclesia.
La Basilica venne consacrata nel 324 ( o 318 ) da Papa Silvestro I, e dedicata al SS.mo Salvatore. Nel IX sec., Sergio III la dedicò anche a San Giovanni Battista, mentre nel XII sec. Lucio II aggiunse anche San Giovanni Evangelista.
Dal IV secolo fino al termine del periodo avignonese (XIV sec.), in cui il papato si spostò ad Avignone, il Laterano, fu l’unica sede del papato. Il Patriarchio, o dimora lateranense (l’antica sede Papale), annesso alla Basilica fu la residenza dei Papi per tutto il medioevo. Il Laterano, quindi, fu da questo periodo fino al XIV sec. la sede e il simbolo del papato e quindi, il cuore della vita della Chiesa. Vi furono ospitati anche cinque concili ecumenici.
giovedì 26 settembre 2019
FRA FISICA E METAFISICA
La metafisica parte dal particolare per astrarre l'universale. L'osservazione del particolare tuttavia risente dei limiti connessi alla natura umana. Limiti che esponenzialmente con il tempo tendono comunque a dilatarsi.
Il greco osserva la pietra e da essa astrae l'essenza della pietra. 2500 anni dopo il chimico osserva la stessa pietra, ma con un microscopio. L'astrazione della natura della pietra, dell' "essenza" della pietra deve procedere di conseguenza giacchè il presupposto dell'astrazione è l'osservazione del particolare. In sostanza sono vincolato a rivedere la mia astrazione alla luce di una nuova e più efficace osservazione. Questo invece è un percorso che il metafisico intellettualmente non compie. In definitiva la metafisica altro non è che l'elaborazione di un ragionamento logico sulla base di quanto ci dice la fisica.
L'arte legata al sacro di Segantini
La giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti
Grazia Deledda "Canne al vento"
Giovanni Segantini "Ave Maria a trasbordo" 1886
Grazia Deledda "Canne al vento"
Giovanni Segantini "Ave Maria a trasbordo" 1886
Idee chiare
"Il
miglior consiglio da dare a chi voglia far crescere un bambino felice e
mentalmente sano è: tenetelo lontano dalle chiese appena potete"
(Frank Zappa)
126
(Frank Zappa)
I cannibali del Pantheon
Fra i sette peccati capitali, ce n’è uno per il quale gli abitanti di
Roma, sia antichi che odierni , sono sempre stati famosi: il peccato di
gola.
Una delle piazze romane associata per diversi secoli alle cibarie, agli intingoli e alle più svariate leccornie era quella della “Ritonna”, cioè la piazza antistante al Pantheon.
Qui in passato operavano numerose pizzicherie, ovvero quelle botteghe di prodotti alimentari venduti “a spizzico”, in piccole quantità. Uova, alici, sale, ma soprattutto formaggi e salumi, per i quali la piazza era rinomata. I pizzicagnoli non vendevano la loro merce soltanto all’interno di salumerie autorizzate, ma l’intero piazzale era regolarmente invaso e occupato da bancarelle, capannoni, baracchini ambulanti ,una sorta di caotico mercato all’aperto.
In periodo pasquale le salumerie allestivano anche delle barocche esposizioni, spettacolari paesaggi e scenografie create col cibo in modo da impressionare la folla con la loro opulenza. Ecco allora che in piazza cominciava una sorta di gara a costruire la più elaborata scultura di affettati, salsicce e formaggi.
La tradizione delle cornucopie di cibo continuò fino a tempi recenti. Ma non tutti amavano quelle bancarelle e quelle botteghe; di fatto le autorità tornarono ciclicamente, già a partire dal 1400 e poi più volte nel corso dei secoli, a sgombrare la piazza con vari decreti e ingiunzioni.
Uno di questi episodi di ristabilimento del decoro ha lasciato traccia in una targa commemorativa risalente al 1823 ed esposta sul muro del civico 14 in Piazza della Rotonda, l’edificio proprio dirimpetto al Pantheon..
Tra tutti i salumieri che operavano in questa zona, erano quelli originari di Norcia ad avere fama di macellai provetti, tanto che era un comune insulto quello di augurare all’avversario di finire “castrato da un norcino della Rotonda”.
E proprio su Piazza della Rotonda operavano nel 1638 due norcini, marito e moglie, le cui salsicce erano le più buone di tutte.Da tutti quartieri della città la gente accorreva a comprarle: erano perfino troppo sublimi e prelibate..
Così cominciò a spargersi la voce che la coppia di macellai nascondesse un segreto. Cosa mettevano nelle salsicce, per renderle così gustose? E come mai qualcuno giurava di aver visto dei clienti bene in carne, paffuti e rotondetti, entrare nella bottega e non farne più ritorno?
La diceria giunse infine alle orecchie del capitano di giustizia, il quale avviò un’indagine e durante le perquisizioni furono effettivamente trovate delle ossa umane nello scantinato della macelleria.
Il Papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini, condannò a morte i due norcini proprio davanti al Pantheon: vennero uccisi, sgozzati e squartati con l’ascia da un altro sopraffino maestro nell’arte della macelleria, il boia pontificio.
Questa è la storia che si racconta, e che rimase viva nella memoria dei romani. L’immaginario venne talmente impressionato dal fattaccio, che ancora nel 1905 esso rispuntava di tanto in tanto nelle poesie vernacolari..
Cercando verifiche nelle cronache giudiziarie del tempo,si trova un unico accenno alla vicenda dei norcini cannibali in un testo del 1883 di David Silvagni, che al riguardo cita però alcuni fascicoli manoscritti dell’abate Benedetti:
"Tali fascicoli portano il titolo di Fatti antichi avvenuti in Roma, e riguardano la storia dei più famosi misfatti e delle più celebri giustizie, cominciando dal processo dei Cenci, del quale ve ne è un’altra copia più antica ma identica. Ed è importante leggere questi fedeli racconti di fatti atroci e di più atroci giustizie che dallo scrittore vengono narrati colla stessa calma e semplicità colla quale oggi il cronista d’un giornale annuncerebbe una rappresentazione al teatro. E tanta è la riserva che sembra essersi imposto il diarista, che non si trova una parola di indignazione neppure nel racconto più sanguinoso che si rinvenga nei manoscritti. Difatti con tutta calma è narrata la «esecuzione di giustizia comandata da Papa Urbano VIII l’anno 1638 eseguita nella piazza della Rotonda, nella quale furono accoppati, scannati e squartati due empî scellerati norcini che condivano la carne porcina con la carne umana».
D. Silvagni, La corte e la società romana
nei secoli XVIII e XIX (Vol II p. 96-98, 1883)
Una delle piazze romane associata per diversi secoli alle cibarie, agli intingoli e alle più svariate leccornie era quella della “Ritonna”, cioè la piazza antistante al Pantheon.
Qui in passato operavano numerose pizzicherie, ovvero quelle botteghe di prodotti alimentari venduti “a spizzico”, in piccole quantità. Uova, alici, sale, ma soprattutto formaggi e salumi, per i quali la piazza era rinomata. I pizzicagnoli non vendevano la loro merce soltanto all’interno di salumerie autorizzate, ma l’intero piazzale era regolarmente invaso e occupato da bancarelle, capannoni, baracchini ambulanti ,una sorta di caotico mercato all’aperto.
In periodo pasquale le salumerie allestivano anche delle barocche esposizioni, spettacolari paesaggi e scenografie create col cibo in modo da impressionare la folla con la loro opulenza. Ecco allora che in piazza cominciava una sorta di gara a costruire la più elaborata scultura di affettati, salsicce e formaggi.
La tradizione delle cornucopie di cibo continuò fino a tempi recenti. Ma non tutti amavano quelle bancarelle e quelle botteghe; di fatto le autorità tornarono ciclicamente, già a partire dal 1400 e poi più volte nel corso dei secoli, a sgombrare la piazza con vari decreti e ingiunzioni.
Uno di questi episodi di ristabilimento del decoro ha lasciato traccia in una targa commemorativa risalente al 1823 ed esposta sul muro del civico 14 in Piazza della Rotonda, l’edificio proprio dirimpetto al Pantheon..
Tra tutti i salumieri che operavano in questa zona, erano quelli originari di Norcia ad avere fama di macellai provetti, tanto che era un comune insulto quello di augurare all’avversario di finire “castrato da un norcino della Rotonda”.
E proprio su Piazza della Rotonda operavano nel 1638 due norcini, marito e moglie, le cui salsicce erano le più buone di tutte.Da tutti quartieri della città la gente accorreva a comprarle: erano perfino troppo sublimi e prelibate..
Così cominciò a spargersi la voce che la coppia di macellai nascondesse un segreto. Cosa mettevano nelle salsicce, per renderle così gustose? E come mai qualcuno giurava di aver visto dei clienti bene in carne, paffuti e rotondetti, entrare nella bottega e non farne più ritorno?
La diceria giunse infine alle orecchie del capitano di giustizia, il quale avviò un’indagine e durante le perquisizioni furono effettivamente trovate delle ossa umane nello scantinato della macelleria.
Il Papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini, condannò a morte i due norcini proprio davanti al Pantheon: vennero uccisi, sgozzati e squartati con l’ascia da un altro sopraffino maestro nell’arte della macelleria, il boia pontificio.
Questa è la storia che si racconta, e che rimase viva nella memoria dei romani. L’immaginario venne talmente impressionato dal fattaccio, che ancora nel 1905 esso rispuntava di tanto in tanto nelle poesie vernacolari..
Cercando verifiche nelle cronache giudiziarie del tempo,si trova un unico accenno alla vicenda dei norcini cannibali in un testo del 1883 di David Silvagni, che al riguardo cita però alcuni fascicoli manoscritti dell’abate Benedetti:
"Tali fascicoli portano il titolo di Fatti antichi avvenuti in Roma, e riguardano la storia dei più famosi misfatti e delle più celebri giustizie, cominciando dal processo dei Cenci, del quale ve ne è un’altra copia più antica ma identica. Ed è importante leggere questi fedeli racconti di fatti atroci e di più atroci giustizie che dallo scrittore vengono narrati colla stessa calma e semplicità colla quale oggi il cronista d’un giornale annuncerebbe una rappresentazione al teatro. E tanta è la riserva che sembra essersi imposto il diarista, che non si trova una parola di indignazione neppure nel racconto più sanguinoso che si rinvenga nei manoscritti. Difatti con tutta calma è narrata la «esecuzione di giustizia comandata da Papa Urbano VIII l’anno 1638 eseguita nella piazza della Rotonda, nella quale furono accoppati, scannati e squartati due empî scellerati norcini che condivano la carne porcina con la carne umana».
D. Silvagni, La corte e la società romana
nei secoli XVIII e XIX (Vol II p. 96-98, 1883)
La Roma del Belli. “Vogliono pane, dategli indulgenze!”
La Roma raccontata dal Belli è la Roma dei sei papi che regnarono ne settantadue anni in cui egli visse, anni di enormi agitazioni, di movimenti politici, di va-e-vieni tra occupazioni militari e restaurazioni, in una città sordida e spopolata, abitata da plebi tra le più incolte e ciniche che ci fossero allora in Italia.
Belli ritrae questa città che si lascia vivere con indolenza mentre si diffonde la consapevolezza che lo Stato della Chiesa è diventato ormai un anacronismo. Già in un sonetto del 32 (Li punti doro) Belli scrive: Cusì viengheno a dì li giacubini, / ar gran sommo pontefice Grigorio: / che te fai de li stati papalini, / dove la vita tua pare un mortorio?. Non fu così facile, comunque. Ancora nel 1862 trecento vescovi reclamarono che il potere temporale era una necessità voluta direttamente dalla provvidenza divina. Affermazioni impegnative, un anno dopo la proclamazione dell'Unità dItalia.
Quando Giuseppe Gioachino nacque, sul soglio di Pietro sedeva Pio VI papa Braschi, non malvagio ma certo inadeguato ai cataclismi di quegli anni: prima la Rivoluzione, poi la folgore di Napoleone. Nel 98 il Direttorio fa occupare Roma e deporre il papa. “Fatemi morire a Roma”, implora il pontefice. “Può morire dove vuole”, gli rispondono. Morirà in carcere nella fortezza di Valence. Anche il suo successore Pio VII deve fare i conti con Napoleone, che lo fa deportare, mentre Roma conosce l'occupazione francese (1808). Per i romani, umiliazione a parte, non è gran male. La presenza degli occupanti dà una scossa a una città che l'amministrazione pontificia ha conservato in condizioni quasi medievali: obelischi e basiliche in un tessuto urbano ridotto a melmoso villaggio.
Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, il papa può tornare a Roma dove rientra il 24 maggio 1814, accolto trionfalmente. La furia restauratrice di alcuni cardinali che vogliono cancellare ogni traccia degli occupanti, arriva al punto da chiedere l'abolizione dell'illuminazione stradale introdotta dai francesi. Salva tutti dal ridicolo il genio di Ercole Consalvi, segretario del papa, politico sommo. Nato in una città meno degradata, sarebbe stato un Metternich. In un paese più consapevole della sua storia sarebbe diventato comunque un mito, come Talleyrand.
Pio VII regna per quasi un quarto di secolo, il suo successore, Leone XII, solo sei anni. Bastano per darci l'immagine dun papa terrorizzato dai tempi, ferocemente restauratore. È lui che durante l'anno Santo del 25, fa impiccare in piazza i due carbonari Targhini e Montanari. Quando papa Della Genga morì, apparve questo cartello: “Ora riposa Della Genga, per la sua pace e per la nostra”. Eppure il Belli ne rievoca anni dopo il mortorio, con uno dei suoi attacchi più teneri: Iersera er papa morto c'è passato, / propi avanti al cantone de Pasquino.... Venti mesi soltanto (tra il 29 e il 30) resta sul trono il suo successore che per distinguersi da lui s'affretta a chiamarsi Pio VIII. In un sonetto del 1° aprile 29, all'indomani dell'elezione, Belli ne dileggia la malferma salute: Ha un erpeto pe tutto, nun tiè denti, / è guercio, je trascineno le gambe.... Gregorio XVI, papa Cappellari, bellunese, regnante dal 31 al 46, è il papa centrale nella vita e nella poesia del Belli, il personaggio principale della sua umana commedia. A papa Grigorio il poeta dedica ben 25 sonetti, tra i quali alcuni dei più riusciti. Reazionario anche lui, ma forse proprio per questo gli piaceva. Gregorio è il papa che nell'enciclica Mirari vos (1832) definisce tra l'altro un vaneggiamento che ognuno debba avere libertà di coscienza, a questo nefasto errore conduce quell'inutile libertà d'opinione che imperversa ovunque...
Di Gregorio, il Belli celebra a modo suo l'elezione. Il sonetto del 2 febbraio 31, appena chiuso il conclave, attacca festoso: Senti, senti Castello come spara. / Senti Montecitorio come sona. / E segno chè finita sta cagnara, / er papa novo già sbenediziona. Stranamente invece, Belli non ne racconta la morte che avviene il 1° giugno 46. In quel periodo il poeta non scrive e i ricordi di Gregorio arrivano più tardi, in autunno, in un sonetto nel quale Belli deride l'ultimo papa della sua vita: Mastai Ferretti, Pio IX, intanto arrivato sul trono di Pietro. Un papa giudicato prima liberale poi traditore, destinato a patire la repubblica del 49 e la breccia di Porta Pia nel 70. E il Pio IX di fama liberale del primo periodo che Belli racconta in un sonetto del gennaio 47, con un attacco grandiosamente reazionario: No, sor Pio, pe smorzà le turbolenze, / questo qui non è er modo e la magnera. / Voi, padre santo, nun n'avete cera, / da fa er papa sarvanno le apparenze. / La sapeva Grigorio l'arte vera / de risponne da Papa a l'insolenze: / Vonno pane? Mannateje indurgenze; / vonno posti? Impiegateli in galera.
Questa era Roma....
mercoledì 25 settembre 2019
Louise de Bellère du Tronchay detta Louise du Néant
Tronchay 1639 ,mistica- Parigi 1694
Louise nasce nel mese di settembre del 1639, nel castello di Tronchay. È la quarta di cinque figlie di una nobile casata dell’Anjou; il padre è scudiero e signore di Ragotry e di Tronchay, la madre discendente di un’altra nobile casata. I due fratelli più grandi sono entrambi cavalieri.
Il racconto della sua vita inizia all’insegna della fragilità. Nella sua monumentale opera sulla storia del sentimento religioso in Francia Henry Bremond racconta l’infanzia di Louise, a partire dallo stesso racconto di lei: al momento della nascita viene subito battezzata perché i suoi genitori temono per la sua vita; a quattro mesi la madre non ha più latte e la bambina viene affidata a una nutrice il cui latte, però, è cattivo… Louise è una bambina apparentemente tranquilla, fino al giorno in cui una serva di casa non le fa bere all’età di otto anni del vino – è sempre il racconto riportato da Bremond. Louise ha una crisi così violenta che il padre, non sapendo dell’accaduto, attribuisce l’avvenimento alla sua natura “cattiva” e la punisce severamente. I genitori prendono a trattarla con rigidità, a punirla anche quando non è lei a sbagliare, perché si convincono che abbia un brutto carattere.
Louise si chiude in sé, è pudica e silenziosa e nel segreto delle sue stanze inizia un dialogo costante con Dio. A dodici anni è mandata, dietro sua richiesta, in collegio dalle religiose di san Francesco; quando ritorna a casa è soprannominata “la religiosa”, nonostante proprio i familiari le impediscano di prendere i voti, e, poiché nel castello spesso sono ospitati i mendicanti, si dedica alla cura dei poveri.
Inizia molto giovane a peregrinare per comunità religiose, lunghi periodi interrotti da alcune malattie e dal tentativo della madre di farle apprezzare anche le “cose del mondo”: trascorre un periodo ad Angers, nella Loira, e lì impara a danzare, cantare e studia: storia, geografia, aritmetica, la lingua italiana e la filosofia. Rientra a casa cambiata, con un nuovo spirito brillante, eloquente ed esplode in tutta la sua bellezza. È corteggiata da più parti. Molti cavalieri arrivano alle lacrime nel chiederla in moglie, le donne la vogliono come amica, offrono rendite in cambio della sua compagnia, e c’è chi la tenta, come una maga che avendo sposato un uomo con un sortilegio tenta di convincerla a fare lo stesso. Louise rifiuta. Lei è innamorata di Gesù Cristo e torna nell’ennesima comunità. Qui iniziano crisi di angoscia e furore mistico tali che le religiose che la ospitano temono che sia posseduta e, soprattutto, temono di non poterla tenere più presso di loro. Nel 1677 decidono di internarla alla Sâlpetrière, lo stabilimento femminile dell’Hôpital Général di Parigi, luogo sorto in quegli anni per volere di Luigi XIV nel quale vengono rinchiusi i mendicanti di Parigi.
È nei mesi di permanenza lì che Louise tiene una sorta di diario. Jean Maillard, l’ultimo confessore della donna, utilizzerà il diario e le lettere inviate ai padri spirituali per ricostruire la biografia di Louise, da cui ricaveranno notizie lo stesso Henry Bremond e Mino Bergamo.
Nelle lettere al suo confessore e padre spirituale, colui che ha il compito di accompagnare la sua “guarigione”, ci sono parole piene di passione, riferite sia al sentimento amoroso che al dolore, ai tormenti e ai supplizi che Louise si autoinfligge: come lei stessa racconta, nel suo cilicio sono messe due asticelle irte di spine con due catene di ferro che le martoriano le spalle; fa costruire per sé una specie di bara dove si corica e si fa applicare a caldo sullo stomaco un crocefisso di bronzo, in modo che la figura di Gesù Cristo le resti impressa appena guarita la dolorosa ferita. Lei alterna questi momenti a quelli di deliquio per le carezze dell’amato e fa parlare, nel diario, il suo corpo per lei. Firma le sue lettere Louise du Néant per rinnovare l’annientamento di sé dinanzi al suo divino sposo, vive nella sua carne la scissione tra «ragione» e «sragione», e il suo io si sdoppia ripetutamente in una sorta di teatro di cui è regista e attrice assieme.
In questa radicale esperienza dell’annullamento di sé, che potremmo descrivere come perdita di sé e smarrimento nell’Altro, si ritrovano gli elementi della riflessione di alcuni libertini eruditi che arrivano a definire un nuovo spazio metafisico, una tensione estrema verso il Nulla o Niente, che ben rappresenta «la perdita di misura e centro, che avvierà all’eccedenza ed all’eccentricità dell’esperienza barocca».La scissione che Louise vive è anche quella del suo tempo. La Sâlpetrière è il luogo fisico e simbolico in cui avviene il «grande internamento del Seicento», che impone la separazione fisica da ogni tipo di devianza, da tutto ciò che non rientra nella evidenza certa della «normalità» e dell’asse fondante della ragione cartesiana.
Fuori dal comune è la capacità del “linguaggio del corpo” di supplire alla mancanza di un impianto intellettualistico o di un percorso razionale di ascesa a Dio. Inconsueta, ma niente affatto isolata, l’esperienza mistica ed estatica di molte donne in questi anni passa proprio attraverso il corpo e la volontà di dare a lui parola e di farne il canale di conoscenza e di ogni tipo di esperienza spirituale, erotica, estatica, e anche autolesionista, quasi a proiettare su di sé le colpe di tanto ardire sul piano della libertà immaginativa: quando la lingua non può o non riesce ad esprimere ciò che sente e percepisce lo spirito, le viene in aiuto la totalità di una esperienza fisica che, ricca di contraddizioni, diviene la chiave di accesso alla parola; ma anche linguaggio del corpo come segno e sintomo di una corporeità non totalmente esprimibile se non mediante una totale sublimazione dei sensi e di erotismo, come è presente nell’esperienza mistica. Una parola che non sempre è compresa. E Louise viene di volta in volta considerata folle, strega, santa, al confine fra un’esperienza riconoscibile come religiosa e una patologia medica moderna.
Louise nasce nel mese di settembre del 1639, nel castello di Tronchay. È la quarta di cinque figlie di una nobile casata dell’Anjou; il padre è scudiero e signore di Ragotry e di Tronchay, la madre discendente di un’altra nobile casata. I due fratelli più grandi sono entrambi cavalieri.
Il racconto della sua vita inizia all’insegna della fragilità. Nella sua monumentale opera sulla storia del sentimento religioso in Francia Henry Bremond racconta l’infanzia di Louise, a partire dallo stesso racconto di lei: al momento della nascita viene subito battezzata perché i suoi genitori temono per la sua vita; a quattro mesi la madre non ha più latte e la bambina viene affidata a una nutrice il cui latte, però, è cattivo… Louise è una bambina apparentemente tranquilla, fino al giorno in cui una serva di casa non le fa bere all’età di otto anni del vino – è sempre il racconto riportato da Bremond. Louise ha una crisi così violenta che il padre, non sapendo dell’accaduto, attribuisce l’avvenimento alla sua natura “cattiva” e la punisce severamente. I genitori prendono a trattarla con rigidità, a punirla anche quando non è lei a sbagliare, perché si convincono che abbia un brutto carattere.
Louise si chiude in sé, è pudica e silenziosa e nel segreto delle sue stanze inizia un dialogo costante con Dio. A dodici anni è mandata, dietro sua richiesta, in collegio dalle religiose di san Francesco; quando ritorna a casa è soprannominata “la religiosa”, nonostante proprio i familiari le impediscano di prendere i voti, e, poiché nel castello spesso sono ospitati i mendicanti, si dedica alla cura dei poveri.
Inizia molto giovane a peregrinare per comunità religiose, lunghi periodi interrotti da alcune malattie e dal tentativo della madre di farle apprezzare anche le “cose del mondo”: trascorre un periodo ad Angers, nella Loira, e lì impara a danzare, cantare e studia: storia, geografia, aritmetica, la lingua italiana e la filosofia. Rientra a casa cambiata, con un nuovo spirito brillante, eloquente ed esplode in tutta la sua bellezza. È corteggiata da più parti. Molti cavalieri arrivano alle lacrime nel chiederla in moglie, le donne la vogliono come amica, offrono rendite in cambio della sua compagnia, e c’è chi la tenta, come una maga che avendo sposato un uomo con un sortilegio tenta di convincerla a fare lo stesso. Louise rifiuta. Lei è innamorata di Gesù Cristo e torna nell’ennesima comunità. Qui iniziano crisi di angoscia e furore mistico tali che le religiose che la ospitano temono che sia posseduta e, soprattutto, temono di non poterla tenere più presso di loro. Nel 1677 decidono di internarla alla Sâlpetrière, lo stabilimento femminile dell’Hôpital Général di Parigi, luogo sorto in quegli anni per volere di Luigi XIV nel quale vengono rinchiusi i mendicanti di Parigi.
È nei mesi di permanenza lì che Louise tiene una sorta di diario. Jean Maillard, l’ultimo confessore della donna, utilizzerà il diario e le lettere inviate ai padri spirituali per ricostruire la biografia di Louise, da cui ricaveranno notizie lo stesso Henry Bremond e Mino Bergamo.
Nelle lettere al suo confessore e padre spirituale, colui che ha il compito di accompagnare la sua “guarigione”, ci sono parole piene di passione, riferite sia al sentimento amoroso che al dolore, ai tormenti e ai supplizi che Louise si autoinfligge: come lei stessa racconta, nel suo cilicio sono messe due asticelle irte di spine con due catene di ferro che le martoriano le spalle; fa costruire per sé una specie di bara dove si corica e si fa applicare a caldo sullo stomaco un crocefisso di bronzo, in modo che la figura di Gesù Cristo le resti impressa appena guarita la dolorosa ferita. Lei alterna questi momenti a quelli di deliquio per le carezze dell’amato e fa parlare, nel diario, il suo corpo per lei. Firma le sue lettere Louise du Néant per rinnovare l’annientamento di sé dinanzi al suo divino sposo, vive nella sua carne la scissione tra «ragione» e «sragione», e il suo io si sdoppia ripetutamente in una sorta di teatro di cui è regista e attrice assieme.
In questa radicale esperienza dell’annullamento di sé, che potremmo descrivere come perdita di sé e smarrimento nell’Altro, si ritrovano gli elementi della riflessione di alcuni libertini eruditi che arrivano a definire un nuovo spazio metafisico, una tensione estrema verso il Nulla o Niente, che ben rappresenta «la perdita di misura e centro, che avvierà all’eccedenza ed all’eccentricità dell’esperienza barocca».La scissione che Louise vive è anche quella del suo tempo. La Sâlpetrière è il luogo fisico e simbolico in cui avviene il «grande internamento del Seicento», che impone la separazione fisica da ogni tipo di devianza, da tutto ciò che non rientra nella evidenza certa della «normalità» e dell’asse fondante della ragione cartesiana.
Fuori dal comune è la capacità del “linguaggio del corpo” di supplire alla mancanza di un impianto intellettualistico o di un percorso razionale di ascesa a Dio. Inconsueta, ma niente affatto isolata, l’esperienza mistica ed estatica di molte donne in questi anni passa proprio attraverso il corpo e la volontà di dare a lui parola e di farne il canale di conoscenza e di ogni tipo di esperienza spirituale, erotica, estatica, e anche autolesionista, quasi a proiettare su di sé le colpe di tanto ardire sul piano della libertà immaginativa: quando la lingua non può o non riesce ad esprimere ciò che sente e percepisce lo spirito, le viene in aiuto la totalità di una esperienza fisica che, ricca di contraddizioni, diviene la chiave di accesso alla parola; ma anche linguaggio del corpo come segno e sintomo di una corporeità non totalmente esprimibile se non mediante una totale sublimazione dei sensi e di erotismo, come è presente nell’esperienza mistica. Una parola che non sempre è compresa. E Louise viene di volta in volta considerata folle, strega, santa, al confine fra un’esperienza riconoscibile come religiosa e una patologia medica moderna.
Platone che codifica l'anima!
“Non
esiste uomo che, seppur per un attimo, non sia stato seguace di
Platone. Chi può dire di non essersi sentito spuntare le ali dell'anima?
Chi non l'ha sentita levarsi verso la contemplazione diretta, immediata
di ciò che la grigia coltre di nuvole del quotidiano nasconde alla
vista? Chi, grazie all'eros, non ha toccato profondità della conoscenza
alle quali la ragione non ha accesso? Chi non ha visto svelarsi la
realtà altra e luminosa dove colui che ha conosciuto l'ispirazione
incontra de visu gli archetipi eterni delle cose? Chi non ha assistito
al crollo, alla caduta del muro invalicabile tra soggetto e oggetto, chi
non ha visto l'Io abbandonare i limiti della propria introversione
egoistica per respirare a pieni polmoni l'aria rarefatta della
conoscenza e fondersi con tutto il creato? E quei "sogni d'amore
meravigliosi, puri, senza nulla di terreno, intessuti di profumo di
fiori e luce lunare, con i quali oggi si ottenebrano i giorni del la
giovinezza e che sono sulle labbra di tutti i poeti di tutte le nazioni
colte" non sono forse figli del platonismo?”
Pavel A. Florenskij, Realtà e mistero
ALBERI SENZA DEI
Un albero senza Dei, senza fate, senza significati trascendenti, è già un albero morto. Contro la passione distruttiva dell’uomo dissacrato non ha difesa.
Se c’è, in un cortile, un cedro del Libano più vecchio delle Piramidi che impaccia la sosta delle vetture di undici avvocati, nove commercianti, tre dentisti, un fotografo, una pediatra, lo si taglia subito. Ma se al cedro del Libano è legata la credenza che, tagliandolo, tutto il casamento crolla, perché morrebbe con l’albero il genio protettore del luogo, un rispettoso terrore impedirà il taglio; sbarrato da Psiche, il cortile resterebbe vuoto. Ai piedi dell’albero, velata, una prostituta sacra raccoglie monete dai balconi.
L’uomo tolto alle manette del sacro può fare soltanto quello che sta facendo; non chiedetegli di rispettare quel che non gli si presenta come una realtà oscura, funesta e imprevedibile. Si pensi al padre, al facile parricidio se padre significa una cosa qualunque, un atto, un’abitudine. L’opinione di Haudricourt e Hédin che tutte le piante attualmente coltivate sono state in origine sacre, e solo per questo sono sopravvissute, è da ritenere. Al culmine della secolarizzazione, c’è soltanto la distruzione.
E la ragione può così poco, nei fatti umani, che la distruzione degli alberi procede anche se la ragione, uscita dal suo sonno, si è messa a gridare che bisogna impedirla. Il razionalismo ecologico sostiene che bisogna salvare il verde (che cos’è il verde?) perché altrimenti l’aria diventa irrespirabile, e il suo stupore è grande, vedendo che un consiglio per sopravvivere non ha nessun effetto. La sopravvivenza non interessa concretamente l’anima umana; la risposta del cuore è glaciale. Quel che cerchiamo non è la sopravvivenza della specie (che cos’è la specie?), è un senso alla vita.
Gli alberi non sono il verde, sono «i nostri grandi fratelli immobili», una gente pelosa, umida e cornuta la cui caratteristica, inconcepibile per l’uomo, è una bontà infinita. Gli è impossibile vivere senza devozione disinteressata; li abbiamo lordati di sufficienza e di terrori. E l’ecologia fallirà, perché il suo orizzonte mentale non è diverso, in profondo, da quello del distruttore.
Di più dirò: ch’a gli alberi dà vita
spirito uman che sente e che ragiona.
Per prova sollo: io n’ho la voce udita
che nel cor flebilmente anco mi suona.
(Tasso, Ger. Lib., 13, 49)
Virgilio, incominciando a parlare della peste del Norico, dice: Nec via mortis erat simplex, cioè la morte non arrivava per una sola strada. La morte degli alberi arriva per molte strade.
Una calvizie inesorabile, per la quale non ci saranno parrucche, va denudando dappertutto il cranio del pianeta. L’eccesso di popolazione umana divoratrice di mondi è un terribile contagio; tutti questi respiranti sono nemici del respiro; l’aria è consumata da loro. Le cliniche da cui i piccoli roditori umani escono in processione senza fine, sono grandi disboscatrici, dissimulate tra i pini e gli eucalipti. I gas tossici procreati senza misura da una città o da un impianto industriale partecipano, anche da grandi distanze, a tutte le stragi vegetali. Anidride solforosa, acido fluoridrico, organoclorati, viaggiano senza bisogno di passaporti falsi. La civiltà uccide gli alberi col fiato, come l’odore della tarasca, il drago di santa Marta, uccideva i tarasconesi.
Sotto il miasma, l’uomo (forse perché miasma lui stesso) resiste meglio: vive e delira anche dove la pianta, orfana di umidità sacrale, muore. L’uomo può scendere nel sottosuolo; la pianta può solo salire. Attraverso la nostra agricoltura avvelenata dalla peste chimica, la via mortis assume i frastagli, i meandri e le illusioni lugubri di un labirinto. «Il mondo, vaso spirituale, non può essere modellato. Chi lo modella lo distrugge» (Tao tê ching, 29).
Dappertutto immagini dell’epidemia: giungle asiatiche spiantate dai defolianti; macchia mediterranea e pinete fra i tentacoli di morte del miasma marino, untuosa garza in cui si combinano le schiume detergenti portate dai fiumi infetti e colatura di petroliera; l’Amazzonia brasiliana, di cui piani forsennati di sfruttamento imprenditoriale e governativo hanno decretato la distruzione; fondi marini senza vita. Ho sovente l’impressione, passando per certe nostre campagne, di trovarmi in un quartiere storico in demolizione, non ancora tutto abbandonato, ma istupidito, ubriacato dai crolli, dove i superstiti fissano il vuoto che cammina.
Non si creda che la perdita del Mato amazzonico sia inoffensiva per i bambini di Pinerolo o per gli studenti di Urbino. Non lo sarà che per quelli che non ne vedranno la fine. Senza conseguenze per tutti è soltanto la morte sicura di quelle poche migliaia di Indios che sopravvivono, nudità tristi, ombre piumate, coi latrati d’infinito della nostra rabbia intorno alle loro capanne, laggiù, nelle foreste amazzoniche. Tutti li hanno, tacitamente, condannati a morte. I superstiti dentro, forse, ai sarcofaghi ministeriali delle riserve. Ma prima, almeno, tirate tutte le vostre frecce avvelenate, ci sia per ogni punta una gola bianca! Anche per loro, come per gli alberi l’Ecologo, c’è l’Etnologo protettore, che li vuole vivi per portare in visita nella foresta i suoi schiamazzanti scolari: ecco il Popolo Primitivo! Date l’Etnologo ai coccodrilli, buona gente, non lasciate che scrivano libri, non lasciatevi capire da loro…
Ma una terroristica rete di autostrade calata sopra l’Inferno Verde demolito, enorme altare nero dell’ingegneria sadica e della Megera pioniera, non darà più soddisfazioni di quell’ottusa foresta piena di mostri e di preistoria? Il safari all’anaconda, senza neanche il modesto rischio di una freccia negli occhiali! Dov’è il freno capace di frenare? Perché un qualche terribile prodigio non paralizza le nostre mani? Perché non colano sangue i tronchi abbattuti?
L’untore, in questa pestilenza, uno dei gomiti della via mortis, esiste veramente. Ogni velenoso che al cinema catapulta tra le file di sedie vuote la sua cicca accesa, cova in sé la bragia di molti incendi. La stessa mano ignobile, in una collina asciutta, farà di un grande bosco carboni spenti.
Ogni nostra estate, per i boschi delle coste e delle colline, è una lunga corsa tra le fiamme. Cicca buttata, latta di petrolio, abulia della legge, sono tre facce e una testa sola: la miseria di un popolo che ignora, in alto e in basso, il rispetto della bellezza e della vita. È possibile avvicinarsi al distruttore e dirgli: «Quel che distruggi è il simbolo della Vita cosmica, e col simbolo avrai bruciato anche la vita» senza avere in risposta una coltellata?
Leopardi (Alla Primavera) usa, parlando di boschi, una parola che oggi si può intendere in due sensi: vissero. Voleva dire che i boschi vissero perché il dio Pan e le ninfe li abitavano, ma non è sbagliato intendere, insieme a questo, che vissero, come forma vivente, finché gli Dei e le ninfe li abitarono. Rimando il lettore a questo testo leopardiano e anche alla chiusa e all’abbozzo in prosa dell’Inno ai Patriarchi (da applicare agli ultimi Indios) come esempi non di scrittura poetica, ma di autentico vaticinio. Vissero è una piccola chiave per capire l’attuale peste della vegetazione, nella sua fatalità e nella sua sconcertante dipendenza umana. Un albero diventato semplice cosa, utilità, ornamento, dopo che fu abitazione vivente di esseri divini, sede di una forza soprannaturale, traccia visibile di una divinità, non è più salvabile. Vissero. Il petrolio dell’incendiario, la nube tossica, il dente del dozer non trovano ostacoli.
Nelle campagne meridionali, uno dei più orrendi e sfrontati delitti di mafia è la distruzione di uliveti: li segano di notte, per rappresaglia e per avvertimento. È un delitto che, se si avesse un’idea giusta del rapporto uomo-terra-ulivo-cielo, dovrebbe essere spietatamente punito con la morte. Sappi, uomo vile, che per un ulivo tagliato cadrà la tua testa. Divina legge, la legge che parlasse questo linguaggio forte.
Nell’Attica l’ulivo era sacro ad Atena, era Atena. Niente di più degno, nel momento grave in cui gli alberi prendono congedo dalla terra, di quel coro dell’Edipo a Colono, congedo del vecchio Sofocle dalla vecchiaia e dall’Attica, dove si canta la vegetazione che fiorisce alle porte di Atene. È l’incantato inno all’ulivo di Sofocle, all’ulivo che protegge la città dalla distruzione: «… una pianta di cui non so se mai ne sia nato l’uguale, in terra d’Asia o nella grande isola dorica di Pelope, una pianta indomabile, che si rifà da sola … l’ulivo dalle foglie cerulee, che nutre i nostri figli, l’albero che nessuno, né giovane né vecchio, può brutalmente distruggere o saccheggiare». Custodi dell’ulivo, dice Sofocle, sono Zeus e Atena, i cui sguardi mai l’abbandonano.
Da molto tempo lo hanno abbandonato, e i nostri ulivi non rinascono il giorno dopo, come quello dell’Eretteion bruciato dai Persiani. Li avvolge la via mortis nei suoi lenti giri. L’ulivo, finché vivrà, nutrirà, ma senza interdetto sacro, senza quegli occhi nascosti, è nelle mani del distruttore.
Tratto da Guido Ceronetti, La carta è stanca
martedì 24 settembre 2019
Le madonne nere di Chartres
Statua
in legno di pero di Notre-Dame du Pilier (“Nostra Signora del
Pilastro”), conosciuta comunemente come la Madonna Nera di Chartres,
conservata all’interno della Cattedrale e risalente al 1540.
Molto diffuso in varie località dell’Europa, il culto delle Madonne Nere ha suscitato innumerevoli dibattiti e ipotesi interpretative. Anche in questo caso una componente di continuità con la religiosità pre-cristiana è fuor di dubbio: le immagini di Iside e di Cibele erano spesso raffigurate con il volto scuro, da collegarsi sia con l’aspetto notturno e lunare, sia con l’aspetto ctonio e di richiamo alla terra e alla sua fertilità. Anche la Vergine appare come particolarmente legata a luoghi sotterranei, grotte e anfratti. Sia a Chartres che a Le Puy la Madonna Nera era venerata in cripte profonde. In molti casi l’immagine sacra si riteneva scesa dal cielo o arrivata dal mare. Evidenze di continuità con la tradizione più antica sono presenti ad esempio al Santuario di Santa Maria dell’Impruneta, presso Firenze, dove gli scavi archeologici hanno messo in luce, sul luogo ove sorge oggi l’edificio sacro, tracce di un culto delle acque che risale all’epoca etrusca. Il santuario era collegato a una fonte, ritenuta miracolosa, e la Madonna venerata come protettrice delle acque, regolatrice delle piogge e della piena dei fiumi.
Un legame particolare si può tracciare con la figura di Iside, che sembra aver anche anticipato la classica iconografia della madre con il bambino in braccio. Tale legame tra le due figure femminili viene evidenziato dalla lettura di Cardini: “Maria è madre del Cristo Salvatore, come Iside è madre di Horus salvatore; entrambe tengono in grembo il loro bambino e l’allattano; entrambe lo sottraggono ai rispettivi persecutori, Iside conducendolo nella palude di Chemnis e Maria in Egitto. Lo stesso fatto che Maria scelga per la sua fuga la patria di Iside, e che nell’Egitto cristiano il culto di Maria sia divenuto tanto forte, non costituiscono prove ulteriori di questo rapporto privilegiato?” .
Analogamente, la Madonna Nera venerata a Tindari, in Sicilia, fu trovata, secondo la leggenda, arenata sulla spiaggia, come Afrodite, della quale si narrava la nascita dalle acque marine sulle coste dell’isola di Cipro. A Crotone, la Madonna Nera è venerata dalle ragazze in attesa d’un marito, ed è significativo che in questa località sorgesse un famoso santuario dedicato a Hera Lacinia, patrona del matrimonio…..
Molto diffuso in varie località dell’Europa, il culto delle Madonne Nere ha suscitato innumerevoli dibattiti e ipotesi interpretative. Anche in questo caso una componente di continuità con la religiosità pre-cristiana è fuor di dubbio: le immagini di Iside e di Cibele erano spesso raffigurate con il volto scuro, da collegarsi sia con l’aspetto notturno e lunare, sia con l’aspetto ctonio e di richiamo alla terra e alla sua fertilità. Anche la Vergine appare come particolarmente legata a luoghi sotterranei, grotte e anfratti. Sia a Chartres che a Le Puy la Madonna Nera era venerata in cripte profonde. In molti casi l’immagine sacra si riteneva scesa dal cielo o arrivata dal mare. Evidenze di continuità con la tradizione più antica sono presenti ad esempio al Santuario di Santa Maria dell’Impruneta, presso Firenze, dove gli scavi archeologici hanno messo in luce, sul luogo ove sorge oggi l’edificio sacro, tracce di un culto delle acque che risale all’epoca etrusca. Il santuario era collegato a una fonte, ritenuta miracolosa, e la Madonna venerata come protettrice delle acque, regolatrice delle piogge e della piena dei fiumi.
Un legame particolare si può tracciare con la figura di Iside, che sembra aver anche anticipato la classica iconografia della madre con il bambino in braccio. Tale legame tra le due figure femminili viene evidenziato dalla lettura di Cardini: “Maria è madre del Cristo Salvatore, come Iside è madre di Horus salvatore; entrambe tengono in grembo il loro bambino e l’allattano; entrambe lo sottraggono ai rispettivi persecutori, Iside conducendolo nella palude di Chemnis e Maria in Egitto. Lo stesso fatto che Maria scelga per la sua fuga la patria di Iside, e che nell’Egitto cristiano il culto di Maria sia divenuto tanto forte, non costituiscono prove ulteriori di questo rapporto privilegiato?” .
Analogamente, la Madonna Nera venerata a Tindari, in Sicilia, fu trovata, secondo la leggenda, arenata sulla spiaggia, come Afrodite, della quale si narrava la nascita dalle acque marine sulle coste dell’isola di Cipro. A Crotone, la Madonna Nera è venerata dalle ragazze in attesa d’un marito, ed è significativo che in questa località sorgesse un famoso santuario dedicato a Hera Lacinia, patrona del matrimonio…..
AIDONEO O ADE O PLUTONE
"Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare,
e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo rapì - lo concedeva Zeus dal tuono profondo, che vede lontano, eludendo Demetra dalla spada d'oro dea delle splendide messi -
mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, figlie di Oceano, e coglieva fiori ... "
(incipit dell'inno omerico a Demetra)
La campagna ennese, scenario del mito di Cerere, simboleggia il Giardino dei Filosofi: un luogo delizioso, ricco di fonti di acqua viva che bagnano belle praterie ove violette e ogni specie di fiori crescono in abbondanza.
Plutone ha vari nomi, tutti significanti il nero, l'oscuro, e ispiranti orrore, tristezza; è il Re dell'Impero tenebroso della Morte, nonché dio delle ricchezze.
Necessita che egli rapisca una vergine bella, pura, dalle gote vermiglie, e la sposi; unitisi, scenderanno nel Regno della Morte; indi, non si vedrà che orrore e tenebre, si manifesterà la veste tenebrosa.
Detta nerezza è il segno della dissoluzione, allegoricamente definita putrefazione, corruzione, ombre, abisso, inferno.
Aidoneo vede Proserpina (o Ferefata, cioè colei che porta la luce, il giorno) raccogliere fiori; appena la fanciulla coglie un narciso (ovvero la bianchezza), egli la rapisce e parte subito col suo carro trainato da neri cavalli.
Oggi, in Aidone (EN), si venera un santo cristiano nero, che attira fedeli da ogni dove.
(In foto: testa di Ade, Museo Archeologico di Aidone)
La campagna ennese, scenario del mito di Cerere, simboleggia il Giardino dei Filosofi: un luogo delizioso, ricco di fonti di acqua viva che bagnano belle praterie ove violette e ogni specie di fiori crescono in abbondanza.
Plutone ha vari nomi, tutti significanti il nero, l'oscuro, e ispiranti orrore, tristezza; è il Re dell'Impero tenebroso della Morte, nonché dio delle ricchezze.
Necessita che egli rapisca una vergine bella, pura, dalle gote vermiglie, e la sposi; unitisi, scenderanno nel Regno della Morte; indi, non si vedrà che orrore e tenebre, si manifesterà la veste tenebrosa.
Detta nerezza è il segno della dissoluzione, allegoricamente definita putrefazione, corruzione, ombre, abisso, inferno.
Aidoneo vede Proserpina (o Ferefata, cioè colei che porta la luce, il giorno) raccogliere fiori; appena la fanciulla coglie un narciso (ovvero la bianchezza), egli la rapisce e parte subito col suo carro trainato da neri cavalli.
Oggi, in Aidone (EN), si venera un santo cristiano nero, che attira fedeli da ogni dove.
(In foto: testa di Ade, Museo Archeologico di Aidone)
domenica 22 settembre 2019
Santa prudenziana
Fotografia da Instagram di valentinaphotograph
#umbriacuoreverde #umbriaculture #narni
sabato 21 settembre 2019
Igea ed Esculapio a Palermo
Igiea, figlia di Asclepio ( o Esculapio ) e di Epione (o Lampezia), è la dea della salute e dell'igiene. Nella religione greca e romana, il culto di Igiea è associato strettamente a quello del padre Asclepio, tutelando in questo modo l'intero stato di salute dell'individuo. Igiea viene invocata per prevenire malattie e danni fisici; Asclepio per la cura delle malattie e il ristabilimento della salute persa.
La celebre Villa Igiea, il cui nome integro è Igea Salutis Dea, sorge sulle rovine di un antico tempio panormitano, quello dedicato alla dea Igiea. L'area dell'acquasanta fu assai frequentata dai sacerdoti fenici, i quali utilizzando le acque sulfuree che naturalmente lì scorrono scacciavano i mali che colpivano gli uomini. L'utilizzo di tali aree a scopi terapeutici continuò nei vari periodi a seguire. Questo lascia presagire la diffusione che i culti esculapidei ebbero in questa zona di Palermo tanto che il quartiere mantenne il nome di acquasanta.
Sebbene il Tempio di Igiea sia costruzione ottocentesca, questo esplica il dio di un luogo legato ad aspetti terapeutici. Tutt'oggi nell'area è presente uno dei più importanti poli ospedalieri palermitani.
Immagine: Tempio di Igiea all'acquasanta, Palermo.
La disperata resistenza dei pagani
Lidia Storoni Mazzolani, ricostruendo l'incontro di Sant'Agostino con i
pagani, propone all'attenzione e alla riflessione un problema
storiograficamente trascurato e assai spesso sottovalutato, ma di
fondamentale importanza nella storia occidentale quello dello scontro
fra cristianesimo e paganesimo nei secoli della decadenza dell'Impero
romano quando tutti, pagani e cristiani conoscevano l'angoscia di vivere
in un mondo In cui erano crollate certezze che sembravano
incrollabili, e in cui la ricerca di nuovi valori era condizione della
sopravvivenza sia individuale sia politica.
A partire dall'atteggiamento di Agostino verso i pagani, Lidia Storoni Mazzolani pone nella sua interezza, il problema di una società che a ben vedere, nonostante il cristianesimo fosse ormai religione ufficiale, era rimasta pagana in misura assai maggiore di quanto si sia soliti credere.
Le costituzioni imperiali non consentono molti dubbi in proposito. La loro lettura conferma che il paganesimo, come del resto è ovvio non scompare da un giorno all'altro: gli antichi culti continuarono ad essere praticati e la durezza della repressione imperiale sta a testimoniare della loro vivacità e della loro pericolosità.
Da un canto c'era chi accusava il cristianesimo di essere la causa principale della decadenza di Roma, dall'altra chi credeva che esso fosse la sola possibilità di riscatto collettivo. Agostino fu appunto colui che propose Cristo come fondatore della «nuova città», come risposta a tutti gli interrogativi dell'epoca, leggendo il suo messaggio in chiave non solo religiosa ma anche e soprattutto politica. Nessuna meraviglia, quindi, che Agostino pensasse che il paganesimo dovesse essere annientato. E nessuna meraviglia che la stessa cosa pensasse il potere imperiale, che da tempo tentava di imporre con la forza del diritto la nuova religione. Già nel 331 Costanzo aveva ordinato che contro «la demenza dei sacrifici» si applicassero le «pene adeguate» stabilite da suo padre Costantino. Nel 346 si stabilì più esplicitamente che chi osava compiere sacrifici fosse abbattuto «con la spada vendicatrice» Ma evidentemente la minaccia della pur definitiva sanzione non fu sufficiente: la pena di morte venne ribadita del 385, il divieto dei sacrifici venne riconfermato nel 392 e nel 399. Il 9 aprile del 399 Arcadio, Onorio e Teodosio stabilirono che «i pagani che sussistono, benché ormai riteniamo che non ve ne siano siano, tenuti a freno dal rigore delle leggi già promulgate». Ma evidentemente i pagani sussistevano. Due mesi dopo 18 giugno gli stessi imperatori furono costretti a ripetere «i pagani che tuttora esistono se colti nell'atto di compiere sacrifici benché passibili della pena capitale siano costretti alla confisca dei beni e all'esilio». Dietro le scarne disposizioni di legge si coglie la disperata «resistenza» pagana al tentativo di imporre il culto di Stato e i principi della mora le cristiana reprimendo ferocemente ogni comportamento contrario ai nuovi precetti. E a dimostrarlo basterà un esempio la durissima repressione dell omosessualità maschile tradizionalmente consentita e largamente praticata a Roma, colpita a partire da una costituzione di Costanzo e Costante del 342 da pene severissime come la castrazione e la vivicombustione comminate in nome della «natura» e di Dio che voleva il sesso limitato al solo rapporto eterosessuale in funzione procreativa.
Il libro di Lidia Storoni Mazzolani propone alla riflessione un problema fondamentale nonostante le ricerche di Brown, nonostante gli studi raccolti da Arnaldo Momigliano con il titolo Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV nonostante un libro come Paganism in the Roman Empire di MacMullen . Esiste tuttora una lacuna storiografica una zona d'ombra nella quale è difficile cogliere le condizioni che da un tanto consentirono a una fede umile nata fra i poveri di conquistare le maggiori personalità dell'epoca e dall'altro tennero in vita la credenza in divinità antiche che non promettevano né resurrezione né immortalità ma continuarono ad essere adorate ad onta dei rischi che «la demenza del culto».
(archivio Unità)
A partire dall'atteggiamento di Agostino verso i pagani, Lidia Storoni Mazzolani pone nella sua interezza, il problema di una società che a ben vedere, nonostante il cristianesimo fosse ormai religione ufficiale, era rimasta pagana in misura assai maggiore di quanto si sia soliti credere.
Le costituzioni imperiali non consentono molti dubbi in proposito. La loro lettura conferma che il paganesimo, come del resto è ovvio non scompare da un giorno all'altro: gli antichi culti continuarono ad essere praticati e la durezza della repressione imperiale sta a testimoniare della loro vivacità e della loro pericolosità.
Da un canto c'era chi accusava il cristianesimo di essere la causa principale della decadenza di Roma, dall'altra chi credeva che esso fosse la sola possibilità di riscatto collettivo. Agostino fu appunto colui che propose Cristo come fondatore della «nuova città», come risposta a tutti gli interrogativi dell'epoca, leggendo il suo messaggio in chiave non solo religiosa ma anche e soprattutto politica. Nessuna meraviglia, quindi, che Agostino pensasse che il paganesimo dovesse essere annientato. E nessuna meraviglia che la stessa cosa pensasse il potere imperiale, che da tempo tentava di imporre con la forza del diritto la nuova religione. Già nel 331 Costanzo aveva ordinato che contro «la demenza dei sacrifici» si applicassero le «pene adeguate» stabilite da suo padre Costantino. Nel 346 si stabilì più esplicitamente che chi osava compiere sacrifici fosse abbattuto «con la spada vendicatrice» Ma evidentemente la minaccia della pur definitiva sanzione non fu sufficiente: la pena di morte venne ribadita del 385, il divieto dei sacrifici venne riconfermato nel 392 e nel 399. Il 9 aprile del 399 Arcadio, Onorio e Teodosio stabilirono che «i pagani che sussistono, benché ormai riteniamo che non ve ne siano siano, tenuti a freno dal rigore delle leggi già promulgate». Ma evidentemente i pagani sussistevano. Due mesi dopo 18 giugno gli stessi imperatori furono costretti a ripetere «i pagani che tuttora esistono se colti nell'atto di compiere sacrifici benché passibili della pena capitale siano costretti alla confisca dei beni e all'esilio». Dietro le scarne disposizioni di legge si coglie la disperata «resistenza» pagana al tentativo di imporre il culto di Stato e i principi della mora le cristiana reprimendo ferocemente ogni comportamento contrario ai nuovi precetti. E a dimostrarlo basterà un esempio la durissima repressione dell omosessualità maschile tradizionalmente consentita e largamente praticata a Roma, colpita a partire da una costituzione di Costanzo e Costante del 342 da pene severissime come la castrazione e la vivicombustione comminate in nome della «natura» e di Dio che voleva il sesso limitato al solo rapporto eterosessuale in funzione procreativa.
Il libro di Lidia Storoni Mazzolani propone alla riflessione un problema fondamentale nonostante le ricerche di Brown, nonostante gli studi raccolti da Arnaldo Momigliano con il titolo Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV nonostante un libro come Paganism in the Roman Empire di MacMullen . Esiste tuttora una lacuna storiografica una zona d'ombra nella quale è difficile cogliere le condizioni che da un tanto consentirono a una fede umile nata fra i poveri di conquistare le maggiori personalità dell'epoca e dall'altro tennero in vita la credenza in divinità antiche che non promettevano né resurrezione né immortalità ma continuarono ad essere adorate ad onta dei rischi che «la demenza del culto».
(archivio Unità)
venerdì 20 settembre 2019
Il prototipo primo di tutte le Ville Venete, ancora pressoché intatta!
Risalente agli inizi del XV secolo,
Villa Dal Verme è una delle poche Ville Venete di quel periodo sopravvissute fino ad oggi senza eccessive modifiche. L'edificio si trova appena fuori Agugliaro (VI), non lontano dalla strada per Vò sul canale Liona ed è talvolta definita dagli studiosi
"la Madre di tutte le Ville Venete"
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