Gli
aztechi giocavano a calcio ma non sappiamo neppure con quali regole.
Gretti preti e missionari hanno distrutto tutto della cultura
precolombiana. Come sarebbe stato più bello e culturalmente più ricco il
mondo se la civiltà azteca e inca avessero potuto svilupparsi anziché
cedere alla migrazione europea e alla violenza del credo cattolico.
martedì 31 marzo 2020
L'albero del cosmo, ma anche l'albero del mondo
L’albero,
anzi, l’Albero, è all’origine della vita dell’uomo. Specifico dell’uomo
perché la vita in assoluto, dopo le sue manifestazioni luminose e
inaccessibili nel cosmo, si manifesta sul pianeta nell’Acqua, come
narrarono subito i miti, le religioni e i poeti, e come scoprirà, dopo
millenni, la scienza. Quando l’abitante del pianeta diviene infine uomo,
l’albero, simbolico e religioso, è inscindibile dalla sua storia:
collega la terra al cielo, le sue radici attingono al fondo
misterioso e generante della terra, le sue fronde comunicano con lo
spazio aereo del cielo abitato dal divino. L’albero accompagna
l’esperienza dell’uomo sulla terra, sin dalle origini: è un albero, un
tronco allora vivente, quello da cui Ulisse ricava il letto suo e della
moglie Penelope, a significare che la loro unione matrimoniale non è
casuale o effimera ma sacra, originaria.
Nell’Eneide la Sibilla di Cuma indica all’esule troiano l’accesso segreto al Ramo d’Oro che consente la conoscenza del regno ultraterreno. Quando Fetonte, nelle Metamorfosi di Ovidio, precipita nel Po dopo avere sghembato l’asse del mondo nella sua folle corsa in cielo, giungeranno le sue sorelle a piangerlo, e su quelle rive, dallo strazio, saranno mutate in piante. Dante riprenderà l’immagine e proietterà la natura dell’inferno in una selva, come una selva segna la rovina di Macbeth e, sempre in Shakespeare, un bosco fa nascere e svanire il magico Sogno di una notte di mezza estate. Il bosco è il luogo delle fiabe, dove ci si perde e si annida il pericolo, ma anche quello della delizia dell’uomo che, come insegna Henry David Thoreau, fugge dalla civiltà cercando lo spirito arcano della natura. Il fatto che da sempre i poeti parlino di alberi, è naturale......
Nell’Eneide la Sibilla di Cuma indica all’esule troiano l’accesso segreto al Ramo d’Oro che consente la conoscenza del regno ultraterreno. Quando Fetonte, nelle Metamorfosi di Ovidio, precipita nel Po dopo avere sghembato l’asse del mondo nella sua folle corsa in cielo, giungeranno le sue sorelle a piangerlo, e su quelle rive, dallo strazio, saranno mutate in piante. Dante riprenderà l’immagine e proietterà la natura dell’inferno in una selva, come una selva segna la rovina di Macbeth e, sempre in Shakespeare, un bosco fa nascere e svanire il magico Sogno di una notte di mezza estate. Il bosco è il luogo delle fiabe, dove ci si perde e si annida il pericolo, ma anche quello della delizia dell’uomo che, come insegna Henry David Thoreau, fugge dalla civiltà cercando lo spirito arcano della natura. Il fatto che da sempre i poeti parlino di alberi, è naturale......
La chiesa si salverà solo se ritrova le sue radici pagane
Rogazioni..
«a peste, fame et bello libera nos, Domine»
A fulgure et tempestate… Libera nos Domine!…
A flagello terraemotus… Libera nos Domine!…
A peste, fame et bello… Libera nos Domine!…
Ut fructus terrae dare et conservare digneris… Te rogamus, audi nos!
Ut pacem nobis dones… Te rogamus audi nos!…
Grande Rogazione di Asiago, che si tiene il sabato che precede l’Ascensione.
«a peste, fame et bello libera nos, Domine»
A fulgure et tempestate… Libera nos Domine!…
A flagello terraemotus… Libera nos Domine!…
A peste, fame et bello… Libera nos Domine!…
Ut fructus terrae dare et conservare digneris… Te rogamus, audi nos!
Ut pacem nobis dones… Te rogamus audi nos!…
Grande Rogazione di Asiago, che si tiene il sabato che precede l’Ascensione.
lunedì 30 marzo 2020
L'uomo è un pericolo per la natura e così anche per se
Fierissimo
europeo del XIX secolo, che corri come un folle! Il tuo sapere non
perfeziona la natura, si limita unicamente ad annientare la tua. Prova a
paragonare una volta l'altezza del tuo
sapere alla profondità delle tue capacità pratiche. È vero, ti inerpichi
sui raggi splendenti del sapere, su verso il cielo, ma anche giù,
negli abissi del caos. Il tuo modo di avanzare, cioè quest'arrampicarsi
del saccente, ti è fatale; il terreno sotto i tuoi piedi si dissolve
nell'incerto; la tua esistenza non ha più sostegni, solo fili di ragno,
che la tua conoscenza lacera ad ogni nuovo tentativo di afferrarli.
Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita.
domenica 29 marzo 2020
I riti pagani della Settimana Santa
I riti della Settimana santa vengono celebrati in tutta Italia con profonda partecipazione per la comunità dei fedeli, dalla domenica delle palme all’ultima cena, dal Venerdì di passione al giubilo della Resurrezione di Pasqua.
Accanto alla liturgia ufficiale si affiancano manifestazioni di pietà popolare veicolate da canti, poemi e raffigurazioni sceniche della Passione di Gesù, nonché comportamenti devozionali estremi come la flagellazione e la mortificazione della carne. In queste circostanze il valore simbolico della devozione a carattere popolare evidenzia una più profonda stratificazione storico-sociale.
Numerose sono le manifestazioni devozionali cui è possibile assistere in ogni borgo della nostra penisola durante la Settimana santa. In molti casi la gestione della ritualità è affidata alle Confraternite, organismi associativi di nuova fondazione e non, se non direttamente connessi con la nascita del fenomeno fin dalle sue origini, a partire cioè dal Basso Medioevo.
Una seconda ondata di diffusione del fenomeno confraternale si registra all’indomani del Concilio di Trento, quando per arginare la diffusione della dottrina protestante, quasi ogni parrocchia fonda la sua Confraternita. Fin dal loro nascere, le Confraternite si configurano come associazioni composte da laici, anche se con un forte carattere istituzionale religioso diretto soprattutto al controllo delle dottrine estranee alla Chiesa di Roma.
L’azione fu avviata grazie all’azione pastorale di Ordini Mendicanti, come i Francescani e i Domenicani, per assumere presto, sotto l’influenza di ondate di pensiero mistico-penitenziale, aspetti di drammatizzazione del dolore cristiano.
Le prime processioni penitenziali sembrano essere iniziate nel 1260 a Perugia ad opera dei Flagellanti e dei Disciplinati, di cui alcune pratiche odierne ne richiamano l’origine, basti citare i Vattienti di Nocera Terinese , i Battenti di Guardia Sanframondi o quelli di Verbicaro .
In queste cerimonie è assicurato lo “spargimento di sangue” che un devoto scelto attua per penitenza, ma anche come identificazione con la passione del Cristo, in vista della purificazione attraverso il dolore, e la rinascita ad uomo nuovo. La collettività segue il percorso penitenziale partecipando altresì all’iter di dolore/salvezza.
Nel caso del rito dei Vattienti di Nocera Terinese, per esempio, la processione del Sabato santo, che si snoda per le vie del paese, è il culmine della vita di passione dell’intera settimana: in testa procede la suggestiva statua dell’Addolorata con il Cristo morto ai suoi piedi, dietro i fedeli, gruppi di donne che accompagnano il corteo con i loro canti di dolore e i vattienti, il cui numero non è determinato poiché dipende dalla decisione del singolo, di manifestare o meno in pubblico l’adempimento del voto, anche per evitare forme di spettacolarizzazione cui le feste popolari sono andate incontro di recente.
Ogni vattiente, vestito di nero, con una corona di spine di arbusti in testa protetta da un mannile , è legato da una cordicella ad un compagno, l’acciomu , e si aggira, sostando in luoghi sacri o presso casa di amici porgendo la sua gestualità rituale, ossia battendosi cosce e polpacci con un cardo acuminato.
C’è chi, tra gli studiosi di storia delle religioni, ha avanzato origini precristiane e pagane della pratica dei vattienti, nello specifico associando questo rito alle liturgie dedicate al culto del dio Attis, importate a Roma dalla Frigia e celebrate il 24 marzo con il nome di “giorno di sangue”.
“Con discipline e pianto, penitenza fo’ “, recita un canto per sottolineare il gesto simbolico di percuotersi le spalle in ginocchio, di fronte al sepolcro, con delle lamelle di metallo, evidente ricordo della pratica di flagellazione. Da una cronaca napoletana del 1505 possiamo leggere: “il Giovedì santo si battevano con certe fruste di cordelle ov’erano certe rosette d’argento fatte a modo di speroni, co’ i quali si cavavano dagli omeri moltissimo sangue in memoria della Passione di Cristo e portavano con essi gran numero di torce accese e camminavano gran parte di quella notte visitando con grandissima devozione i Sepolcri delle chiese”.
Nel Cilento, inoltre, la devozione del Venerdì santo è particolarmente suggestiva, poiché alle prime luci del giorno, ogni comunità del luogo, posta sulle pendici del Monte Stella, e rappresentata da una propria Confraternita, esce in processione, compiendo visita ai sepolcri delle chiese vicine, in uno scambio reciproco e simultaneo di dono e devozione per tutto l’arco della giornata.
Questa peregrinatio, pressoché unica in Italia, è una sorta di circuito devozionale che segna antichi confini, e che dal territorio aperto si dirige al chiuso dei sepolcri in un pullulare di riti, canti, colori di tuniche diverse a seconda dell’appartenenza alla Confraternita.
Le visite sono organizzate secondo multipli di tre, come i giri che i confratelli percorrono in chiesa, cantando, attorno al perimetro della navata principale. Si parte dal proprio paese, e si ritorna allo stesso, dopo aver “varcate le soglie” e onorato il sepolcro, l’altarino provvisorio, in cui è deposto il Cristo sacramentato, e che ogni comunità addobba con i caratteristici “grani”, che Frazer identifica come i giardinetti di Adone.
Anche a Ceriana (IM), le storiche Confraternite della città iniziano i loro riti dalla sera del Giovedì santo. Precedentemente gli anziani hanno costruito per i più piccini dei corni di corteccia di castagno, a volte lunghi anche due metri, che vengono suonati prima delle funzioni...
giovedì 26 marzo 2020
La Grande Divinità che è sempre con noi
Madre Natura non è solo un essere vivo, ma è una DEA da venerare ed adorare!
Un luogo con la pescheria usata dai templari
Santa
Fiora esiste da sempre , o almeno questa è l’impressione che dà a chi
la vede. Con quell’atmosfera tranquilla, serena, raccolta intorno al
laghetto artificiale della Peschiera da cui partono le sorgenti del
fiume Fiora, ricostruita sempre più bella dai diversi terremoti che
hanno colpito il territorio … dà idea che qui nulla di brutto potrà mai
succedere. Luogo ideale per la vostra vacanza, perché qui monti, acqua e
storia si fondono in un unico grande monumento a cielo aperto!
Il medioevo è il principe di tutti i monumenti del paese. Si respira ovunque e vi avvolgerà completamente. Splendide le chiese, grandi e importanti oppure piccole, semplici ma non meno affascinanti, come Sant’Agostino, Madonna delle Nevi, Santa Chiara, il Suffragio o San Rocco.
I resti del convento San Michele sono anche esse un monumento da ammirare, ma lo è ancor di più l’antica Sinagoga di cui restano solo poche testimonianze nell’area detta “del Ghetto”. Per ammirare qualcosa di davvero incantevole andate in Piazza Garibaldi, sulla quale si affacciano palazzi cinquecenteschi come lo Sforza Cesarini, o il Pretorio, o la bellissima Torre dell’Orologio. Da questa piazza parte anche la via che conduceva un tempo al castello, di cui restano oggi rimanenze delle mura difensive.
Il medioevo è il principe di tutti i monumenti del paese. Si respira ovunque e vi avvolgerà completamente. Splendide le chiese, grandi e importanti oppure piccole, semplici ma non meno affascinanti, come Sant’Agostino, Madonna delle Nevi, Santa Chiara, il Suffragio o San Rocco.
I resti del convento San Michele sono anche esse un monumento da ammirare, ma lo è ancor di più l’antica Sinagoga di cui restano solo poche testimonianze nell’area detta “del Ghetto”. Per ammirare qualcosa di davvero incantevole andate in Piazza Garibaldi, sulla quale si affacciano palazzi cinquecenteschi come lo Sforza Cesarini, o il Pretorio, o la bellissima Torre dell’Orologio. Da questa piazza parte anche la via che conduceva un tempo al castello, di cui restano oggi rimanenze delle mura difensive.
Orti monastici rinati sull'Appia Antica
In questi luoghi fiorisce ancora l'Agnocasto, il 'pepe dei monaci' per non tradire il voto di castità
La quiete, in alcune ore della giornata, è quasi la stessa. Il paesaggio, no, dopo secoli è inevitabilmente mutato e nell'aria non risuonano più le litanie dei monaci in preghiera. Ma a cercar bene, tra le aiuole, lui si può trovare ancora: il Vitex angus-castus, banalmente detto Agnocasto, sempre in grado con i suoi petali bianchi o blu-violetto, di calmare ogni indesiderato bollente spirito.
Quinto miglio dell'Appia antica, proprio accanto alla Villa dei Quintili, nel pieno della campagna romana: qui ha riaperto i cancelli e giardino Santa Maria Nova, antico casale costruito su un Castellum Acquae dei tempi di Adriano, per anni ricovero delle guarnigioni d'onore di Commodo ma a partire dal XIV secolo dimora dell'ordine monastico dei Benedettini Olivetani.
E proprio a loro è dedicato il recupero botanico con cui la Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma ha riportato qui colori e profumi del Medioevo.
''Non c'è una bibliografia specifica su Santa Maria Nova'', racconta all'ANSA l'agronomo Francesco Bardesino che con Francesco Rinaldo e la loro Horti di Veio ha curato il riallestimento del giardino. ''Abbiamo seguito le caratteristiche comuni dell'Hortus Conclusus (dal latino, orto recintato)'', il tipico giardino medievale di monasteri e conventi. Che non era considerato solo luogo di riposo e preghiera, ma, racconta ancora Bardesino, ''doveva anche aiutare nella sussistenza dei monaci''. Oggi come allora, dunque, nelle aiuole di Santa Maria Nova sono tornate a crecere più di 200 piante, tra erbe aromatiche, alberi da frutta e fiori ornamentali, involontari narratori di storie e tradizioni.
Come la mela cotogna, che era alla base dell'alimentazione del tempo, o il Melograno, nel Medioevo simbolo della Resurrezione di Gesù. E poi il fiore del Lilium Candidum, che Augusto impose di coltivare limitare le importazioni e nei secoli divenuto simbolo di purezza e castità associato alla Madonna. O ancora la Rosa Bracteata, importata dalla Cina nel 1793, che Carlo Magno indicò come secondo fiore da coltivare dopo i gigli.
Tra le piante d'alto fusto, è tornato il Sorbo, sin dai tempi dei Romani utilizzato sia per farne una bevanda, la cerevisia, che per conciare le pelli con gli estratti delle sue foglie.
Soprattutto, prosegue Bardesino, ''i monaci facevano largo uso di piante officinali''. Ecco allora che tra un raro Tasso femmina (riconoscibile per le sue bacche rosse) e il Gelso che un fulmine ha trasformato in una freschissima seduta incoronata dalle foglie, cresce l'Issopo, ottimo rimedio contro la tosse. Poco più in là, la Ruta, i cui fiori gialli erano alla base di ritrovati medici e liquori. E soprattutto il Vitex angus-castus, l'Agnocasto, noto anche come il ''pepe dei monaci'', per quel sapore piccante dei frutti, a dispetto invece dell'effetto procurato.
Gli Olivetani, infatti, lo utilizzavano come anafrodisiaco, per spegnere cioè quei bollenti spiriti che potevano indurre in tentazione e non tradire così il voto di castità. Un uso, in verità, suggerito sin dall'antichità. Già il medico greco Dioscoride lo consigliava per diminuire la libido. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che veniva sparso sui letti delle donne ateniesi per garantirne la fedeltà quando i mariti erano in guerra. E anche Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico senese del '500, ne lodava le funzioni: ''costringe gli impeti di Venere, tanto mangiato fritto quanto crudo. Si crede che non solamente mangiandosene o bevendosene faccia gli uomini casti ma ancor giacendovisi''. E non si sbagliavano, perchè la chimica moderna conferma: tra i suoi costituenti si trova la vitexina, flavonoide dalla proprietà rilassanti.
''Abbiamo costruito un giardino il più possibile autosufficiente - conclude Bardesino - L'idea è di proseguire per tappe, fino a riempire tutte le zone dei claustra, come immaginiamo potevano essere al tempo dei monaci''.
(Ansa)
La quiete, in alcune ore della giornata, è quasi la stessa. Il paesaggio, no, dopo secoli è inevitabilmente mutato e nell'aria non risuonano più le litanie dei monaci in preghiera. Ma a cercar bene, tra le aiuole, lui si può trovare ancora: il Vitex angus-castus, banalmente detto Agnocasto, sempre in grado con i suoi petali bianchi o blu-violetto, di calmare ogni indesiderato bollente spirito.
Quinto miglio dell'Appia antica, proprio accanto alla Villa dei Quintili, nel pieno della campagna romana: qui ha riaperto i cancelli e giardino Santa Maria Nova, antico casale costruito su un Castellum Acquae dei tempi di Adriano, per anni ricovero delle guarnigioni d'onore di Commodo ma a partire dal XIV secolo dimora dell'ordine monastico dei Benedettini Olivetani.
E proprio a loro è dedicato il recupero botanico con cui la Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma ha riportato qui colori e profumi del Medioevo.
''Non c'è una bibliografia specifica su Santa Maria Nova'', racconta all'ANSA l'agronomo Francesco Bardesino che con Francesco Rinaldo e la loro Horti di Veio ha curato il riallestimento del giardino. ''Abbiamo seguito le caratteristiche comuni dell'Hortus Conclusus (dal latino, orto recintato)'', il tipico giardino medievale di monasteri e conventi. Che non era considerato solo luogo di riposo e preghiera, ma, racconta ancora Bardesino, ''doveva anche aiutare nella sussistenza dei monaci''. Oggi come allora, dunque, nelle aiuole di Santa Maria Nova sono tornate a crecere più di 200 piante, tra erbe aromatiche, alberi da frutta e fiori ornamentali, involontari narratori di storie e tradizioni.
Come la mela cotogna, che era alla base dell'alimentazione del tempo, o il Melograno, nel Medioevo simbolo della Resurrezione di Gesù. E poi il fiore del Lilium Candidum, che Augusto impose di coltivare limitare le importazioni e nei secoli divenuto simbolo di purezza e castità associato alla Madonna. O ancora la Rosa Bracteata, importata dalla Cina nel 1793, che Carlo Magno indicò come secondo fiore da coltivare dopo i gigli.
Tra le piante d'alto fusto, è tornato il Sorbo, sin dai tempi dei Romani utilizzato sia per farne una bevanda, la cerevisia, che per conciare le pelli con gli estratti delle sue foglie.
Soprattutto, prosegue Bardesino, ''i monaci facevano largo uso di piante officinali''. Ecco allora che tra un raro Tasso femmina (riconoscibile per le sue bacche rosse) e il Gelso che un fulmine ha trasformato in una freschissima seduta incoronata dalle foglie, cresce l'Issopo, ottimo rimedio contro la tosse. Poco più in là, la Ruta, i cui fiori gialli erano alla base di ritrovati medici e liquori. E soprattutto il Vitex angus-castus, l'Agnocasto, noto anche come il ''pepe dei monaci'', per quel sapore piccante dei frutti, a dispetto invece dell'effetto procurato.
Gli Olivetani, infatti, lo utilizzavano come anafrodisiaco, per spegnere cioè quei bollenti spiriti che potevano indurre in tentazione e non tradire così il voto di castità. Un uso, in verità, suggerito sin dall'antichità. Già il medico greco Dioscoride lo consigliava per diminuire la libido. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che veniva sparso sui letti delle donne ateniesi per garantirne la fedeltà quando i mariti erano in guerra. E anche Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico senese del '500, ne lodava le funzioni: ''costringe gli impeti di Venere, tanto mangiato fritto quanto crudo. Si crede che non solamente mangiandosene o bevendosene faccia gli uomini casti ma ancor giacendovisi''. E non si sbagliavano, perchè la chimica moderna conferma: tra i suoi costituenti si trova la vitexina, flavonoide dalla proprietà rilassanti.
''Abbiamo costruito un giardino il più possibile autosufficiente - conclude Bardesino - L'idea è di proseguire per tappe, fino a riempire tutte le zone dei claustra, come immaginiamo potevano essere al tempo dei monaci''.
(Ansa)
mercoledì 25 marzo 2020
Alchimia a Palazzo Vecchio
A
Firenze all’interno di Palazzo Vecchio, si trova un vero e proprio
gabinetto alchemico, ricco di informazioni esoteriche, celate da una
simbologia analogica.
E’ lo studiolo di Francesco 1°dei Medici, figlio di Cosimo ed Eleonora di Toledo.
Nel piano inferiore alcune tele del Vasari, Bronzino, Marchetti, sono raccolte come teche o “file” di un prezioso schedario.
Le stesse sono porte di uno scaffale, icone, al di là delle quali sono raccolte sostanze allusive al dipinto, che esistono in natura, ma sono trasformate con l’arte spagirica.
Il primo raffigura una maga nuda che con l'’aiuto del fuoco e di un filtro ringiovanisce Esone.
Segue il giardino delle Esperidi che esprime la connessione del mondo vegetale con le sostanze alchemiche.
Nel terzo il centauro Chirone, grande sapiente, inizia Achille, che tramite l’athanor apprende l’arte. Chirone era metà uomo e metà cavallo.
La parola kaivalia è stata trasformata in cavallo. Chirone o Kiron in greco, equivale a Guro. Quindi Chirone era un Maestro allo stadio del kaivalin (solitudine) che è uno dei cinque gradi del Sattva: Yoga, Sidda, Kaivalin, Moksa, Chakravartin. Il mito è quindi una verità coperta da veli.
La volta è la parte nobile. Sono raffigurati i simboli dello zodiaco, chiave della trasmutazione degli elementi.
Al centro Prometeo che ha rubato il segreto del fuoco e attorno a lui le allegorie della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco. Elementi freddi e secchi, caldi e umidi che consentono di passare da uno stadio all’altro dell’essere, attraverso una alchemica trasformazione.
Da una porta pannello si accede alla camera cubica, dove sono deposte le gemme più preziose. Nella cupola sono rappresentate la Matematica, la Musica e la Mistica.
Questo è il luogo della Meditazione, dove la Mente è spinta ad oltrepassare la soglia dell’umano e si accinge ad accostarsi al Divino.Una emblematica raffigurazione della teoria delle tre “M” : Matematica, Musica, Meditazione.
Francesco era in costante comunicazione con un altro emblematico e misterioso personaggio, Rodolfo II d’Asburgo, che a Praga coltivava come lui, la passione per l’esoterismo. Rodolfo avrebbe compiuto “la Grande Opera”.
Alla sua morte furono trovati nel suo laboratorio 84 quintali di oro e 60 d’argento in lingotti a forma di piccoli mattoni, nonché una quantità di polvere grigia, ritenuta la “pietra filosofale” o “polvere di proiezione”.
Per questo si sarebbe circondato di ermetisti come Faust, Agrippa, Paracelso, Kelley, Sendivogius, Giordano Bruno, Arcimboldo, Tycho Brahe, che sistemò nella “viuzza d’oro”, una stradina lillipuziana e onirica alla periferia del sontuoso castello di Praga.
Una lapide, nell’ala vecchia del castello, attesta ancor oggi l’avvenuta trasmutazione alchemica.
Entrambi appartenevano all’Ordine segreto della Rosa + Croce, una società iniziatica e misterica, che aveva in quell’epoca un riferimento in Federico del Palatinato che ad Hidelbergh fondò una università che studiava l’ ermetismo e l’ occultismo
E’ lo studiolo di Francesco 1°dei Medici, figlio di Cosimo ed Eleonora di Toledo.
Nel piano inferiore alcune tele del Vasari, Bronzino, Marchetti, sono raccolte come teche o “file” di un prezioso schedario.
Le stesse sono porte di uno scaffale, icone, al di là delle quali sono raccolte sostanze allusive al dipinto, che esistono in natura, ma sono trasformate con l’arte spagirica.
Il primo raffigura una maga nuda che con l'’aiuto del fuoco e di un filtro ringiovanisce Esone.
Segue il giardino delle Esperidi che esprime la connessione del mondo vegetale con le sostanze alchemiche.
Nel terzo il centauro Chirone, grande sapiente, inizia Achille, che tramite l’athanor apprende l’arte. Chirone era metà uomo e metà cavallo.
La parola kaivalia è stata trasformata in cavallo. Chirone o Kiron in greco, equivale a Guro. Quindi Chirone era un Maestro allo stadio del kaivalin (solitudine) che è uno dei cinque gradi del Sattva: Yoga, Sidda, Kaivalin, Moksa, Chakravartin. Il mito è quindi una verità coperta da veli.
La volta è la parte nobile. Sono raffigurati i simboli dello zodiaco, chiave della trasmutazione degli elementi.
Al centro Prometeo che ha rubato il segreto del fuoco e attorno a lui le allegorie della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco. Elementi freddi e secchi, caldi e umidi che consentono di passare da uno stadio all’altro dell’essere, attraverso una alchemica trasformazione.
Da una porta pannello si accede alla camera cubica, dove sono deposte le gemme più preziose. Nella cupola sono rappresentate la Matematica, la Musica e la Mistica.
Questo è il luogo della Meditazione, dove la Mente è spinta ad oltrepassare la soglia dell’umano e si accinge ad accostarsi al Divino.Una emblematica raffigurazione della teoria delle tre “M” : Matematica, Musica, Meditazione.
Francesco era in costante comunicazione con un altro emblematico e misterioso personaggio, Rodolfo II d’Asburgo, che a Praga coltivava come lui, la passione per l’esoterismo. Rodolfo avrebbe compiuto “la Grande Opera”.
Alla sua morte furono trovati nel suo laboratorio 84 quintali di oro e 60 d’argento in lingotti a forma di piccoli mattoni, nonché una quantità di polvere grigia, ritenuta la “pietra filosofale” o “polvere di proiezione”.
Per questo si sarebbe circondato di ermetisti come Faust, Agrippa, Paracelso, Kelley, Sendivogius, Giordano Bruno, Arcimboldo, Tycho Brahe, che sistemò nella “viuzza d’oro”, una stradina lillipuziana e onirica alla periferia del sontuoso castello di Praga.
Una lapide, nell’ala vecchia del castello, attesta ancor oggi l’avvenuta trasmutazione alchemica.
Entrambi appartenevano all’Ordine segreto della Rosa + Croce, una società iniziatica e misterica, che aveva in quell’epoca un riferimento in Federico del Palatinato che ad Hidelbergh fondò una università che studiava l’ ermetismo e l’ occultismo
martedì 24 marzo 2020
La Danza della gioia...
Il 15 novembre 1833, a Ruvo di Puglia, venne rinvenuta una tomba
dell’Età Minoica con un affresco illustrante il mito di Teseo, legato
cioè al mistero della morte e della rinascita. L’affresco venne
ritagliato dalla parete della tomba e inviato in dono al re di Napoli.
La raffinata pittura mostra una trenodía di fanciulle che eseguono una
danza corale, formando una catena, le braccia incrociate, porgendo la
destra alla compagna che sta dietro e la sinistra a quella posta davanti, animando una coreografia circolare evocante il mito orfico delle continue rinascite
Plutarco scrive del mito di Teseo e fa riferimento proprio al significato della performance coreutica delle fanciulle: «Nel viaggio di ritorno da Creta, Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l’immagine di Afrodite che aveva ricevuto da Arianna, eseguì, insieme a delle ragazze , una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Gli antichi la chiamarono “danza della gru”, giustificando spesso la denominazione con la disposizione dei ballerini in fila lineare, come fanno gli uccelli migratori».
È, secondo gli studiosi, in allegoria pittorica, la “danza di gioia”, della liberazione delle anime dalla prigione della materia caduca, in volo verso l’Elisio dell’eternità senza dolore né morte. I festoni di melagrane, il panneggio ondulante delle vesti delle danzatrici, riportano la vittoria sull’oltretomba del fluire inarrestabile della vita, esplodente in colori e ritmo irrefrenabile.
L’affresco è attualmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli...
Plutarco scrive del mito di Teseo e fa riferimento proprio al significato della performance coreutica delle fanciulle: «Nel viaggio di ritorno da Creta, Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l’immagine di Afrodite che aveva ricevuto da Arianna, eseguì, insieme a delle ragazze , una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Gli antichi la chiamarono “danza della gru”, giustificando spesso la denominazione con la disposizione dei ballerini in fila lineare, come fanno gli uccelli migratori».
È, secondo gli studiosi, in allegoria pittorica, la “danza di gioia”, della liberazione delle anime dalla prigione della materia caduca, in volo verso l’Elisio dell’eternità senza dolore né morte. I festoni di melagrane, il panneggio ondulante delle vesti delle danzatrici, riportano la vittoria sull’oltretomba del fluire inarrestabile della vita, esplodente in colori e ritmo irrefrenabile.
L’affresco è attualmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli...
La vecchia Bacucco
Arsita si erge su una collina a 470 m s.l.m. nell’alta Valle del Fino, alle propaggini del Massiccio del Gran Sasso.
Fino al XIX secolo, il nome del paese era Bacucco, che secondo alcuni studiosi deriverebbe da Bacuccum, cioè dal Dio Bacco, mentre secondo altri deriverebbe dalla parola abruzzese bacùcche, che significa capanna di paglia e argilla oppure riparo di frasche ..Il nome di Bacucco fu cambiato in Arsita con il Regio Decreto del Re Vittorio Emanuele III del 21.12.1905, in seguito alla Relazione del 3.9.1905 del Consiglio Provinciale di Teramo, su richiesta degli abitanti che erano dileggiati da quelli degli altri paesi in quanto la parola “bacucco” nell’accezione comune abruzzese significa “vecchio imbecille”.
Il nome Arsita, che deriva da arsus-arsetum (luogo arso o bruciato, probabilmente perchè carente di acqua) compare in alcuni antichi documenti, a partire XI secolo, relativo ad un Castello ubicato in una località vicina a Bacucco. Infatti, mentre il Castello di Bacucco era ubicato nella parte più alta della collinetta, dove sorge il paese, il Castello di Arsita si trovava in località Cima della Rocca (923 metri s.l.m.), sotto la quale si trovava la Chiesa di S. Giovanni, sull’omonimo Colle di S. Giovanni (729 metri s.l.m.), dove vi era un tempio italico dei Vestini.
Successivamente, il Castello di Arsita è scomparso, ma il nome è rimasto al toponimo.
Infatti, nella descrizione della zona fatta nel 1787 per ordine del Re di Napoli e nel Necrologio Atriano, redatto da Vincenzo Bindi e pubblicato su Monumenti Archeologici, si parla di Berardus Raineij Arsete e di Reynerij Arsete.
La zona è abitata sicuramente dal I° Millennio a. C.: NEl periodo italico, Bacucco fa parte della Vestinia , separata dal fiume Fino dal territorio dei Sabini Adriatici (l'Ager Hadrianus). Al tempo dei Romani il Fino segna il confine tra la Regione (Regio) IV Sabina et Samnium e la Regione V Picenum. Successivamente, nel periodo longobardo, il fiume Fino segna il confine tra il Ducato di Spoleto ed il Ducato di Benevento .
Alla fine dell’Ottocento, sono state rinvenute delle tombe in cui c’erano fibule di bronzo, risalenti all’VIII sec. a.C. , ed ornamenti personali risalenti al VI sec. a.C.. Inoltre, è stata rinvenuta un’arula in terracotta, del II sec. a.C., che raffigura un combattimento tra un greco ed una amazzone. Infine, è stata scoperta una necropoli del periodo romano- augusteo, con tombe alla cappuccina, contenenti urne cinerarie del periodo romano e corredi composti da lucerne, unguentari a forma di bottiglietta in ceramica ed in vetro. Sono stati anche trovati resti di edifici di vario tipo, con pavimentazioni, condotte idrauliche di piombo, statuine votive di bronzo e monete romane...Da visitare
Chiesa di S. Maria di Aragona, ad un paio di KM dall’abitato, sulla strada che porta a Farindola ed a Penne, da cui si gode un bellissimo panorama su Arsita. E’ stata costruita nel XV secolo, con mura in pietre e laterizi legati con poca malta. Sulla facciata, preceduta da un portico del XVII secolo, si aprono due piccole finestre, ai lati dell’ingresso. L’interno, a navata unica, ha la copertura a capriate, con mattoni decorati con un rombo rosso. L’arco Trionfale è gotico. Sul pavimento, una lastra di pietra con una croce, indica l’antico cimitero con l’ossario. Sulla parete di destra, ci sono tracce di un affresco, probabilmente del XV secolo, che raffigura una figura femminile velata , leggermente china, che ha una mano sul ventre e l’altra sul seno...
1Fino al XIX secolo, il nome del paese era Bacucco, che secondo alcuni studiosi deriverebbe da Bacuccum, cioè dal Dio Bacco, mentre secondo altri deriverebbe dalla parola abruzzese bacùcche, che significa capanna di paglia e argilla oppure riparo di frasche ..Il nome di Bacucco fu cambiato in Arsita con il Regio Decreto del Re Vittorio Emanuele III del 21.12.1905, in seguito alla Relazione del 3.9.1905 del Consiglio Provinciale di Teramo, su richiesta degli abitanti che erano dileggiati da quelli degli altri paesi in quanto la parola “bacucco” nell’accezione comune abruzzese significa “vecchio imbecille”.
Il nome Arsita, che deriva da arsus-arsetum (luogo arso o bruciato, probabilmente perchè carente di acqua) compare in alcuni antichi documenti, a partire XI secolo, relativo ad un Castello ubicato in una località vicina a Bacucco. Infatti, mentre il Castello di Bacucco era ubicato nella parte più alta della collinetta, dove sorge il paese, il Castello di Arsita si trovava in località Cima della Rocca (923 metri s.l.m.), sotto la quale si trovava la Chiesa di S. Giovanni, sull’omonimo Colle di S. Giovanni (729 metri s.l.m.), dove vi era un tempio italico dei Vestini.
Successivamente, il Castello di Arsita è scomparso, ma il nome è rimasto al toponimo.
Infatti, nella descrizione della zona fatta nel 1787 per ordine del Re di Napoli e nel Necrologio Atriano, redatto da Vincenzo Bindi e pubblicato su Monumenti Archeologici, si parla di Berardus Raineij Arsete e di Reynerij Arsete.
La zona è abitata sicuramente dal I° Millennio a. C.: NEl periodo italico, Bacucco fa parte della Vestinia , separata dal fiume Fino dal territorio dei Sabini Adriatici (l'Ager Hadrianus). Al tempo dei Romani il Fino segna il confine tra la Regione (Regio) IV Sabina et Samnium e la Regione V Picenum. Successivamente, nel periodo longobardo, il fiume Fino segna il confine tra il Ducato di Spoleto ed il Ducato di Benevento .
Alla fine dell’Ottocento, sono state rinvenute delle tombe in cui c’erano fibule di bronzo, risalenti all’VIII sec. a.C. , ed ornamenti personali risalenti al VI sec. a.C.. Inoltre, è stata rinvenuta un’arula in terracotta, del II sec. a.C., che raffigura un combattimento tra un greco ed una amazzone. Infine, è stata scoperta una necropoli del periodo romano- augusteo, con tombe alla cappuccina, contenenti urne cinerarie del periodo romano e corredi composti da lucerne, unguentari a forma di bottiglietta in ceramica ed in vetro. Sono stati anche trovati resti di edifici di vario tipo, con pavimentazioni, condotte idrauliche di piombo, statuine votive di bronzo e monete romane...Da visitare
Chiesa di S. Maria di Aragona, ad un paio di KM dall’abitato, sulla strada che porta a Farindola ed a Penne, da cui si gode un bellissimo panorama su Arsita. E’ stata costruita nel XV secolo, con mura in pietre e laterizi legati con poca malta. Sulla facciata, preceduta da un portico del XVII secolo, si aprono due piccole finestre, ai lati dell’ingresso. L’interno, a navata unica, ha la copertura a capriate, con mattoni decorati con un rombo rosso. L’arco Trionfale è gotico. Sul pavimento, una lastra di pietra con una croce, indica l’antico cimitero con l’ossario. Sulla parete di destra, ci sono tracce di un affresco, probabilmente del XV secolo, che raffigura una figura femminile velata , leggermente china, che ha una mano sul ventre e l’altra sul seno...
domenica 22 marzo 2020
Quando Camilla Cederna scrisse --Casa Nostra--, un capitolo descriveva l'attività del mobile d'are nella Bassa Veronese l
Prendo a prestito, come introduzione, le parlore di Ulisse Scavazzini, e su queste cerco di ragionarci.
Il titolo lo potremo fissare anche: quando a Bovolone e Cerea era diffusa la ricchezza attraverso il mobile d'arte.
Cosi inizia l'articolo di Ulisse Scavazzini edito nel 2015 https://centrostudiricerche.wordpress.com/2015/07/11/ce-ancora-uno-spazio-per-il-mobile-della-bassa/
--Vi ricordate quando
nel 1983 è uscito il libro “Casa Nostra” di Camilla Cederna? Bovolone e
paesi limitrofi ebbero un vero e proprio scossone, tutti eravamo
indignati per come l’autorevole scrittrice in una decina di pagine aveva
dipinto i nostri costruttori di mobili “moderni ma antichi”, per usare
l’antitesi con la quale l’autrice aveva titolato il paragrafo che ci
riguarda..........-- L'articolo continua e chi lo vuole legger integralmente sopra ho riportato il link.
Scavazzini si dimentica di come ne uscì il sindaco di Bovolone sopratutto la figuraccia , ci fu anche uno strascico giudiziario che finì per dar ragione alla scrittrice. Certo la Cederna viveva raccontando le contraddizioni palesi, ma anche la ricchezza di queste "zone" democristiane sembrava le desse fastidio, raccontava delle sue banche piene di depositi di un certo peso, dell'intrallazzo, mossa anche dall'accredini riuscì pero a raccontarci quello che noi che abitavamo in questi posti non riuscivamo a vedere o meglio ci faceva comodo non vedere. Ai mercatini delle pulci ne acquistai 4 copie, e quando mi capitava una persona dei dintorni leggevo la parte più fastidiosa: quelle poche righe dove l'autrice ci raccontava che i tarli nelle assi venivano fatti con i pallini del fucile da caccia, questo per anticare il materiale e dare al consumatore un mobile vicino all'antiquariato. Questa era una balla, una sciocchezza, ma però tutti, anche fuori di Verona, di quel capitolo ricordano solo questo passo.
Concludendo mi sembra che anche Scavazzini non abbia assolutamente colto il problema nella conclusione del suo articolo. Possiamo dire in tutta serenità, è finito un ciclo, ormai è arrivato il tempo delle vacche magre,.......
Lo sciamano di Assisi
Francesco, lo stregone che piantava gli alberi
Arbores demonibus consacratae, gli alberi consacrati agli spiriti del male; sono loro i rivali più temibili con cui tutti i campioni delle agiografie medievali si devono misurare nelle campagne. E tra questi agguerriti predicatori, c’è anche chi ci lascia le penne. Come Adalberto, vescovo di Praga, fatto oggetto nel 997 d.C. di un fittissimo lancio di giavellotti durante una messa celebrata sull’altare che lui stesso aveva fatto erigere incautamente poco prima, al posto di un profana arbor.
È il caso del famoso noce di Benevento, abbattuto nel 663 d.C. da San Barbato e miracolosamente ricresciuto qualche miglio più avanti secondo la leggenda tramandata nel trattato De nuce maga beneventana del medico Pietro Piperno. E che dire, invece, del pino abbattuto «con eroica fede nel Signore» da San Martino vescovo della città di Tours...
Ma se questa carrellata di aneddoti non vi basta e desiderate qualche nome più illustre pensate allora al caso emblematico di Benedetto da Norcia, attualmente il santo prediletto dalla Sede Apostolica; mosso da forti intenti evangelizzatori, arrivato in quel di Monte Cassino, la prima cosa che si premurò di fare Benedetto fu distruggere un boschetto sacro ad Apollo che sorgeva sulla sommità del monte. Ma se santi e predicatori impugnavano sovente le asce davanti a faggi e querceti, i cosiddetti ‘laici’ non erano certo da meno. Basti pensare al paladino del Sacro Romano Impero Carlo Magno, che nel 772 d.C., giunto a Geismar, abbatté Irminsul, la quercia sacra ai Sassoni perché ritenuta l’asse del mondo.
Eppure il cristianesimo medievale non ha gioco contro queste credenze, talmente radicate nel mondo contadino da mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte abbazie nel contado all’alba del tredicesimo secolo. Rintanata nei palazzi vescovili tra Perugia, Viterbo e Roma, costretta a fare la spola per schivare la tempesta ereticale pauperista che imperversa nelle città, la corte papale sta perdendo progressivamente il controllo delle campagne, dove i focolari pagani non si sono mai spenti del tutto. Urge un esponente del mondo cristiano che riavvicini la Chiesa al suo popolo, specie dopo la svolta teocratica imposta da Innocenzo III nel 1215 e continuata dal suo successore Onorio.
Dai corridoi del Laterano fino alle più minute casupole del contado, si comincia a vociferare di un uomo dotato di profondo carisma, che fa sfoggio di poteri sovrannaturali e riscuote un larghissimo consenso malgrado non sia un chierico, e tanto meno un prelato, ma un laico figlio di mercanti; forse è proprio questo dettaglio a renderlo gradito agli uomini e alle donne cui predica.
Si chiama Francesco, si è recato già più di una volta in udienza dal papa per chiedere che la sua fraternitas venga riconosciuta dalle gerarchie. E malgrado il rifiuto di papa Innocenzo, non si è rassegnato, costruendo col tempo una comunità di seguaci che, specie nelle campagne, tra i vecchi pagani, ha il suo punto di forza. ogni eremo francescano ha il suo albero sacro e una leggenda fotocopia delle altre che ne tramanda la storia: fu lo stesso Francesco a piantare quell’albero durante il suo soggiorno in una caverna posta a pochi passi di distanza. Non solo; questi alberi ancora oggi rappresentano il vero oggetto di devozione per i francescani negli eremi, malgrado le fonti ufficiali approvate dall’Ordine non ne facciano mai menzione. Prendiamo il caso di un eremo molto familiare ai devoti, se non altro perché è posto nelle immediate adiacenze di Assisi. È l’Eremo delle Carceri del monte Subasio, dove i documenti ci narrano che Francesco amava soggiornare durante la sua conversione. Raggiunto il convento, che ha inglobato il primo rifugio del santo, dal crinale del monte spunta un arbusto malconcio, a cui è stata applicata una gabbia metallica per evitare che esso si spezzasse col tempo a causa delle intemperie. Lo chiamano il Leccio sacro, e la devozione legata a quest’albero si deve al fatto che degli uccelli in volo si sarebbero posati sui suoi rami per ascoltare la predica tenuta dal Santo..
Ma ci sono anche degli alberi che non sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo; è il caso, ad esempio, della Quercia della Verna, abbattuta nel 1602 dai frati e sulle cui radici fu eretto non il solito altare per dire messa, ma una cappella alla memoria con un nome che è tutto un programma, un nome che più pagano non si potrebbe: la Cappella degli Uccelli. Sulle sue radici, infatti, si sarebbe adagiato per l’ennesima volta uno stormo di uccelli in volo durante la prima visita del santo al monte, avvenuta nel 1214 ..Certo, i fedeli cristiani che oggi pregano e fanno penitenza sotto quegli alberi non immaginerebbero mai di stare contemplando degli idoli pagani, ma guai a stupirsi di questa apparente stranezza.
Per riscuotere successo nelle campagne e predicare a quei contadini che la Chiesa aveva da secoli bistrattato distruggendone gli idoli, infatti, Francesco capì che per lui gli alberi e il loro culto potevano trasformarsi in un prezioso alleato. Se nelle città riscuoteva il plauso del popolo, esaltando i valori di austerità e pauperismo evangelici, quei valori tanto vituperati dal Clero degli ierocrati cresciuto nello sfarzo e nella simonia, nelle campagne la ricetta del consenso era un’altra e passava attraverso il ventaglio di usanze contadine di matrice non solo celtica, ma comuni a tutto il mondo contadino e tribale.
Si trattava di ridare voce al popolo dei pagi, rievocando usanze tanto ancestrali quanto demonizzate dalla Chiesa come appunto il culto degli alberi e delle sorgenti, anche a costo di rovesciare la parola del papa e calarsi nei panni di un vero e proprio stregone naturale. Uno stregone capace di piantare alberi in ogni dove, parlare agli uccelli e far zampillare l’acqua dalle rocce. E guarda caso, proprio il parlare agli uccelli era una pratica divinatoria condannata aspramente dai teologi e dagli inquisitori del Medioevo come grave reato di stregoneria; i manoscritti giudiziari del Duecento pullulano di miniature con aspiranti maghi e indovini intenti a conversare con uccelli appollaiati sui rami degli alberi.
Arbores demonibus consacratae, gli alberi consacrati agli spiriti del male; sono loro i rivali più temibili con cui tutti i campioni delle agiografie medievali si devono misurare nelle campagne. E tra questi agguerriti predicatori, c’è anche chi ci lascia le penne. Come Adalberto, vescovo di Praga, fatto oggetto nel 997 d.C. di un fittissimo lancio di giavellotti durante una messa celebrata sull’altare che lui stesso aveva fatto erigere incautamente poco prima, al posto di un profana arbor.
È il caso del famoso noce di Benevento, abbattuto nel 663 d.C. da San Barbato e miracolosamente ricresciuto qualche miglio più avanti secondo la leggenda tramandata nel trattato De nuce maga beneventana del medico Pietro Piperno. E che dire, invece, del pino abbattuto «con eroica fede nel Signore» da San Martino vescovo della città di Tours...
Ma se questa carrellata di aneddoti non vi basta e desiderate qualche nome più illustre pensate allora al caso emblematico di Benedetto da Norcia, attualmente il santo prediletto dalla Sede Apostolica; mosso da forti intenti evangelizzatori, arrivato in quel di Monte Cassino, la prima cosa che si premurò di fare Benedetto fu distruggere un boschetto sacro ad Apollo che sorgeva sulla sommità del monte. Ma se santi e predicatori impugnavano sovente le asce davanti a faggi e querceti, i cosiddetti ‘laici’ non erano certo da meno. Basti pensare al paladino del Sacro Romano Impero Carlo Magno, che nel 772 d.C., giunto a Geismar, abbatté Irminsul, la quercia sacra ai Sassoni perché ritenuta l’asse del mondo.
Eppure il cristianesimo medievale non ha gioco contro queste credenze, talmente radicate nel mondo contadino da mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte abbazie nel contado all’alba del tredicesimo secolo. Rintanata nei palazzi vescovili tra Perugia, Viterbo e Roma, costretta a fare la spola per schivare la tempesta ereticale pauperista che imperversa nelle città, la corte papale sta perdendo progressivamente il controllo delle campagne, dove i focolari pagani non si sono mai spenti del tutto. Urge un esponente del mondo cristiano che riavvicini la Chiesa al suo popolo, specie dopo la svolta teocratica imposta da Innocenzo III nel 1215 e continuata dal suo successore Onorio.
Dai corridoi del Laterano fino alle più minute casupole del contado, si comincia a vociferare di un uomo dotato di profondo carisma, che fa sfoggio di poteri sovrannaturali e riscuote un larghissimo consenso malgrado non sia un chierico, e tanto meno un prelato, ma un laico figlio di mercanti; forse è proprio questo dettaglio a renderlo gradito agli uomini e alle donne cui predica.
Si chiama Francesco, si è recato già più di una volta in udienza dal papa per chiedere che la sua fraternitas venga riconosciuta dalle gerarchie. E malgrado il rifiuto di papa Innocenzo, non si è rassegnato, costruendo col tempo una comunità di seguaci che, specie nelle campagne, tra i vecchi pagani, ha il suo punto di forza. ogni eremo francescano ha il suo albero sacro e una leggenda fotocopia delle altre che ne tramanda la storia: fu lo stesso Francesco a piantare quell’albero durante il suo soggiorno in una caverna posta a pochi passi di distanza. Non solo; questi alberi ancora oggi rappresentano il vero oggetto di devozione per i francescani negli eremi, malgrado le fonti ufficiali approvate dall’Ordine non ne facciano mai menzione. Prendiamo il caso di un eremo molto familiare ai devoti, se non altro perché è posto nelle immediate adiacenze di Assisi. È l’Eremo delle Carceri del monte Subasio, dove i documenti ci narrano che Francesco amava soggiornare durante la sua conversione. Raggiunto il convento, che ha inglobato il primo rifugio del santo, dal crinale del monte spunta un arbusto malconcio, a cui è stata applicata una gabbia metallica per evitare che esso si spezzasse col tempo a causa delle intemperie. Lo chiamano il Leccio sacro, e la devozione legata a quest’albero si deve al fatto che degli uccelli in volo si sarebbero posati sui suoi rami per ascoltare la predica tenuta dal Santo..
Ma ci sono anche degli alberi che non sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo; è il caso, ad esempio, della Quercia della Verna, abbattuta nel 1602 dai frati e sulle cui radici fu eretto non il solito altare per dire messa, ma una cappella alla memoria con un nome che è tutto un programma, un nome che più pagano non si potrebbe: la Cappella degli Uccelli. Sulle sue radici, infatti, si sarebbe adagiato per l’ennesima volta uno stormo di uccelli in volo durante la prima visita del santo al monte, avvenuta nel 1214 ..Certo, i fedeli cristiani che oggi pregano e fanno penitenza sotto quegli alberi non immaginerebbero mai di stare contemplando degli idoli pagani, ma guai a stupirsi di questa apparente stranezza.
Per riscuotere successo nelle campagne e predicare a quei contadini che la Chiesa aveva da secoli bistrattato distruggendone gli idoli, infatti, Francesco capì che per lui gli alberi e il loro culto potevano trasformarsi in un prezioso alleato. Se nelle città riscuoteva il plauso del popolo, esaltando i valori di austerità e pauperismo evangelici, quei valori tanto vituperati dal Clero degli ierocrati cresciuto nello sfarzo e nella simonia, nelle campagne la ricetta del consenso era un’altra e passava attraverso il ventaglio di usanze contadine di matrice non solo celtica, ma comuni a tutto il mondo contadino e tribale.
Si trattava di ridare voce al popolo dei pagi, rievocando usanze tanto ancestrali quanto demonizzate dalla Chiesa come appunto il culto degli alberi e delle sorgenti, anche a costo di rovesciare la parola del papa e calarsi nei panni di un vero e proprio stregone naturale. Uno stregone capace di piantare alberi in ogni dove, parlare agli uccelli e far zampillare l’acqua dalle rocce. E guarda caso, proprio il parlare agli uccelli era una pratica divinatoria condannata aspramente dai teologi e dagli inquisitori del Medioevo come grave reato di stregoneria; i manoscritti giudiziari del Duecento pullulano di miniature con aspiranti maghi e indovini intenti a conversare con uccelli appollaiati sui rami degli alberi.
Le streghe
Ieri bruciate vive dalla chiesa, donne legate eternamente alla sapienza, loro salveranno il mondo
sabato 21 marzo 2020
Il primo giorno di primavera
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Alda Merini
Il primo segno di civiltà
Anni fa, all'antropologa Margaret Mead fu chiesto da una studentessa quale riteneva essere il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di fishhooks, vasi di argilla o pietre di levig
" Ma no Mead ha detto che il primo segno di civiltà in un'antica
cultura era un femore (cosce) che era stato rotto e poi guarito. Mead ha
spiegato che nel regno animale, se ti rompi la gamba, muori. Non puoi
scappare dal pericolo, andare al fiume per bere qualcosa o cercare cibo.
Siete carne per le bestie che si fanno le bestie. Nessun animale
sopravvive ad una gamba rotta abbastanza a lungo da guarire l'osso.
" Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso del tempo per stare con colui che è caduto, ha legato la ferita, ha portato la persona in sicurezza e ha curato la persona attraverso il recupero. Aiutare qualcun altro a superare le difficoltà è dove inizia la civiltà, ha detto Mead
" Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso del tempo per stare con colui che è caduto, ha legato la ferita, ha portato la persona in sicurezza e ha curato la persona attraverso il recupero. Aiutare qualcun altro a superare le difficoltà è dove inizia la civiltà, ha detto Mead
venerdì 20 marzo 2020
Come i tarantolati
LA PLAGA DEL BALLO ( 1518 ) ISTERIA COLLETTIVA o INTOSSICAZIONE ALIMENTARE
Plaga del ballo. Peter Brueghel il giovane ..
La piaga del ballo avvenne a Strasburgo, Alsazia (allora parte del Sacro Romano Impero) nel luglio 1518, quando . una donna, Troffea, iniziò a danzare forsennatamente nelle strade Circa 400 persone iniziarono a ballare per giorni, e, dopo all'incirca un mese, alcune di loro morirono di attacco cardiaco, ictus o affaticamento All'inizio non c'era nulla di strano, ma dopo una settimana lei stava ancora ballando, e in quella settimana si unirono a lei 100 persone. Le autorità erano convinte che "questa febbre del ballo" si sarebbe esaurita dopo pochi giorni, così allestirono un palco di legno sopra al quale la gente poteva ballare e furono pagati musicisti e ballerini esperti per dare ritmo e coreografia ai danzatori.Dopo qualche giorno i più deboli di cuore iniziarono però a morire per colpa degli sforzi eccessivi; al contempo molta gente continuava a ballare, nonostante si fratturasse le caviglie. . Quando i morti divennero troppi e la gente iniziò a disperdersi, le persone ormai in fin di vita furono portate in un santuario di guarigione. Questa " isteria collettiva finì solo agli inizi di settembre
Plaga del ballo. Peter Brueghel il giovane ..
La piaga del ballo avvenne a Strasburgo, Alsazia (allora parte del Sacro Romano Impero) nel luglio 1518, quando . una donna, Troffea, iniziò a danzare forsennatamente nelle strade Circa 400 persone iniziarono a ballare per giorni, e, dopo all'incirca un mese, alcune di loro morirono di attacco cardiaco, ictus o affaticamento All'inizio non c'era nulla di strano, ma dopo una settimana lei stava ancora ballando, e in quella settimana si unirono a lei 100 persone. Le autorità erano convinte che "questa febbre del ballo" si sarebbe esaurita dopo pochi giorni, così allestirono un palco di legno sopra al quale la gente poteva ballare e furono pagati musicisti e ballerini esperti per dare ritmo e coreografia ai danzatori.Dopo qualche giorno i più deboli di cuore iniziarono però a morire per colpa degli sforzi eccessivi; al contempo molta gente continuava a ballare, nonostante si fratturasse le caviglie. . Quando i morti divennero troppi e la gente iniziò a disperdersi, le persone ormai in fin di vita furono portate in un santuario di guarigione. Questa " isteria collettiva finì solo agli inizi di settembre
L'obelisco del Foro Italico
Roma
è senza dubbio la città degli obelischi dell'antico Egitto e moderni.
L'Obelisco del Foro Italico, ricavato da un unico blocco di marmo di
Carrara alto 19 metri per due metri alla base, del peso di 300
tonnellate, è unico nel suo genere. Per trasportarlo a valle si
utilizzarono 36 coppie di buoi che per cinque mesi lo trainarono su
binari lubrificati fino a raggiungere la costa, dove fu imbarcato alla
volta di Fiumicino tramite un pontone realizzato a La Spezia. Raggiunto
il porto laziale risalì il Tevere, giungendo a Roma il 6 maggio 1932.
Si affidò l'innalzamento all'architetto Costantini, lo stesso che decorò
anche il Ponte Vittorio Emanuele II sul Tevere e realizzò il complesso
natatorio del Foro Italico.
Il più grande blocco marmoreo che sia mai venuto alla luce dalle viscere della Terra, campeggia sul vasto complesso del Foro Italico, alla base di Monte Mario. La cuspide di oro puro in cima, del valore di mezzo milione, è stata rubata nell'immediato dopoguerra. Nel 2006 iniziarono i lavori di restauro, terminati, due anni dopo, nel settembre 2008
.
Il più grande blocco marmoreo che sia mai venuto alla luce dalle viscere della Terra, campeggia sul vasto complesso del Foro Italico, alla base di Monte Mario. La cuspide di oro puro in cima, del valore di mezzo milione, è stata rubata nell'immediato dopoguerra. Nel 2006 iniziarono i lavori di restauro, terminati, due anni dopo, nel settembre 2008
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