In questi luoghi fiorisce ancora l'Agnocasto, il 'pepe dei monaci' per non tradire il voto di castità
La quiete, in alcune ore della giornata, è quasi la stessa. Il paesaggio, no, dopo secoli è inevitabilmente mutato e nell'aria non risuonano più le litanie dei monaci in preghiera. Ma a cercar bene, tra le aiuole, lui si può trovare ancora: il Vitex angus-castus, banalmente detto Agnocasto, sempre in grado con i suoi petali bianchi o blu-violetto, di calmare ogni indesiderato bollente spirito.
Quinto miglio dell'Appia antica, proprio accanto alla Villa dei Quintili, nel pieno della campagna romana: qui ha riaperto i cancelli e giardino Santa Maria Nova, antico casale costruito su un Castellum Acquae dei tempi di Adriano, per anni ricovero delle guarnigioni d'onore di Commodo ma a partire dal XIV secolo dimora dell'ordine monastico dei Benedettini Olivetani.
E proprio a loro è dedicato il recupero botanico con cui la Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma ha riportato qui colori e profumi del Medioevo.
''Non c'è una bibliografia specifica su Santa Maria Nova'', racconta all'ANSA l'agronomo Francesco Bardesino che con Francesco Rinaldo e la loro Horti di Veio ha curato il riallestimento del giardino. ''Abbiamo seguito le caratteristiche comuni dell'Hortus Conclusus (dal latino, orto recintato)'', il tipico giardino medievale di monasteri e conventi. Che non era considerato solo luogo di riposo e preghiera, ma, racconta ancora Bardesino, ''doveva anche aiutare nella sussistenza dei monaci''. Oggi come allora, dunque, nelle aiuole di Santa Maria Nova sono tornate a crecere più di 200 piante, tra erbe aromatiche, alberi da frutta e fiori ornamentali, involontari narratori di storie e tradizioni.
Come la mela cotogna, che era alla base dell'alimentazione del tempo, o il Melograno, nel Medioevo simbolo della Resurrezione di Gesù. E poi il fiore del Lilium Candidum, che Augusto impose di coltivare limitare le importazioni e nei secoli divenuto simbolo di purezza e castità associato alla Madonna. O ancora la Rosa Bracteata, importata dalla Cina nel 1793, che Carlo Magno indicò come secondo fiore da coltivare dopo i gigli.
Tra le piante d'alto fusto, è tornato il Sorbo, sin dai tempi dei Romani utilizzato sia per farne una bevanda, la cerevisia, che per conciare le pelli con gli estratti delle sue foglie.
Soprattutto, prosegue Bardesino, ''i monaci facevano largo uso di piante officinali''. Ecco allora che tra un raro Tasso femmina (riconoscibile per le sue bacche rosse) e il Gelso che un fulmine ha trasformato in una freschissima seduta incoronata dalle foglie, cresce l'Issopo, ottimo rimedio contro la tosse. Poco più in là, la Ruta, i cui fiori gialli erano alla base di ritrovati medici e liquori. E soprattutto il Vitex angus-castus, l'Agnocasto, noto anche come il ''pepe dei monaci'', per quel sapore piccante dei frutti, a dispetto invece dell'effetto procurato.
Gli Olivetani, infatti, lo utilizzavano come anafrodisiaco, per spegnere cioè quei bollenti spiriti che potevano indurre in tentazione e non tradire così il voto di castità. Un uso, in verità, suggerito sin dall'antichità. Già il medico greco Dioscoride lo consigliava per diminuire la libido. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che veniva sparso sui letti delle donne ateniesi per garantirne la fedeltà quando i mariti erano in guerra. E anche Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico senese del '500, ne lodava le funzioni: ''costringe gli impeti di Venere, tanto mangiato fritto quanto crudo. Si crede che non solamente mangiandosene o bevendosene faccia gli uomini casti ma ancor giacendovisi''. E non si sbagliavano, perchè la chimica moderna conferma: tra i suoi costituenti si trova la vitexina, flavonoide dalla proprietà rilassanti.
''Abbiamo costruito un giardino il più possibile autosufficiente - conclude Bardesino - L'idea è di proseguire per tappe, fino a riempire tutte le zone dei claustra, come immaginiamo potevano essere al tempo dei monaci''.
(Ansa)
La quiete, in alcune ore della giornata, è quasi la stessa. Il paesaggio, no, dopo secoli è inevitabilmente mutato e nell'aria non risuonano più le litanie dei monaci in preghiera. Ma a cercar bene, tra le aiuole, lui si può trovare ancora: il Vitex angus-castus, banalmente detto Agnocasto, sempre in grado con i suoi petali bianchi o blu-violetto, di calmare ogni indesiderato bollente spirito.
Quinto miglio dell'Appia antica, proprio accanto alla Villa dei Quintili, nel pieno della campagna romana: qui ha riaperto i cancelli e giardino Santa Maria Nova, antico casale costruito su un Castellum Acquae dei tempi di Adriano, per anni ricovero delle guarnigioni d'onore di Commodo ma a partire dal XIV secolo dimora dell'ordine monastico dei Benedettini Olivetani.
E proprio a loro è dedicato il recupero botanico con cui la Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma ha riportato qui colori e profumi del Medioevo.
''Non c'è una bibliografia specifica su Santa Maria Nova'', racconta all'ANSA l'agronomo Francesco Bardesino che con Francesco Rinaldo e la loro Horti di Veio ha curato il riallestimento del giardino. ''Abbiamo seguito le caratteristiche comuni dell'Hortus Conclusus (dal latino, orto recintato)'', il tipico giardino medievale di monasteri e conventi. Che non era considerato solo luogo di riposo e preghiera, ma, racconta ancora Bardesino, ''doveva anche aiutare nella sussistenza dei monaci''. Oggi come allora, dunque, nelle aiuole di Santa Maria Nova sono tornate a crecere più di 200 piante, tra erbe aromatiche, alberi da frutta e fiori ornamentali, involontari narratori di storie e tradizioni.
Come la mela cotogna, che era alla base dell'alimentazione del tempo, o il Melograno, nel Medioevo simbolo della Resurrezione di Gesù. E poi il fiore del Lilium Candidum, che Augusto impose di coltivare limitare le importazioni e nei secoli divenuto simbolo di purezza e castità associato alla Madonna. O ancora la Rosa Bracteata, importata dalla Cina nel 1793, che Carlo Magno indicò come secondo fiore da coltivare dopo i gigli.
Tra le piante d'alto fusto, è tornato il Sorbo, sin dai tempi dei Romani utilizzato sia per farne una bevanda, la cerevisia, che per conciare le pelli con gli estratti delle sue foglie.
Soprattutto, prosegue Bardesino, ''i monaci facevano largo uso di piante officinali''. Ecco allora che tra un raro Tasso femmina (riconoscibile per le sue bacche rosse) e il Gelso che un fulmine ha trasformato in una freschissima seduta incoronata dalle foglie, cresce l'Issopo, ottimo rimedio contro la tosse. Poco più in là, la Ruta, i cui fiori gialli erano alla base di ritrovati medici e liquori. E soprattutto il Vitex angus-castus, l'Agnocasto, noto anche come il ''pepe dei monaci'', per quel sapore piccante dei frutti, a dispetto invece dell'effetto procurato.
Gli Olivetani, infatti, lo utilizzavano come anafrodisiaco, per spegnere cioè quei bollenti spiriti che potevano indurre in tentazione e non tradire così il voto di castità. Un uso, in verità, suggerito sin dall'antichità. Già il medico greco Dioscoride lo consigliava per diminuire la libido. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia scrive che veniva sparso sui letti delle donne ateniesi per garantirne la fedeltà quando i mariti erano in guerra. E anche Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico senese del '500, ne lodava le funzioni: ''costringe gli impeti di Venere, tanto mangiato fritto quanto crudo. Si crede che non solamente mangiandosene o bevendosene faccia gli uomini casti ma ancor giacendovisi''. E non si sbagliavano, perchè la chimica moderna conferma: tra i suoi costituenti si trova la vitexina, flavonoide dalla proprietà rilassanti.
''Abbiamo costruito un giardino il più possibile autosufficiente - conclude Bardesino - L'idea è di proseguire per tappe, fino a riempire tutte le zone dei claustra, come immaginiamo potevano essere al tempo dei monaci''.
(Ansa)
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