Lezione Magistrale di Pina Bausch
“Dance, dance, otherwise we are lost”
Signore e signori, vorrei cominciare con una storia. Una volta, in Grecia, sono andata a visitare alcune famiglie di zingari. Ci siamo seduti insieme e abbiamo parlato; a un certo punto tutti hanno cominciato a ballare e io dovevo partecipare. Avevo una gran paura e la sensazione di non essere in grado. Allora è venuta da me una ragazzina, forse sui dodici anni, e mi ha pregato ripetutamente di danzare assieme a loro. Diceva: “Dance, dance, otherwise we are lost”. Balla, balla, altrimenti siamo perduti.
Ancora un’altra bellissima storia. Un uomo anziano a Wuppertal mi ha raccontato di sua madre centenaria, al suo paese in Turchia, che gli ha sempre detto: “Nicht weinen, singen”. Non piangere, canta.
Danzare deve avere un fondamento diverso dalla pura tecnica e dalla routine. La tecnica è importante, ma è solo un presupposto. Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità.Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio – con parole, con immagini, movimenti, atmosfere – che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre. È una conoscenza molto precisa. I nostri sentimenti, quelli di tutti noi, sono molto precisi. È però un processo molto, molto difficile da rendere visibile. Io so bene che si tratta di qualcosa con cui si deve essere molto cauti. Se si traduce troppo in fretta in parole, può scomparire o diventare banale. Ma ciò nonostante si tratta di una conoscenza molto precisa, che possediamo tutti, e la danza, la musica ecc. sono linguaggi molto esatti, con cui è possibile fare intuire questa conoscenza. Non si tratta di arte, e neanche di una semplice capacità. Si tratta della vita, e dunque di trovare un linguaggio per la vita. E si tratta sempre, lo ripeto, di qualcosa che non è ancora arte, ma che forse potrebbe diventarlo.
Fin dall’infanzia la danza è stata per me un mezzo di espressione molto importante. Con la danza potevo esprimere tutte quelle emozioni che non sapevo dire a parole. Sono talmente tanti i differenti stati d’animo, tante le sfumature e le tonalità che si possono esprimere attraverso la danza. Ed è questo ciò che conta: si deve conservare la ricchezza, non limitarla, si devono rendere visibili e percepibili tutte le diverse sfumature.
Più tardi, durante la mia formazione alla Folkwangschule di Essen ho imparato anche a conoscere i miei limiti. Con ciò non intendo i limiti dell’anima, che è illimitata, ma i limiti della forma, del proprio corpo. La caratteristica meravigliosa della Folkwangschule era che sotto lo stesso tetto venivano insegnate sia le arti sceniche sia le arti figurative. Quindi la musica, l’opera, il teatro, la danza accanto alla pittura, la scultura, la fotografia, la grafica, il disegno tessile ecc. era più che ovvio che tutto si alimentasse reciprocamente, che si ricevesse e si imparasse un po’ da tutto. Da allora, per esempio, non sono più in grado di vedere niente senza metterlo in relazione con lo spazio. Questo modo di vedere spaziale è una componente importantissima del mio lavoro. Al di là della qualità straordinaria di insegnanti come Hans Züllig o Jean Cébron, la formazione, grazie alla concezione visionaria e alla direzione di Kurt Jooss, era unica per pluralità e complessità. La formazione dei danzatori includeva la danza classica, stili diversi di danza contemporanea, parti del folklore europeo, composizione ecc.
Più tardi, a New York, al termine della mia formazione, ho di nuovo incontrato questa molteplicità, una molteplicità della vita. Vivere da sola e lavorare in una città di quel genere, dove ci sono tante persone diverse con mentalità differenti, ha provocato in me un’impressione molto profonda e importante. Si impara che nulla può essere separato. Che tutto coesiste contemporaneamente e che tutto è importante e vale allo stesso modo. Che si deve avere un grande rispetto per tutti i diversi modi di vivere e di vedere la vita. Anche questo è un aspetto importante del nostro lavoro. Come compagnia siamo un gruppo misto e variegato di persone: i danzatori vengono da ogni parte del mondo, da culture molto diverse tra loro. Ormai è diventata un grande reticolo, una gigantesca famiglia, con collegamenti dovunque, in tutte le culture. Il nostro lavoro non è vincolato da alcun confine, ma li attraversa tutti. È come le nuvole, come il sole, come la musica. Se io fossi un uccello, sarei forse un uccello tedesco?
Allora, dopo il mio periodo a New York, quando ritornai in Germania, in realtà volevo danzare. Siccome però non c’erano praticamente coreografie, ho cominciato a crearle io. Questo avvenne anche in seguito, quando il sovrintendente Arno Wüstenhöfer mi portò a Wuppertal. In principio volevo danzare io. Ma c’erano tutti i vari danzatori che desideravano ballare e per farli felici ho creato pezzi per loro e ho messo da parte il mio personale desiderio di danzare. All’inizio abbiamo lavorato con opere musicali che offrono già una certa indicazione. Ho scelto solamente quei lavori che mi lasciavano una qualche libertà di inserirvi qualcosa di mio. Ad esempio Gluck mi ha lasciato, con Ifigena e con Orfeo e Euridice, moltissimo spazio per intervenire nell’opera facendovi confluire qualcosa di assolutamente personale, che sentivo di dover esprimere. In queste opere ho trovato esattamente quello di cui dovevo parlare. Da ciò è nata poi una nuova forma: l’opera danzata. In un’altra direzione ho poi cercato contenuti particolari e altre forme. Ne è stato un esempio il lavoro che in seguito si è chiamato Fritz. Più tardi, quando abbiamo creato Macbeth per il teatro Bochum, è nato il modo di lavorare attraverso le domande.
Semplicemente perché in quel pezzo c’erano degli attori, dei danzatori, una cantante e un pasticcere. Non potevo pretendere dagli attori una sequenza di movimenti, perciò dovevo cominciare da un altro punto di partenza. Quindi ho posto loro le stesse domande che rivolgevo a me stessa. Le domande servono per avvicinarsi in modo molto cauto alla tematica. È un procedimento di lavoro molto aperto e nello stesso tempo però anche molto preciso. Perché io so sempre esattamente ciò che cerco, ma lo so con la mia sensibilità e non con la testa. Perciò non si può mai domandare in modo troppo diretto. Sarebbe troppo grossolano e le risposte sarebbero troppo banali. Io so cosa cerco ma non posso spiegarlo. Ciò che cerco non va disturbato con le parole ma va portato alla luce con tanta pazienza. Le cose più belle sono nella maggior parte dei casi completamente nascoste. Vanno prese, curate e fatte crescere pian piano. Per procedere in questo modo ci vuole una grande fiducia reciproca. Perché ci sono sempre da superare delle soglie d’imbarazzo. Per questa ragione a me piace lavorare con danzatori che hanno una certa timidezza, un certo pudore, che non si svelano facilmente. È molto importante che esista questo pudore, questa esitazione, quando si arriva a un certo limite nel lavoro. Chi semplicemente si esibisce, è fuori posto. Il pudore garantisce che se, per esempio, qualcuno mostra qualcosa di molto piccolo, questo sia davvero qualcosa di speciale e che venga visto anche come tale. Proprio qui sta la difficoltà: indurre qualcuno, per così dire, a trovarlo.
Permettetemi di dire qualche cosa sulle persone straordinarie con le quali lavoro.
Io non assumo infatti in primo luogo il danzatore, a me interessa soprattutto la sua personalità, ciò che di irripetibile e di singolare c’è in lui. Negli spettacoli ognuno è totalmente se stesso: nessuno deve recitare. Durante il lavoro, cerco di condurre ciascuno a trovare da sé quel che cerco. Solo allora egli risulta convincente, perché è autentico. Solo in questo modo posso essere certa che ognuno abbia cura ciò che ha trovato e sia in grado di mostrarlo. Ogni dettaglio è importante, qualsiasi cambiamento, perché ogni spostamento causa un effetto diverso. Tutto ciò che troviamo durante le prove viene accuratamente esaminato e messo alla prova, per capire se resiste anche nelle condizioni più difficili. Non accetto nulla cui io non possa credere, che non mi convinca. Dopo tante domande, alla fine rimangono solo pochissime cose che poi vanno a costituire lo spettacolo. Tutto viene continuamente rivoltato e ripensato. Ogni dettaglio subisce una grande quantità di mutamenti, finché alla fine trova il posto giusto. Occorre ogni volta molto tempo, prima che qualcosa cominci a scorrere. Se non si presta attenzione anche alla più minuta piccolezza, il lavoro va in una direzione sbagliata ed è molto difficile correggerlo. Perciò ci vuole una enorme precisione e onestà in questo lavoro e tanto coraggio. Mostriamo qualcosa di personale, che però non è privato. Si mostra qualcosa di ciò che tutti condividiamo. Per trovarlo è richiesta molta pazienza e la disponibilità a ricominciare a cercare ogni volta da capo. Vorrei provare a chiarire un fraintendimento che sorge spesso. Anche se si dice che il Tanztheater è una forma completamente nuova, io non ho mai avuto l’intenzione di creare uno stile specifico o un nuovo teatro. La forma è nata da sé, dalle domande che io mi ponevo. Nel mio lavoro ho sempre cercato qualcosa che ancora non conosco. È una ricerca continua e persino dolorosa, una lotta. Ricercando non c’è nulla su cui ci si possa basare: nessuna tradizione, nessuna routine. Non esiste nulla a cui ci si possa aggrappare. Si sta completamente soli di fronte alla vita e alle esperienze che si fanno e si deve cercare di rendere visibile o almeno intuibile ciò che si sa da sempre. Questo è ciò che ogni artista ricomincia a fare in ogni periodo storico. E non è nemmeno d’aiuto l’aver già fatto tanti spettacoli. Con ogni spettacolo questa ricerca ricomincia da capo e ogni volta ho paura di non poterci riuscire. I modi nel Tanztheater derivano da una precisa necessità e anche da un bisogno: trovare un linguaggio per ciò che non può essere espresso in altra maniera.
La stessa cosa vale per la scenografia. Terra, acqua, foglie o sassi in scena creano un’esperienza sensoriale del tutto particolare. Modificano i movimenti, disegnano tracce dei movimenti, producono determinati odori. La terra si attacca alla pelle, l’acqua penetra nei vestiti, li rende pesanti e produce dei rumori. I mattoni di un muro abbattuto rendono il camminare difficile e insicuro. Se si porta all’interno di un teatro qualcosa che normalmente sta al di fuori, ci si apre lo sguardo. Improvvisamente si vedono cose che si credeva di conoscere in modo del tutto nuovo – come se fosse la prima volta. I molti materiali che usiamo sono cose naturali, che normalmente non hanno a che fare con quel luogo. Esse ci irritano e ci invitano a guardare in modo completamente diverso. Impegnano i nostri sensi e ci portano a non pensare più e a cominciare invece a percepire, a sentire. I danzatori non indossano calzamaglie o costumi stilizzati. Gli abiti sono in parte vestiti normali e in parte vestiti lussuosi e bellissimi. Naturalmente anche eleganti, estremamente eleganti, ma l’eleganza viene anche spezzata. Figure strane, a volte grottesche, che non si riesce a inquadrare direttamente. I colori per me sono importanti, estremamente importanti. Da un lato non ci si differenzia dalla vita normale, dall’altro però si mostra la grande ricchezza di forme e colori che da sempre è esistita. La stessa cosa vale per le musiche di vari paesi e diversi periodi. Le musiche mostrano con quanta precisione e in quanti modi diversi si possono esprimere i sentimenti. È una tale ricchezza che non si può mai finire di cercare e di imparare. Solo che anche qui si tratta di un difficile e lungo processo, per compiere la scelta definitiva e collegare la musica con quanto avvierei scena. Non posso dire da dove traggo la certezza che funzioni. Ma tra i moltissimi pezzi musicali che ascolto per ogni produzione, ce n’è uno per ogni scena che davvero sia adatto.
Animali e fiori, tutte le cose che usiamo in scena, appartengono alla nostra vita quotidiana. Ci sono ad esempio dei coccodrilli o c’è una storia d’amore bella e triste con un ippopotamo. Con tutto questo si possono raccontare delle storie, là dove non si riesce con le parole. E nello stesso tempo si può mostrare qualcosa della solitudine, della necessità, della tenerezza. Per questo non occorrono spiegazioni o allusioni. Tutto è direttamente visibile. Ogni spettatore lo può vedere con il proprio corpo e con il cuore. Questa è la cosa meravigliosa della danza: il corpo è una realtà senza la quale niente è possibile, ma oltre la quale si deve anche saper andare. Esso ci dà qualcosa di molto concreto, che ci può toccare e sentire e che ci commuove. Gli spettatori fanno sempre parte della rappresentazione quanto ne faccio parte io stessa, anche se non sono presente in scena. Ognuno è invitato a fidarsi dei propri sentimenti. Nei nostri programmi di sala non si trovano mai delle indicazioni rispetto al modo in cui vanno intesi gli spettacoli. Dobbiamo fare le nostre esperienze, come nella vita. Non ci può aiutare nessuno.
La fantastica possibilità che abbiamo in scena è che ci è permesso compiere azioni che nella vita normale non si possono e non si devono fare. Con questo cerco di capire da dove vengono certe emozioni. Le contraddizioni sono importanti. Tutto deve essere osservato, non si può escludere nulla.
Solo così possiamo intuire in che tempo viviamo. La realtà è molto più vasta di quanto siamo in grado di comprendere. Talvolta possiamo chiarire qualcosa soltanto confrontandoci con ciò che non sappiamo. E talvolta le domande che ci poniamo conducono a esperienze che sono molto più antiche, che non appartengono soltanto alla nostra cultura, al qui e ora. È come se ritornasse a noi una conoscenza che da sempre ci appartiene, ma della quale non siamo più consapevoli e contemporanei.
Ci fa ricordare qualcosa che è comune a tutti noi. Questo ci da grande forza e speranza.
Le domande non cessano mai e nemmeno la ricerca. C’è in essa qualcosa di infinito, e questa è la cosa bella. Se guardo al nostro lavoro, ho la sensazione di avere appena cominciato.
Vi ringrazio.
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