domenica 22 marzo 2020

Lo sciamano di Assisi

Francesco, lo stregone che piantava gli alberi
Arbores demonibus consacratae, gli alberi consacrati agli spiriti del male; sono loro i rivali più temibili con cui tutti i campioni delle agiografie medievali si devono misurare nelle campagne. E tra questi agguerriti predicatori, c’è anche chi ci lascia le penne. Come Adalberto, vescovo di Praga, fatto oggetto nel 997 d.C. di un fittissimo lancio di giavellotti durante una messa celebrata sull’altare che lui stesso aveva fatto erigere incautamente poco prima, al posto di un profana arbor.
È il caso del famoso noce di Benevento, abbattuto nel 663 d.C. da San Barbato e miracolosamente ricresciuto qualche miglio più avanti secondo la leggenda tramandata nel trattato De nuce maga beneventana del medico Pietro Piperno. E che dire, invece, del pino abbattuto «con eroica fede nel Signore» da San Martino vescovo della città di Tours...
Ma se questa carrellata di aneddoti non vi basta e desiderate qualche nome più illustre pensate allora al caso emblematico di Benedetto da Norcia, attualmente il santo prediletto dalla Sede Apostolica; mosso da forti intenti evangelizzatori, arrivato in quel di Monte Cassino, la prima cosa che si premurò di fare Benedetto fu distruggere un boschetto sacro ad Apollo che sorgeva sulla sommità del monte. Ma se santi e predicatori impugnavano sovente le asce davanti a faggi e querceti, i cosiddetti ‘laici’ non erano certo da meno. Basti pensare al paladino del Sacro Romano Impero Carlo Magno, che nel 772 d.C., giunto a Geismar, abbatté Irminsul, la quercia sacra ai Sassoni perché ritenuta l’asse del mondo.
Eppure il cristianesimo medievale non ha gioco contro queste credenze, talmente radicate nel mondo contadino da mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte abbazie nel contado all’alba del tredicesimo secolo. Rintanata nei palazzi vescovili tra Perugia, Viterbo e Roma, costretta a fare la spola per schivare la tempesta ereticale pauperista che imperversa nelle città, la corte papale sta perdendo progressivamente il controllo delle campagne, dove i focolari pagani non si sono mai spenti del tutto. Urge un esponente del mondo cristiano che riavvicini la Chiesa al suo popolo, specie dopo la svolta teocratica imposta da Innocenzo III nel 1215 e continuata dal suo successore Onorio.
Dai corridoi del Laterano fino alle più minute casupole del contado, si comincia a vociferare di un uomo dotato di profondo carisma, che fa sfoggio di poteri sovrannaturali e riscuote un larghissimo consenso malgrado non sia un chierico, e tanto meno un prelato, ma un laico figlio di mercanti; forse è proprio questo dettaglio a renderlo gradito agli uomini e alle donne cui predica.
Si chiama Francesco, si è recato già più di una volta in udienza dal papa per chiedere che la sua fraternitas venga riconosciuta dalle gerarchie. E malgrado il rifiuto di papa Innocenzo, non si è rassegnato, costruendo col tempo una comunità di seguaci che, specie nelle campagne, tra i vecchi pagani, ha il suo punto di forza. ogni eremo francescano ha il suo albero sacro e una leggenda fotocopia delle altre che ne tramanda la storia: fu lo stesso Francesco a piantare quell’albero durante il suo soggiorno in una caverna posta a pochi passi di distanza. Non solo; questi alberi ancora oggi rappresentano il vero oggetto di devozione per i francescani negli eremi, malgrado le fonti ufficiali approvate dall’Ordine non ne facciano mai menzione. Prendiamo il caso di un eremo molto familiare ai devoti, se non altro perché è posto nelle immediate adiacenze di Assisi. È l’Eremo delle Carceri del monte Subasio, dove i documenti ci narrano che Francesco amava soggiornare durante la sua conversione. Raggiunto il convento, che ha inglobato il primo rifugio del santo, dal crinale del monte spunta un arbusto malconcio, a cui è stata applicata una gabbia metallica per evitare che esso si spezzasse col tempo a causa delle intemperie. Lo chiamano il Leccio sacro, e la devozione legata a quest’albero si deve al fatto che degli uccelli in volo si sarebbero posati sui suoi rami per ascoltare la predica tenuta dal Santo..
Ma ci sono anche degli alberi che non sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo; è il caso, ad esempio, della Quercia della Verna, abbattuta nel 1602 dai frati e sulle cui radici fu eretto non il solito altare per dire messa, ma una cappella alla memoria con un nome che è tutto un programma, un nome che più pagano non si potrebbe: la Cappella degli Uccelli. Sulle sue radici, infatti, si sarebbe adagiato per l’ennesima volta uno stormo di uccelli in volo durante la prima visita del santo al monte, avvenuta nel 1214 ..Certo, i fedeli cristiani che oggi pregano e fanno penitenza sotto quegli alberi non immaginerebbero mai di stare contemplando degli idoli pagani, ma guai a stupirsi di questa apparente stranezza.
Per riscuotere successo nelle campagne e predicare a quei contadini che la Chiesa aveva da secoli bistrattato distruggendone gli idoli, infatti, Francesco capì che per lui gli alberi e il loro culto potevano trasformarsi in un prezioso alleato. Se nelle città riscuoteva il plauso del popolo, esaltando i valori di austerità e pauperismo evangelici, quei valori tanto vituperati dal Clero degli ierocrati cresciuto nello sfarzo e nella simonia, nelle campagne la ricetta del consenso era un’altra e passava attraverso il ventaglio di usanze contadine di matrice non solo celtica, ma comuni a tutto il mondo contadino e tribale.
Si trattava di ridare voce al popolo dei pagi, rievocando usanze tanto ancestrali quanto demonizzate dalla Chiesa come appunto il culto degli alberi e delle sorgenti, anche a costo di rovesciare la parola del papa e calarsi nei panni di un vero e proprio stregone naturale. Uno stregone capace di piantare alberi in ogni dove, parlare agli uccelli e far zampillare l’acqua dalle rocce. E guarda caso, proprio il parlare agli uccelli era una pratica divinatoria condannata aspramente dai teologi e dagli inquisitori del Medioevo come grave reato di stregoneria; i manoscritti giudiziari del Duecento pullulano di miniature con aspiranti maghi e indovini intenti a conversare con uccelli appollaiati sui rami degli alberi.


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