giovedì 7 marzo 2019

La bauta maschera intrigante anche per trasgredire nell'anonimato


La Bauta è la maschera più rappresentativa del carnevale nella Venezia antica: è l'icona di una città affascinante sospesa nel tempo e nello spazio e di un carnevale diverso da tutti gli altri...




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Pietro Longhi, Il Ridotto - 1740
Accademia Carrara, Bergamo



Gianni Nosenghi


LA BAUTA



[...] In realtà, la sola maschera, originariamente nera e poi bianca, era detta larva e, con la sua forma che si allargava come un becco appena sotto il naso, ricopriva per tre quarti il volto, lasciando visibile solo il mento. La sua particolare conformazione alterava la voce e permetteva di indossare la maschera perfino per bere e mangiare, mantenendo così l’anonimato. Con il termine bauta si intende l'intero costume, composto dalla maschera, il pizzo o zendale che era adottato da uomini e donne perché consentiva il più completo anonimato, il tricorno e il tabarro, un mantello a ruota tanto ampio che vi si poteva nascondere tutto, anche armi.

Il tabarro poteva essere di panno o di seta secondo le stagioni, bianco o turchino, scarlatto per le occasioni importanti, a volte decorato con fronzoli, frange e fiocco alla militare. Era molto usato anche dalle donne, scuro d’inverno e bianco d’estate. Giustina Renier Michiel, una delle più nobili figure intellettuali del Settecento veneziano, racconta che: «La sera, mascherando la loro persona entro un nero mantello e una cappa pur nera di finissimo merlo, chiamata bauta, prendevano tutte una medesima forma. Pure quel piccolo cappello alla maschile, di cui erano adorne, messo con una non so quale bizzarria, aggiungeva maggior espressione alla fisionomia, maggior vivacità agli occhi e freschezza delle guance».

Era comunemente usata quando si recavano a teatro mentre era proibita alle fanciulle in attesa del matrimonio. Come maschera, le donne usavano la moretta, una maschera ovale di velluto nero che ebbe origine in Francia, dove le dame erano solite utilizzarla per andare in visita alle monache, ma si diffuse rapidamente a Venezia, poiché abbelliva particolarmente i lineamenti femminili. Si indossava tenendola in bocca grazie a un piccolo perno ed era detta perciò maschera muta. Ma a parte questa differenza, infagottati sotto la bauta, era davvero difficile riconoscersi. L'insieme veniva definito anche "abiti di convenzione" e tutti, dai magistrati agli inquisitori di stato, dai prìncipi stranieri allo stesso doge, se ne servivano quando volevano essere irriconoscibili e liberi da ogni etichetta. Veniva utilizzata, ad esempio, dai giocatori d'azzardo, per nascondersi agli occhi di eventuali creditori, come dai nobiluomini barnaboti per chiedere l'elemosina agli angoli delle strade: i barnaboti erano i patrizi poveri e il nome deriva dalla zona di San Barnaba, abitata dai poveri della città.

Quando due persOne in bauta si incontravano, si salutavano con un semplice "maschera". Potevano partecipare a qualsiasi evento, mischiati nella folla, sicuri da ogni insulto o offesa, perché la persona in tabarro e bauta era considerata sotto la speciale tutela della legge. Se pensiamo alle tante occasioni in cui si è parlato della Venezia licenziosa, è facile comprendere come la bauta venisse usata pressoché quotidianamente, non solo durante il Carnevale, tanto che agli inizi del 1600 il governo della Serenissima decise di vietarne l'uso durante la notte e impose altre limitazioni per tutelare l'ordine pubblico. Le maschere erano permesse dal giorno di Santo Stefano, data che sanciva il giorno dell'inizio del Carnevale veneziano, fino alla mezzanotte del martedì grasso, che lo concludeva.


Gianni Nosenghi, 101 cose da fare a Venezia almeno una volta nella vita (Newton Compton)

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