domenica 23 febbraio 2020

GLI INFINITI MONDI DI GIORDANO BRUNO


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Giuseppe Bailone

Copernico ha tolto alla Terra e all’uomo la posizione centrale nel mondo.

Copernico, appare a Bruno “essere ordinato dagli dei come un’aurora, che dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza”. Bruno ammira “la magnanimità di questo germano, il quale, avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì saldo contra il torrente de la contraria fede”. Ma, come l’aurora che riporta la luce all’orizzonte è ancora al confine tra la notte e il giorno, così Copernico è ancora legato alla vecchia cultura: si è dimostrato il miglior astronomo di tutti i tempi; si è liberato di una serie di pregiudizi della filosofia tradizionale, ma “essendo più studioso della matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe”.[1]

Copernico ha cominciato la rivoluzione, ma, limitato dalla sua “raggione calculatoria”, non è riuscito ad aprirsi all’infinito, alla realtà che sfugge alle misure: pensare l’infinito significa esporsi all’indeterminatezza, al caos, alla immensità; significa “profondare ne’ sentimenti”, fare il salto cui la geometria non prepara e che solo la filosofia può fare.

Bruno accoglie con entusiasmo la rivoluzione copernicana e la inserisce in un mondo senza centro e senza confini, rendendola ancora più sconcertante: l’infinito mina in profondità antiche certezze e dissolve ogni gerarchia.

Il mondo chiuso, gerarchico e rassicurante di Aristotele e della Bibbia, capovolto da Copernico, diventa uno dei tanti, uno degli infiniti mondi. Tutto si relativizza: ogni cosa, anche la più piccola e la più umile, è al centro del proprio mondo, ma in un universo senza centro e senza confini.

Bruno fonda questa sua convinzione su argomentazioni metafisiche: la realtà è infinita perché infinita è la sua causa, Dio; mettere dei limiti all’universo, come ancora fa Copernico, significa mettere dei limiti a Dio.

Agisce profondamente in Bruno la filosofia dell’infinito di Niccolò Cusano.

In Cusano, però, l’idea d’infinito si accompagna alla dottrina della “dotta ignoranza”, alla coscienza degli insuperabili limiti umani, all’idea del sapere come congettura, sempre imperfetto, inadeguato, mai capace di aderire compiutamente al proprio oggetto, destinato a restare altro.

Bruno riconosce i limiti conoscitivi dell’uomo, ma in lui prevale un vero e proprio entusiasmo conoscitivo, capace di progressivi sforzi per superarli.

In Cusano l’infinito significa trascendenza di Dio e impossibilità di conoscere adeguatamente l’universo che di Dio è esplicazione; comporta il senso dei limiti insuperabili del nostro congetturare.

Bruno “non inclina mai verso una prospettiva trascendente di carattere tradizionale, né verso prospettive di carattere «teistico» … Quello che a Bruno interessa, dall’inizio alla fine, è la fondazione dell’universo infinito e animato, dell’Uno-Tutto vivente”.[2]

L’idea biblica e cristiana di un dio trascendente che crea l’uomo a sua immagine e comunica con lui attraverso la rivelazione, i profeti o Cristo, e gli mette a disposizione il mondo perché sia teatro e materia della sua progettualità, è del tutto estranea a Giordano Bruno.

Dio non si esaurisce nell’universo d’infiniti mondi che crea continuamente, ma è nella natura, non se ne ritira, come fa l’artista che, creata l’opera, se ne distacca e la consegna a se stessa.

“Nella vita si concretizza la straordinaria unione dell’Uno e dell’universo. Spetta solo alla natura, infinita ed omogenea, il ruolo di mediazione con la divina unità del Tutto. Per questo il cristianesimo è un’impostura: non è il sacrificio di Cristo che ci mette in comunicazione con la «divinità», ma è la contemplazione dell’universo infinito che può svelarci come la molteplicità e l’unità siano indistinte nella Vita”.[3]

La teologia biblica e cristiana della trascendenza porta fuori strada.

La divinità non va cercata ”fuor del infinito mondo e le infinite cose, ma dentro questo e in quelle”.[4] Lo sguardo va rivolto all’interno della natura.

Dio è soprattutto causa infinita interna alla natura, principio immanente di una realtà infinita che l’uomo può conoscere in un processo che culmina nell’eroico furore, l’assalto all’infinito per comprenderlo e confondersi in esso, superando ogni spaesamento.

E’ vero che l’infinito dissolve l’antropocentrismo, ridimensiona radicalmente l’uomo, ma, nella filosofia di Bruno non lo deprime gettandolo in uno degli infiniti mondi a lui eterogenei, estranei: tutte le cose sono riconducibili a un unico principio che l’uomo può cogliere, Dio, causa dell’infinità e fondamento dell’unità dell’universo, presente in tutte le cose e di cui l’uomo può diventare cosciente. E’ l’idea neoplatonica dell’unità metafisica del reale che anima l’avventura della conoscenza in Bruno.

La conoscenza comincia con i sensi, ma coglie l’infinito e la sua unità solo superando, con l’intelletto e la riflessione razionale, i limiti che la sensibilità determina. Il mondo di Aristotele, chiuso, gerarchico, distinto in celeste e sublunare, è il mondo dei sensi. Bruno propone il superamento dell’orizzonte della sensibilità, per accedere all’universo infinito, composto d’infiniti mondi che vivono in esso e tutti pieni di vita. L’intelletto, però, non basta; resta umbratile. Neppure il filosofo riesce con i soli strumenti intellettuali ad arrivare al termine del processo conoscitivo, a cogliere la Verità e a unirsi con l’Uno. L’ultimo passo è l’esperienza esistenziale straordinaria di chi riesce con eroico furore, con passione sublime, simile all’eros platonico, a spingersi oltre la conoscenza dei fenomeni naturali, oltre l’ambito intellettuale, per abbandonarsi all’Amore e venirne assorbito.

Non si tratta, però, di qualcosa di simile alla grazia cristiana: “A Bruno è radicalmente estranea un’idea «fideistica» del furore come donum dei, pura grazia. Si può esser netti su questo punto: anche nell’ultimo dialogo italiano la polemica anticristiana e, specificatamente, antiriformata resta ferma, impregiudicata. Ciò che anzitutto gli interessa rilevare è la praxis straordinaria con cui l’uomo spinge se stesso al punto estremo della propria umanità, aprendosi verso la divinità in un’ascesa in cui s’intrecciano, organicamente, intelletto e volontà, affetto e cognizione … il problema fondamentale che sta di fronte all’uomo è quello di superare il limite”.[5]

L’universo è infinito nell’insieme, ma ogni mondo è finito. L’universo è infinito per gli infiniti mondi che lo costituiscono. Dio, invece, è infinito e tutto in ogni parte. Dio è tutto e totalmente infinito in ogni dettaglio; l’uomo è solo un dettaglio tra altri infiniti dettagli. Ma, l’uomo, per quanto ombra finita, vive nella verità, perché l’uomo, l’universo e Dio sono strutturalmente connessi. L’eroico furore è lo sforzo estremo dell’uomo per uscire dalla sua strutturale finitezza.

L’eroico furore è un’esperienza momentanea e non definitiva, eccezionale. Bruno la rappresenta con il mito di Atteone, il cacciatore che, avendo visto l’immagine di Diana nuda riflessa nell’acqua, viene trasformato in preda, in cervo, e sbranato dai suoi stessi cani.

Diana è l’attività creatrice divina della natura. Atteone è il filosofo che riesce finalmente a vederla riflessa nelle cose (l’acqua del mito). I cani sono “i pensieri delle cose divine” che divorano la particolarità, il “carnal carcere della materia”, del cacciatore e gli rendono possibile unirsi al divino, guardando Diana, non più soltanto attraverso le fessure degli occhi, ma identificandosi con la natura stessa.

Ma, precisa Bruno, “rarissimi son gli Atteoni”.

La filosofia di Bruno ha scompigliato il vecchio mondo, ha distrutto antiche certezze e articolate gerarchie, ha tuffato l’uomo nell’infinito, ma ha, per così dire, addomesticato l’infinito, superando ogni spaesamento: l’uomo è in un universo senza centro e senza confini, ma è a casa sua. Il filosofo capace di eroico furore lo sa e non ha l’angoscia di chi resta chiuso nei limiti sensibili e delle passioni a essi connesse, non si sente smarrito, perso nell’infinito.

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