Percorrendo la polverosa strada che conduce a Tebe Ovest transitando fra campi di canna da zucchero, il turista non può fare a meno di ammirare due enormi statue, oggi gravemente deteriorate, che si stagliano nel panorama circostante. Sono le statue che ornavano il complesso funerario del faraone Amenhotep III (Amenhotep “figlio di Hapu”), uno dei più grandi templi egizi. L'intero complesso funerario si trovava presso l'odierna Kom el-Hettan (la collina dei muri), nella necropoli tebana. Era il più grande complesso funerario della zona di Tebe coprendo un'area di 350.000 metri quadrati, più grande di quello di Karnak. Edificato però troppo in prossimità del Nilo, su terreno agricolo e privo di solide fondamenta, non resistette all'usura del tempo, un terremoto e l'erosione dovuta alle periodiche inondazioni del fiume causarono, con il passare dei secoli, la sua rovina che si verificò già fin dal tempo in cui ancora regnavano i faraoni. Questo ne fece una cava dalla quale i successori di Amenhotep IIItrassero i blocchi per utilizzarli nelle loro costruzioni. Il tempio era rivolto ad est, verso il Nilo, presentava due vaste corti e tre enormi piloni costruiti con mattoni di fango, attraverso i quali si accedeva alla corte solare. Nelle varie corti si trovavano altre statue di Amenhotep III, (alcune delle quali lo rappresentavano in forma osiriaca), una sfinge della sposa reale Tiy, (oggi senza testa). L'ingresso del tempio era protetto dalle due colossali statue alte 18 metriche rappresentavano il faraone Amenhotep III assiso, con le mani sulle ginocchia, lo sguardo, rivolto verso il sole nascente, da 3400 anni osserva l'eterno scorrere del Nilo. Le statue sono costruite con blocchi di quarzite provenienti forse da Gebel el-Silsilah. Sulla parte anteriore del trono si trovano due figure più basse scolpite a fianco delle gambe, rappresentano la moglie Tiy e la madre Mutemuia, sui lati è rappresentato il dio Nilo, Hapy. I due colossi erano già famosi fin dall'antichità in quanto, a causa del loro progressivo degrado, o per qualche misterioso effetto, dalla statua più settentrionale, all'alba si propagavano dei suoni particolari. Ne parlò per primo lo storico e geografo greco Strabone, che visitò l'Egitto nel 20 a.C., raccontò che durante un suo viaggio, un mattino udì la musica proveniente dalla statua. La cosa lo stupì tanto che ne parla con una vena di scetticismo, non si sa se la cosa è generata dalle potenzialità misteriose della roccia o dall'abilità tecnica dei costruttori o più semplicemente da astuzie ingannevoli che fanno si che all'interno della statua vi sia un uomo che produce il canto. La notizia di una strana statua "parlante" si sparse a tal punto che divenne un'attrazione per numerosi visitatori provenienti da ogni parte tra cui diversi imperatori romani. Poiché la mania di lasciare graffiti a ricordo dei luoghi visitati esisteva già allora, sulle statue sono ancora leggibili circa 90 iscrizioni di persone che nell’antichità avevano udito la statua cantare all'alba. Una di queste riveste una certa importanza in quanto fu incisa da Giulia Balbilla, che visitò l'Egitto con la corte dell'imperatore Adriano. I numerosi viaggiatori greci che si recavano apposta in Egitto per assistere al fenomeno, non sapendo che le statue rappresentavano un antico faraone, pensarono che fossero dedicate all'eroe della guerra di Troia, il re etiope Memmone che, dopo aver partecipato coraggiosamente alla difesa di Troia, venne ucciso da Achille. La madre, Eos, dea dell'alba, ogni mattina piangeva il figlio morto, il suono prodotto dalla statua venne quindi interpretato come la risposta del re al pianto della madre.Il greco Pausania descrisse così l'evento: <<.........ogni giorno, al sorgere del sole emette un suono, e il suono assomiglia propriamente a quello di una cetra o di una lira, quando si è rotta una corda..........>>. Ne parlarono tra gli altri anche Tacito, che ricorda il “vocalem sonum” e Giovenale, tanto che alla statua vennero attribuiti poteri oracolari. Lo scrittore greco antico Lucio Flavio Filostrato, di Lemmo (272 d.C.), nella sua opera “Vita di Apollonio di Tiana”, racconta che Apollonio e i suoi discepoli rimasero incantati dall'atteggiamento col quale erano scolpite le due statue: <<.......... decantano quest'atteggiamento e l'espressione degli occhi, e la fattura della bocca in atto di parlare.........>>. Questi narrarono di aver udito il canto della statua: <<.........quando, nel momento in cui il raggio del sole cade sulla statua, ciò avviene al suo sorgere.........quando infatti il raggio di sole tocca la bocca di Memmone gli occhi sembrano levarsi splendenti verso la luce, come il plettro sfiora le corde di una lira, pare che chiami fuori da esse una voce e con questo artificio consola la dea del giorno..........sembra alzarsi in onore del sole, come fanno quanti venerano la potenza divina stando eretti........>>. Oggi però i colossi non cantano più, l'ultima notizia di persone che hanno ancora udito il canto della statua risale al 196 d.C. Intorno al 199 d.C. per ordine dell'imperatore romano Settimio Severo, forse per ingraziarsi l’oracolo, ordinò che le stature venissero restaurate. Da allora i “Colossi di Memmone” non hanno più cantato all'alba.
(Fonti e bibliografia:
G. W. Bowersock, “The Miracle of Memnon”, Bulletin American Society of Papyrologists, 1984,
Enrichetta Leospo, Mario Tosi, “Il potere del re il predominio del dio”, Ananke 2005
Annalisa Lo Monaco, Vanillamagazine.it, articolo del 7 marzo 2017
Egittopercaso.net, Web, articolo del 2020
Armin Wirsching, “Transport und Aufrichten der Memnon-Kolosse”, Aegypten und in Rom, 2013
André e Étienne Bernand, “Inscriptions grecques et latines du colosse de Memnon”, Picard 1969
Piero Cargnino
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