"Viaggiatore di Alchimie" così è stato definito Memmo Mancini il proprietario della storica Coloreria Ettore Poggi, dal nome di chi la rifondò nel 1825 sebbene esistesse già al tempo di Caravaggio, la bottega più antica di Roma. Perchè soltanto lui crea straordinarie misture di pigmenti che danno la possibilità ad ogni artista di rendere visibile, tangibile la propria creatività. In questo luogo alchemico sono passati tutti i grandi artisti del Novecento: Morandi e de Chirico, Balthus e Dalí, Capogrossi e Turcato, Cy Twombly e Andy Warhol, Franco Angeli e Mario Schifano, Folon e Guttuso. E poi ancora: Rauschenberg e Jim Dine, Edith Schloss e Beverly Pepper, Toti Scialoja e Titina Maselli, Enrico Castellani e Tano Festa…
Cominciò come garzone di bottega nel 1959, conobbe subito Guttuso che a sua volta gli presentò Balthus, l'allora direttore dell'Accademia di Francia, e con lui arrivarono le prime strane richieste. Balthus chiedeva la fritta di Alessandria, chiamata anche blu egiziano, che esisteva già nel terzo millennio avanti Cristo. La dose corretta dei suoi ingredienti si era persa al tempo dei Romani e per secoli i ricercatori hanno tentato di riprodurre la ricetta con scarsi successi. Oggi il colore che più si avvicina alla fritta è il blu Ercolano. Poi ci fu il bruno di mummia e Memmo trovò in un vecchio libro sui pigmenti che si trattava di una sostanza scura risalente all'Ottocento ottenuta macinando i resti di antichi defunti egizi e le resine che li ricoprivano, e impastandoli con l’olio di lino. Molto amato dai pittori inglesi di epoca vittoriana, fu usato anche da Alma-Tadema, che inorridì quando ne individuò l’origine e insieme a Edward Burne-Jones seppellì in giardino il tubetto con il pigmento. Il bruno di mummia attuale è composto di bitume giudaico e argilla ed è usato ampiamente da Balthus per dipingere le gore di buio da cui emergono le sue fanciulle perverse.
C’erano pittori che cercavano il bianco di ossa e di marmo, il bianco d’uovo, la malta romana, l’impasto che gli antichi facevano per tenere su i muri e Michelangelo ricreò per l’intonaco della Sistina. De Chirico acquistava i pigmenti già macinati, che impastava da solo con olio di papavero e ditargilio, un essiccante in polvere. Chiedeva il giallo indiano, un pigmento antico che in origine veniva dall’India, composto di terra bagnata con l’urina delle vacche nutrite con foglie di mango. Salvador Dalí incaricava Memmo degli impasti, ma dovevano esser fatti con essenza di lavanda. Giorgio Morandi ordinava i pennelli di puzzola, corti e piatti, il rosso di robbia, la terra di Siena bruciata, il bianco d’argento e grandi quantità di terra d’ombra naturale che mescolava al verde smeraldo, al cobalto azzurro, al blu d’oltremare, alla lacca di garanza, per smorzarne le tonalità brillanti. La terra d’ombra aveva la stessa funzione della polvere che l’artista lasciava depositare sulle sue composizioni di vasi e bottiglie per appannarle.
Fino ad arrivare a Mario Schifano che amava gli smalti francesi come quelli che usava Picasso a cui aggiunse la richiesta di smalti industriali usati dai carrozzieri: rosso Guzzi, rosso Gilera, verde Vittoria, blu Fiat, così perfetti che con gli stessi smalti in bombolette spray preparava i velatini per Franco Angeli.
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