IL PROCESSO ALL’IPCA DI CIRIE’
Alexik
L’Industria Piemontese dei Colori di Anilina,
proprietà delle famiglie Ghisotti e Rodano, era attiva dal 1922 per la
produzione di pigmenti a base di ammine aromatiche, potenti cancerogeni vescicali, la cui
pericolosità era stata descritta fin dal 1895 dal chirurgo tedesco Ludwig Rehn.
Nocività note, dunque, già dalla fondazione dell’Ipca,
ma non per questo i padroni adottarono provvedimenti. “I Ghisotti di tutto
questo non se ne dettero per inteso. La loro fabbrica continuò a lavorare come
prima, gli operai erano a mani nude, senza tute, senza maschere. Polvere e
colori impregnavano i loro corpi, avvelenavano le loro vite”.
Nel ’56 la Camera del Lavoro di Torino descriveva la
fabbrica in questo modo: “L’ambiente è altamente nocivo, i reparti di
lavorazione sono in pessime condizioni e rendono estremamente gravose le
condizione stesse del lavoro. I lavoratori vengono trasformati in autentiche
maschere irriconoscibili. Sui loro volti si posa una pasta multicolore,
vischiosa, con colori nauseabondi e, a lungo andare, la stessa epidermide
assume disgustose colorazioni dove si aggiungono irritazioni esterne”.
Non si durava molto là dentro: “Ho
44 anni. Sono sposato e ho un figlio di tre anni. All’Ipca ci sono stato dal
1960 al 1962. Lavoravo nel magazzino delle materie prime. Per non sentirci
male, ogni tanto scappavamo fuori a prenderci un po’ di fiato. L’anno scorso, a
distanza di 15 anni da quando sono uscito da quell’inferno, ho incominciato a
orinare sangue.”
Intervistato sulle condizioni in
fabbrica, Silvio Ghisotti rispondeva al giornalista: “Lei mi
insegna, che nulla è più dannoso per un’industria che gettar via soldi
inutilmente”. Parole di uno che sente di non aver nulla da temere. Non dal
Comune di Ciriè, che nel ’67 cazziò violentemente gli operai che avevano
chiesto aiuto al gruppo consiliare del PCI. Non dalla Provincia, che smarrì
distrattamente la denuncia inviatale dalla Commissione Interna. Non dall’Inail,
né dall’Ispettorato del Lavoro, che negò di aver mai fatto controlli, a fronte
di più di un centinaio di morti. Né dal medico di fabbrica, che prescriveva
agli operai che pisciavano rosso di bere meno vino e più latte. In
compenso l’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Torino, pubblicò
un ricerca allarmante sui tumori all’Ipca … ma senza dire, per ‘riservatezza’,
il nome della fabbrica.
Gli operai capirono che dovevano fare da soli. Nel
1968 due di loro, Albino Stella e Benito Franza si licenziarono. Per qualche
anno girarono tutti i cimiteri della zona, annotando i nomi dei compagni morti.
Ne trovarono 134, e decisero che erano abbastanza.
Dovevano sbrigarsi a fare denuncia: anche loro erano
dei “pissabrut“, dei “pisciarosso”, come venivano chiamati i condannati
dell’Ipca. La loro inchiesta fu alla base dell’apertura del processo, che
riguardò 37 casi di morte avvenuta e 27 di grave malattia in corso. Tutti
gli altri omicidi erano andati in prescrizione, o amnistiati.
Benito Franza non arrivò alla
sentenza, ma fece in tempo a lasciare testimonianza : “Mi sono impiegato
all’Ipca, come primo lavoro, nel 1951. Ero addetto alla produzione di
betanaftilamina, e usavo materiali che mi hanno fatto venire, come ho saputo 15
anni dopo, il cancro alla vescica. Lavoravo in questo modo e mi risulta che
anche adesso i metodi non siano cambiati: con una paletta a manico corto
prelevavo il beta naftolo in polvere e caricavo così, insieme ad altri
elementi, un’autoclave, si passava quindi alla cottura e poi svuotavo
l’autoclave immettendo la miscela bollente in appositi filtri sistemati
all’aperto vicino ai reparti. Durante tutta l’operazione la miscela bollente
entrava a contatto con l’aria e sollevava una gran nube di vapore velenoso che
passava in tutti i reparti, e che veniva respirato da tutti gli operai, i quali
si sono ammalati tutti come me e continuano anche adesso a d ammalarsi perché
nessuno della fabbrica dice loro niente”.
E testimoniarono anche altri: “Gli operai usano
tute di lana (che si procurano in proprio perché il padrone non fornisce
niente) in quanto la lana è l’unico tessuto che assorbe gli acidi senza
bruciarsi… anche i piedi li avvolgevamo in stracci di lana, e portavamo tutti
zoccoli di legno, altrimenti con le scarpe normali ci ustionavamo i piedi. I
topi che entravano morivano con le zampe in cancrena. I topi non portano
zoccoli“.
“Quelli che lavorano ai mulini dove vengono
macinati i colori orinano della stessa tinta dei colori lavorati (blu, giallo,
viola, ecc) fin quando non si comincia ad orinare sangue“.
“Quando lavoravo lì, c’era un paio di guanti in
tutto per sei persone addette. Mi sono bruciato parecchie volte e ho ancora le
cicatrici sulle mani“.
“I colori e gli acidi che si sprigionano corrodono
tutto, anche le putrelle del soffitto sono tutte corrose; figuriamoci i nostri
polmoni, il nostro fegato, le nostre vie urinarie“.
“In tutta la fabbrica ci sono solo alcuni
aspiratori collocati sopra i tini dove viene fatto cuocere il materiale, ma non
aspirano tutto. Evitano soltanto che si muoia subito e ci permettono di morire
con un po’ più di calma. Una volta un aspiratore si è fermato e le 15 persone
che erano nel reparto sono cadute in terra intossicate, e abbiamo dovuto
salvrle portandole fuori“.
“Il veleno lo mangiavamo anche a pranzo perché non
c’era un luogo un po’ pulito dove potessimo mangiare la roba che ci portavamo
da casa e che si impregnava di quegli acidi. Mai nessuno ci ha detto niente e
noi non sapevamo che il nostro destino era segnato. In fabbrica c’era un medico
ed un infermiere, ma in sei anni e più che ho lavorato non mi hanno mai
avvertito del pericolo che correvo. Il medico mi chiedeva solo se fumavo, se
bevevo, se mangiavo, e ogni volta mi diceva di mangiare di meno se gli dicevo
di mangiare molto, di bere di più se gli dicevo che bevevo poco. Una volta
che sono svenuto mente mi trovavo al gabinetto, mi ha misurato la pressione, e
siccome era bassa, invece di avvertirmi che era colpa dell’ammoniaca, mi ha
detto solo di mangiare di più.”
“Me ne sono andato dall’IPCA senza rendermi conto
che il mio destino era segnato. I primi disturbi si verificarono nel novembre
del 1966, con forti dolori addominali e fitte al basso ventre. La mia
situazione attuale è la seguente: ho moglie e due figli. Non posso più fumare e
bere, ho sempre dolori e devo restare sempre in cura. Anche questo però mi
servirà a poco perché prima o poi morirò anch’io di cancro. Ma almeno so di che
cosa morirò, e non come tanti altri compagni, morti di cancro, e che risultano
essere morti di collasso cardiaco o polmonite“.
“Ora, ripensando a quei tempi, mi rendo conto
perché durante la lavorazione non c’erano mai i grandi capi o i padroni.
Perché loro sapevano il rischio mortale che si correva a manipolare la
betanaftilamina“.
“Sono stato male sin dai primi tempi di lavoro
presso l’IPCA. Tra il 1959 e il 1972 ho subito cinque ricoveri ospedalieri.
Ricordo che una volta, nel mio reparto, venne a curiosare il figlio del dott.
Graziano, chimico responsabile dell’IPCA. Questi, presenti io e altri due
operai, vedendo il figlio che si avvicinava troppo a noi, mentre lavoravamo
betanaftilamina, si allarmò e gli disse: “Togliti di lì, che quella roba fa
venire il cancro“.
“Sulle mie lenzuola e sul cuscino conservo ancora
l’impronta del corpo di mio marito. Infatti, pur lavandosi e facendosi il bagno
prima di coricarsi, la notte tutti quei colori che aveva in corpo uscivano,
trapassavano il pigiama e le lenzuola rimanevano impregnate… Dormendogli
accanto, sentivo un forte odore acido emanato dal suo respiro...”
Durante la prima udienza – ricorda l’avvocato di parte
civile Bianca Guidetti Serra – il pubblico era così folto che si dovette
cambiare aula. Venne accolta per la prima volta (e fece precedente) la
costituzione del sindacato come parte civile in una causa per omicidi bianchi,
e solo poche famiglie accettarono il risarcimento offerto dai Ghisotti per
chiudere il contenzioso. La maggior parte resto’ dentro il processo. Spesero
molto, i Ghisotti, negli onorari dei principi del foro, nelle perizie di
illustri scienziati, ma non bastò ad evitare le condanne per omicidio e lesioni
colpose (con pene fino ai sei anni in primo grado, lievemente attenuate in
appello) di quattro dirigenti e del medico di fabbrica. Un altro precedente
giuridico, perché per le morti per malattia professionale non era mai successo.
In quell’occasione, gli avvocati delle parti civili
destinarono i propri onorari alla costituzione della “Fondazione Benito
Franza”. Era nello stile di Bianca evitare di arricchirsi col mestiere.
Fonti:
- Breve storia dell’Ipca. Come nasce una fabbrica della morte, in “Lotta Continua”, n. 11, 1978, p.6.
- Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p.116.
- Tecnici e classe operaia, in “Lotta Continua”, 23 giugno 1978, p. 10.
- INAS-CISL (a cura di),La fabbrica descritta dagli operai. Il caso IPCA, Almeno so di cosa morirò, Torino, 1973.
- Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009, p. 268.
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