di Silvia Ronchey - 07/05/2008
del platonismo antico alla teologia dell’icona che
caratterizzò per tutto il Medioevo il mondo bizantino.
Secondo Ronchey, il cristianesimo non segnò una cesura nella concezione della bellezza così come fu sintetizzata dal platonismo nell’espressione kalokagathòs (bello e buono), una bellezza che è espressione di un ordine insieme interiore all’uomo e superiore ad esso, cioè divino. Nella teologia bizantina questa idea della bellezza fu perpetuata dai modi di rappresentazione della figura umana altamente simbolici e stilizzati: l’icona rappresenta il superamento della bellezza esteriore attraverso l’unione con la bellezza divina.
Non c’è bisogno di leggere la Repubblica di Platone, e neppure il Fedro o il Simposio, per sapere che secondo gli antichi greci la bellezza e la bontà erano la stessa cosa. Anzi, la stessa parola. C’è una specifica espressione in greco, kalokagathòs, «bello e buono», per esprimere la loro indissolubilità. Più propriamente, nella teologia globale degli antichi che oggi diciamo platonica, la bontà è la forma interiore, la bellezza la forma esteriore di quello che metafisicamente può definirsi il bene o anche la divinità. Ma che possiamo, se siamo belli, e cioè buoni, o buoni, e cioè belli, trasferire nel mondo empirico.
Questo indissolubile legame tra la sfera estetica e quella etica, proprio della teologia pagana, verrà, si dice, spezzato, nella storia del pensiero antico, dal cristianesimo. Che produrrà, si dice, un divorzio tra i due princìpi e sarà responsabile di alcuni pregiudizi ancora oggi presenti nella nostra cultura. Per esempio, che una grande bellezza fisica escluda un’interiorità intellettuale profonda.
Non è vero. Il cristianesimo ha anzi sviluppato e proseguito, per vie sempre più alte e impervie, la concezione platonica, l’ha traghettata fino alla modernità. L’identità tra la sfera etica e quella estetica si è perpetuata a tal punto, nel pensiero greco e bizantino, che la rispecchia l’evoluzione stessa della lingua: quella parola kalòs, che nel greco classico significava «bello», ha cominciato a significare, e ancora oggi in greco moderno significa, «buono». Ed è proprio lo sviluppo della concezione platonica a Bisanzio, e in particolare il suo esito in ciò che chiamiamo la teologia dell’icona, a spiegare meglio la frase di Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo».
Questo era già, in un certo senso, il principio fondamentale dell’estetica bizantina. Per i padri della Chiesa ortodossa, l’icona di per sé salva, porta verso l’alto e la luce, è l’interfaccia tra il visibile e l’invisibile e la dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a contatto.
Ora, nell’icona la figura umana viene reinventata. I tratti sono asciugati e privi di sensualità. La fisionomia della persona ritratta nell’icona è esattamente il contrario di quella apprezzata dalla comune umanità vivente. Che sia uomo o donna, il naso è lungo e ossuto, la bocca piccola. [...]. È un viso ascetico, anoressico, con qualcosa di lievemente mortuario nelle occhiaie profonde, nell’evidenza delle ossa sotto la pelle sottile. Un viso su cui la lotta dell’esistenza, le convulsioni dell’intelligenza, gli spasmi dell’insonnia hanno lasciato traccia. Per questo non mancano mai, nelle icone, le rughe, supremo segno di bellezza. Il volto di un’icona non sarà mai liscio, perché esprime un ideale che è esattamente il contrario di quello perseguito nelle nostre icone contemporanee, dal cinema, dalla pubblicità: esprimere il superamento del mondo esterno, il valore di un’interiorità conquistata calandosi nel mistero che trascende la carne ma è immanente alla psiche.
Ma non è forse proprio questa la visione che Platone aveva della bellezza? Non era forse proprio Platone a mettere in guardia dalle immagini che della bellezza umana davano i suoi contemporanei? A condannare, anzi, l’immagine, scorgendovi una deviazione da ciò cui l’anima umana deve tendere, dalla bellezza dell’iperuranio, da quella bellezza assoluta che è anche bontà?
Tutto sta a intendersi, dunque, su cosa sia la bellezza, anche proprio fisica, secondo quell’unica teologia globale degli antichi che si protrae lungo il millennio bizantino e si cristianizza nelle forme più alte della speculazione. [...] La bellezza anche fisica di cui parla il platonismo, quando la identifica con la bontà, è quella che oggi manca di più al mondo: la bellezza interiore che si presenta nell’immagine esteriore (in greco eikone) di un volto o di un corpo umano agli occhi che la sanno cogliere. Non la bellezza patinata, ridotta alla propria superficie e dunque alla superficialità, ma la bellezza come espressione di un ordine insieme interiore e superiore. Quando parliamo oggi di «cosmetica», spesso proprio in associazione alla falsa bellezza celebrata dai media, a quella che James Hillman ha chiamato la «pornografizzazione di Afrodite», spesso dimentichiamo che quella parola viene dal greco kosmos, l’«ordine» che per definizione accomuna e unisce l’interiorità individuale alla legge del mondo in un’armonia che è anche sensibile, estetica. [...] La bellezza come giustizia, intesa cioè [...] come adeguatezza, giusta collocazione, ordine; e la giustizia come suprema bellezza. Non è un caso che anche lei sia compresa nella triade essenziale: non solo la bontà ma anche la giustizia compongono il paradigma della vera bellezza, completando quell’identificazione tra sfera estetica e sfera etica che tutto il pensiero antico, anche quello cristianizzato, non farà che riaffermare.Come scrive Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu eri dentro e io ero fuori e là ti cercavo».
Secondo Ronchey, il cristianesimo non segnò una cesura nella concezione della bellezza così come fu sintetizzata dal platonismo nell’espressione kalokagathòs (bello e buono), una bellezza che è espressione di un ordine insieme interiore all’uomo e superiore ad esso, cioè divino. Nella teologia bizantina questa idea della bellezza fu perpetuata dai modi di rappresentazione della figura umana altamente simbolici e stilizzati: l’icona rappresenta il superamento della bellezza esteriore attraverso l’unione con la bellezza divina.
Non c’è bisogno di leggere la Repubblica di Platone, e neppure il Fedro o il Simposio, per sapere che secondo gli antichi greci la bellezza e la bontà erano la stessa cosa. Anzi, la stessa parola. C’è una specifica espressione in greco, kalokagathòs, «bello e buono», per esprimere la loro indissolubilità. Più propriamente, nella teologia globale degli antichi che oggi diciamo platonica, la bontà è la forma interiore, la bellezza la forma esteriore di quello che metafisicamente può definirsi il bene o anche la divinità. Ma che possiamo, se siamo belli, e cioè buoni, o buoni, e cioè belli, trasferire nel mondo empirico.
Questo indissolubile legame tra la sfera estetica e quella etica, proprio della teologia pagana, verrà, si dice, spezzato, nella storia del pensiero antico, dal cristianesimo. Che produrrà, si dice, un divorzio tra i due princìpi e sarà responsabile di alcuni pregiudizi ancora oggi presenti nella nostra cultura. Per esempio, che una grande bellezza fisica escluda un’interiorità intellettuale profonda.
Non è vero. Il cristianesimo ha anzi sviluppato e proseguito, per vie sempre più alte e impervie, la concezione platonica, l’ha traghettata fino alla modernità. L’identità tra la sfera etica e quella estetica si è perpetuata a tal punto, nel pensiero greco e bizantino, che la rispecchia l’evoluzione stessa della lingua: quella parola kalòs, che nel greco classico significava «bello», ha cominciato a significare, e ancora oggi in greco moderno significa, «buono». Ed è proprio lo sviluppo della concezione platonica a Bisanzio, e in particolare il suo esito in ciò che chiamiamo la teologia dell’icona, a spiegare meglio la frase di Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo».
Questo era già, in un certo senso, il principio fondamentale dell’estetica bizantina. Per i padri della Chiesa ortodossa, l’icona di per sé salva, porta verso l’alto e la luce, è l’interfaccia tra il visibile e l’invisibile e la dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a contatto.
Ora, nell’icona la figura umana viene reinventata. I tratti sono asciugati e privi di sensualità. La fisionomia della persona ritratta nell’icona è esattamente il contrario di quella apprezzata dalla comune umanità vivente. Che sia uomo o donna, il naso è lungo e ossuto, la bocca piccola. [...]. È un viso ascetico, anoressico, con qualcosa di lievemente mortuario nelle occhiaie profonde, nell’evidenza delle ossa sotto la pelle sottile. Un viso su cui la lotta dell’esistenza, le convulsioni dell’intelligenza, gli spasmi dell’insonnia hanno lasciato traccia. Per questo non mancano mai, nelle icone, le rughe, supremo segno di bellezza. Il volto di un’icona non sarà mai liscio, perché esprime un ideale che è esattamente il contrario di quello perseguito nelle nostre icone contemporanee, dal cinema, dalla pubblicità: esprimere il superamento del mondo esterno, il valore di un’interiorità conquistata calandosi nel mistero che trascende la carne ma è immanente alla psiche.
Ma non è forse proprio questa la visione che Platone aveva della bellezza? Non era forse proprio Platone a mettere in guardia dalle immagini che della bellezza umana davano i suoi contemporanei? A condannare, anzi, l’immagine, scorgendovi una deviazione da ciò cui l’anima umana deve tendere, dalla bellezza dell’iperuranio, da quella bellezza assoluta che è anche bontà?
Tutto sta a intendersi, dunque, su cosa sia la bellezza, anche proprio fisica, secondo quell’unica teologia globale degli antichi che si protrae lungo il millennio bizantino e si cristianizza nelle forme più alte della speculazione. [...] La bellezza anche fisica di cui parla il platonismo, quando la identifica con la bontà, è quella che oggi manca di più al mondo: la bellezza interiore che si presenta nell’immagine esteriore (in greco eikone) di un volto o di un corpo umano agli occhi che la sanno cogliere. Non la bellezza patinata, ridotta alla propria superficie e dunque alla superficialità, ma la bellezza come espressione di un ordine insieme interiore e superiore. Quando parliamo oggi di «cosmetica», spesso proprio in associazione alla falsa bellezza celebrata dai media, a quella che James Hillman ha chiamato la «pornografizzazione di Afrodite», spesso dimentichiamo che quella parola viene dal greco kosmos, l’«ordine» che per definizione accomuna e unisce l’interiorità individuale alla legge del mondo in un’armonia che è anche sensibile, estetica. [...] La bellezza come giustizia, intesa cioè [...] come adeguatezza, giusta collocazione, ordine; e la giustizia come suprema bellezza. Non è un caso che anche lei sia compresa nella triade essenziale: non solo la bontà ma anche la giustizia compongono il paradigma della vera bellezza, completando quell’identificazione tra sfera estetica e sfera etica che tutto il pensiero antico, anche quello cristianizzato, non farà che riaffermare.Come scrive Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu eri dentro e io ero fuori e là ti cercavo».
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