mercoledì 8 agosto 2018

La fabbrica dei tumori Marlene di Praia a Mare



Processo Marlane, nuova inchiesta sulla fabbrica dei veleni di Praia a mare

 Risultati immagini per marlane la fabbrica dei tumori in calabria

A sedici anni dalla chiusura dello stabilimento di proprietà dei Marzotto, aperto un nuovo fascicolo con sette indagati. Sono tutti già imputati nel processo d'appello che si sta celebrando a Catanzaro per la morte di 107 operai, ma per la procura sarebbero responsabili anche di altri decessi
REGGIO CALABRIA - C’è una nuova inchiesta sulla morte degli operai della Marlane di Praia a mare, nel cosentino. Per i calabresi, lo stabilimento che per un paio di decenni ha prodotto lenzuola, tovaglie e fazzoletti è stata e sarà la fabbrica dei veleni, responsabile della morte di almeno 107 operai, uccisi da neoplasie e tumori di diverso tipo. Ma a sedici anni dalla chiusura dello stabilimento di proprietà dei Marzotto, storica famiglia di industriali veneti, non ci sono responsabili per quei decessi.
Nella gestione della fabbrica entrarono anche dei gesuiti che gestivano i rapporti fra padronato e operai, come cigliegina sulla torta della morte.......

Tre inchieste della magistratura di Paola hanno tentato di provare a livello giudiziario che tumori e neoplasie sono stati provocati dalle sostanze tossiche sprigionate dai coloranti e dalla polvere di amianto rilasciata dalla consunzione dei freni dei telai. Per adesso, senza successo. La prima indagine non è arrivata neanche a giudizio. La seconda e la terza, riunite poi in un unico procedimento, hanno portato a processo 11 persone, incluso il patron del gruppo, Pietro Marzotto, e i responsabili dello stabilimento, Carlo Lomonaco ed Attilio Ruisse. Tutti accusati a vario titolo di disastro ambientale, omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime e tutti assolti in primo grado per insufficienza di prove.

Adesso sono tutti in attesa della sentenza d’appello, ma solo per tre di loro è stata chiesta una condanna. “Senza una nuova consulenza tecnica - ha denunciato il procuratore generale di Catanzaro, Salvatore Curcio, nel corso della sua requisitoria - devo chiedere, mio malgrado, di confermare per gli altri imputati la sentenza di assoluzione emessa in primo grado dal Tribunale di Paola". Un giudizio viziato – ha lamentato più volte il magistrato – dalla mancanza di una nuova perizia tecnica sul nesso di causalità fra condizioni di lavoro e lo sviluppo di malattie tumorali o neoplastiche. Una lacuna che adesso potrebbe essere colmata.

La nuova inchiesta. Per i magistrati, i morti della Marlane sono di più. Per questo è stato aperto un nuovo fascicolo, coordinato dal procuratore capo Pierpaolo Bruni, adesso approdato di fronte al giudice dell’udienza preliminare. Gli indagati sono sette - Vincenzo Benincasa, Salvatore Cristallino, Ivo Comegna, Carlo Lomonaco, e Attilio Ruisse, insieme agli ex consiglieri delegati della Marzotto spa, Silvano Stoner e Ernesto Antonio Favrin-  tutti già imputati nel processo d’appello che si sta celebrando a Catanzaro.

Ma per la procura devono rispondere di altri decessi. Anche più di quelli emersi nel corso delle precedenti indagini. Il numero sarà determinato con precisione da due nuove perizie tecniche disposte dal gip. Grazie a nuovi scavi e carotaggi nell’area dell’ex stabilimento tessile saranno prelevati nuovi campioni di terreno e altro materiale. Sulla base delle nuove analisi, una nuova perizia medica dovrà stabilire l’eventuale nesso di causalità tra le sostanze rilevate e l’insorgenza di malattie neoplastiche e tumorali. Approfondimenti tecnici che fanno sperare i pochi lavoratori sopravvissuti e le famiglie dei tanti già deceduti. Ma non di tutti.
Per i sindacati, le prime morti causate dalla Marlane risalgono ai primi anni Sessanta, ma su di loro è caduta l’ombra della prescrizione, che si allunga fino alla metà degli anni Novanta. Da allora alla dismissione dello stabilimento, la fabbrica avrebbe ucciso e fatto ammalare un numero imprecisato di persone.

La storia. Fondata negli anni ’50 dal conte Rivetti, l’azienda per decenni è stata una delle poche speranze di lavoro in una zona piegata dalla disoccupazione. Anche per questo, per anni nessuno ha mai fiatato. Nessuno ha protestato neanche quando nel ’69, con il passaggio dello stabilimento all’Eni – Lanerossi, di cui il gruppo Marzotto era parte, sono stati riuniti in un unico ambiente di lavoro tutti i reparti, inclusa la tintoria. E senza aspiratori funzionanti, ricordano le famiglie dei lavoratori. I fumi saturi di sostanze chimiche della coloritura si trasformavano in una nube permanente, respirata dagli operai. Che ricevevano a fine giornata solo una busta di latte per disintossicarsi. Ma in fabbrica c’era anche amianto, denunciano i sindacati , smentendo l’azienda che ha sempre sostenuto di non averlo mai usato. “I telai avevano freni con le pastiglie d’amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere respirata da tutti”.

Solo negli anni Novanta, dopo il passaggio dello stabilimento interamente in mano alla Marzotto, sono state introdotte alcune misure di sicurezza. Poche e cosmetiche, dicono da sempre i lavoratori e le loro famiglie. Fusti e scarti invece per lungo tempo sono stati probababilmente smaltiti nell’area circostante. Grazie agli scavi disposti dalla procura, sono stati rinvenuti in prossimità del mare numerosi bidoni contenenti rifiuti tossici. Da analisi tecniche, l’intera area è risultata contaminata da cromo, nichel, piombo, zinco e arsenico. Al momento però, pare che nessuno sia responsabile.

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