domenica 17 febbraio 2019
Il Taj Mahal: amore, esoterismo religioni
Si tratta del più famoso mausoleo mai edificato. Lo volle il Gran Mogol per onorare l’Amore che aveva condiviso con la sposa defunta. Le sue dimensioni sono imponenti, ma le sue perfette proporzioni lo fanno apparire racchiuso in uno spazio apparentemente molto più piccolo del reale. C’è in questo un preciso insegnamento esoterico, che da un particolare senso di bellezza e prospettiva anche all’incessante lavoro dei massoni per la “costruzione” del loro ideale Tempio Interiore alla virtù. Il tragico destino dello stesso Gran Mogol e degli uomini che lavorarono alla sua costruzione.
Una breve premessa,solo per precisare che non sono mai stato in india. E, di conseguenza, non ho mai visto di persona il Taj-Mahal. Potrà quindi apparire presuntuoso trattare di un tema che si conosce solo di riflesso.
Il fatto è che questo monumento ha da sempre suscitato il mio interesse fondamentalmente per 2 motivi: la purezza e la bellezza architettonica. E soprattutto la motivazione della sua realizzazione che ritengo essere un esempio significativo di come l’uomo dia il meglio di sè quando il suo animo è guidato da un sentimento di amore, più che da ideologie legate a questa o quella fede politica o questa o quella fede religiosa.
Nell’India settentrionale, tra lussureggianti campi coltivati e bufali di palude, scorre pigramente un fiume fangoso che bagna la città di Agra. Il clima è caldo-umido, afoso e non di rado si formano piatti strati di nebbia che aleggiano sulla sterminata pianura.
In questo scenario, già di per sé tendente al surreale, sorge un bianco gioiello, racchiuso in un castone di scuri cipressi, che riflette il suo caratteristico profilo nelle acque di una stretta, interminabile vasca.
Si tratta probabilmente del più famoso mausoleo mai edificato: le sue dimensioni sono imponenti ma, le sue perfette proporzioni e l’eleganza dei quattro minareti che lo circondano, lo fanno apparire, all’occhio del visitatore, come una entità compatta e racchiusa in uno spazio molto inferiore al reale.
Questo è un primo aspetto esoterico legato al Taj Mahal: se è vero che le umane emozioni possono essere analizzate razionalmente e la fisiologia le riconduce a trasmissioni chimiche dei nostri emisferi cerebrali, la persona che visita per la prima volta questo monumento pare subisca un vero bombardamento alchemico emozionale, che va dalla illusione ottica che il Taj sia piccolo e lontanissimo, fino alla illusione opposta: l’edificio sembra crescere a dismisura, mano a mano che ci si avvicina, finchè, raggiunta la base, esso appare colossale. La cupola, in particolare, sembra espandersi come se venisse lentamente gonfiata.
C’è poi un’altra sensazione carica di contenuti surreali che accompagna il visitatore, quando è ancora lontano dal sito: a causa della semplice cinta muraria di mattoni rossi e probabilmente a causa pure delle frequenti nebbie, il nostro mausoleo sembra sorgere, come per magìa, sospeso nel nulla.
Anche il colore abbagliante dei suoi marmi contribuisce a creare un’aura di profondo misticismo: al chiaro di luna e alla luce dell’alba si tinge di azzurro pallido; nella calura di mezzogiorno diventa di madreperla mentre al crepuscolo si ammanta di rosa e oro.
Quali sono le origini di questo “monumento all’amore” che viene universalmente considerato tra le meraviglie del mondo?
I sei imperatori della dinastia Mogul regnarono sull’India, in successione ininterrotta, di padre in figlio, per circa 200 anni a partire dai primi del 1500, benché l’assenza di una legge di primogenitura spesso rendesse sanguinosa la disputa per il trono.
Il quinto Gran Mogol si chiamava Shah Jahan e, come i suoi predecessori, era di indole crudele e sanguigna, degno discendente di Tamerlano e Gengis Khan (la stirpe “Mogul” infatti deriva da “mongolo”).
Questi musulmani approdarono in India dal Nord e, benchè in svantaggio numerico, si imposero rapidamente come conquistatori in una terra dominata dall’induismo; iniziò così la difficile coabitazione tra un Islam in prepotente espansione e questa seconda fede religiosa più supina e contemplativa, con la presenza peraltro di un Cristianesimo che pure aveva trovato in India un suo radicamento, tanto che il predecessore di Shah Jahan fu più volte sul punto di convertirvisi.
In questo scenario di tensioni religiose, il futuro imperatore è fortemente impegnato a combattere i nemici dello Stato e della sua religione, ad erigere torri che adorna con le loro teste mozzate e, nei momenti della vita di corte, ama passatempi quali la caccia alla tigre, il combattimento tra elefanti o i piaceri dell’harem.
Tutto ciò fin quando incontra una giovane donna bellissima e se ne innamora perdutamente; lei si chiama Mumtaz Mahal. La storia d’amore è bella e romantica, il padre regnante dà l’assenso al matrimonio, che durerà 19 anni, durante i quali Shah Jahan diventa il quinto Gran Mogol ed ha dalla moglie 14 figli, di cui solo 7 sopravvivono.
Nel frattempo si cementa e si consolida sempre più l’amore del sovrano, ricambiato da questa donna straordinaria.
L’ultima gravidanza però è fatale e lei muore, lasciando il marito nella disperazione più profonda.
Le leggende dicono che l’imperatrice morente gli sussurrasse, tra le ultime volontà, di edificare per lei un monumento le cui proporzioni fossero talmente perfette e la cui purezza di linee fosse tale che chiunque vi si trovasse al cospetto avrebbe intimamente provato un po’ dell’eterno miracolo dell’amore, e, purtroppo, della sua caducità.
La leggenda ovviamente non ha testimoni ma di sicuro c’è che nell’imperatore avviene un profondo cambiamento: non lo interessa più la fede coranica, né l’Induismo e nemmeno il Cristianesimo, non ci sono più i nemici dello Stato da combattere né gli amati passatempi di corte, ora ha una missione prioritaria cui adempiere. Lo stesso anno fa affluire ad Agra i migliori progettisti, operai e decoratori. Vengono quindi gettate le fondamenta del Taj Mahal, che viene completato in 22 anni impiegando circa 20.000 abili muratori.
Non sappiamo con certezza quale fu il geniale architetto che progettò il mausoleo perché i documenti ufficiali tacciono in merito; è come se il suo nome sia stato cancellato per sempre dai biografi del Gran Mogol. Le ipotesi più accreditate sono quelle di un architetto turco, Ustad Isa, forse scelto in quanto anche lui reduce da una recente vedovanza e di un orafo veneziano, Geronimo Veroneo ma, ancora una volta, si inserisce la leggenda che vuole che il sovrano, stupefatto dalla grandiosità della creazione appena ultimata, per dimostrare tangibilmente la sua approvazione, fece tagliare le mani ai capimastri, accecare i decoratori e decapitare l’architetto, affinché nessuno di loro potesse più riprodurre un edificio come quello.
Questa nota, per la verità un po’ sinistra, ci porta a considerare che, al termine di un periodo luminoso di apogeo artistico, terminato un grande capolavoro, c’è sempre l’evento catartico del sacrificio rituale per preservarne l’unicità e quindi amplificare la sua importanza.
E’ evidente il parallelismo con il mito di Hiram, re di Tiro, che venne chiamato da Salomone, in qualità di maestro esperto nella costruzione del Tempio e qui venne assassinato da un compagno d’arte.
Una personale riflessione è che, ogni qualvolta noi, Fratelli liberi muratori, ci riuniamo tra le colonne, troviamo sopra di noi la costellata volta celeste: il Tempio non è terminato, periodicamente aggiungiamo tre o più mattoni ma l’opera è in perenne divenire in quanto il cammino dell’uomo può solo tendere alla perfezione, mentre quest’ultima appare improbabile in termini di capolinea d’arrivo.
Nel caso del Taj Mahal, forse la perfezione è stata raggiunta, ma proprio per questo esiste un seguito malinconico della nostra storia: terminato il suo adorato Tempio, il sovrano regnò ancora sull’India per qualche anno finalmente di serenità e di pace, in attesa però della incombente, inevitabile, tragica conclusione.
Il figlio Aurangzeb, ultimo della dinastia Mogul, ormai avviata ad una fine decadente, dopo essersi liberato più o meno violentemente dei propri fratelli, fa imprigionare il padre in una fortezza dalle cui finestre gli era ancora possibile vedere in lontananza il suo gioiello bianco. Otto anni dopo, all’età di 74 anni, si spegne.
Quando, tra le colonne, contribuiamo laboriosamente alla costruzione del nostro ideale Tempio alla virtù e ci auguriamo in chiusura, tra l’altro, che la luce della bellezza rimanga nei nostri cuori, mi piace pensare ad un edificio dalle linee leggere ed eleganti, come quelle del Taj Mahal.
G:. P:.
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