domenica 17 febbraio 2019

l'artefice del Taj Mahal sembra quasi sicuro sia stato il veneziano (più che veneziano veronese!) Jeronimo Veroneo

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Sono molte le ipotesi (e le leggende) intorno all'architetto del Taj Mahal: alcune portano in Europa e suggeriscono un artefice veneziano (l'orafo Jeronimo Veroneo) o francese (l'argentiere Austin de Bordeau). Nessun documento dell'epoca indica il nome del progettista del mausoleo ma, secondo l'ipotesi più accreditata, il complesso sarebbe stato concepito dall'architetto persiano Ustad Isa Khan Effendi, che ne avrebbe poi delegato l'esecuzione al suo allievo e architetto di corte Ustad Ahmad Lahori. E' probabile che il mausoleo sia opera non di un uomo solo ma di un gruppo di esperti coordinati personalmente dall'imperatore, che studiò e diresse i progetti, imponendo modifiche con una passione che si potrebbe definire maniacale.

Risultati immagini per taj mahal interno Sembra invece sicuro che l'artefice del Taj Mahal sia il veneziano Jeronimo Veroneo l'orientalista Giuseppe Tucci, che si basa sulla testimonianza del padre agostiniano Sebastian Manrique. Riporto da Pionieri italiani in India (Giuseppe Tucci, Asiatica, 1936)...


Una fonte abbastanza moderna contenuta in certi manoscritti persiani ed accettata senza ulteriore verifica dai custodi ereditari del Taj attribuisce il disegno del monumento ad un maestro Isa, mentre altri documenti più antichi parlano di un cristiano di Rum, cioè d’occidente, con lo stipendio di 1000 rupie. A queste notizie l’una tarda e l’altra che sembra indicare chiaramente un autore europeo si riduce tutta quanta la tradizione indigena: contro la quale noi possiamo opporre la testimonianza proprio di un contemporaneo, il padre agostiniano Manrique, il quale andò in India nel 1629 e nel suo Itinerario de las missiones orientales, parlando del Taj, dice proprio così: «L’architetto di queste costruzioni fu un veneziano di nome Geronimo Veroneo, il quale era giunto qui in un battello portoghese ed era morto nella città di Lahore proprio prima che io vi giungessi. L’imperatore Corrombo gli dava un altissimo salario, ma si dice che egli fu incurante del danaro tant’è vero che quando morì, il padre Giuseppe da Castro, un lombardo della società di Gesù, gli trovò molto meno di quanto si credeva. La fama, questa celere messaggera di buone e cattive notizie, ha diffuso la voce che l’Imperatore lo chiamò a sé e gli fece sapere che desiderava erigere alla morta moglie una tomba grande e sontuosa ed egli fu richiesto di tracciare perciò alcuni disegni da sottomettere all’Imperatore. L’architetto Veroneo eseguì questo ordine ed in pochi giorni diè prova della grande abilità ch’egli possedeva nella sua arte, mostrando diversi modelli della più bella architettura». Abbiamo dunque la testimonianza di un contemporaneo, sempre esattissimo nelle sue informazioni, restato per 26 giorni ad Agra ospite dei gesuiti che si trovavano in quella città ininterrottamente dal 1595 ed erano sempre stati in ottimi rapporti con la corte: suo informatore principale in Lahore fu proprio il De Castro che era stato l’esecutore testamentario del Veroneo.

Tutte notizie dirette dunque che la recente fonte persiana, la quale del resto non sappiamo se voglia proprio parlare del Capomastro o del disegnatore, non basta certo a contraddire. Dirò di più: la stessa data della morte dell’artista riferita dal Manrique trova conferma nell’iscrizione sepolcrale che copiai con commossa trepidazione ad Agra e che nella sua fredda brevità contiene il mistero di una vita: «Aqui jaz Jeronimo Veroneo; faleceo em Lahor 2 d’Agosto de 1640». Del resto la fama di lui come artista e gioielliere di gran talento viene celebrata da altri viaggiatori, dall’inglese Peter Mundy al veneziano Mannucci, che fu ora ufficiale d’artiglieria ora medico al servizio di Shahjahan e morì pensionato dalla compagnia delle Indie a Madras. Costoro non dicono di lui come autore del Taj, è vero, ma solo come orafo celebratissimo, ma questo argumentum a silentio non basta a battere in breccia la testimonianza del Manrique, tanto meno quando si ricordi che in tutta la vasta opera del Mannucci il Taj non viene neppure una volta ricordato.

Il Manrique era capitato ad Agra quando il Taj era in via di costruzione e vivo si serbava il ricordo del suo autore, da poco trapassato, cui il fato avverso aveva financo negato la gioia di vedere compiuta quell’opera superba del suo talento. Morto il Veroneo, in quell’ambiente straniero e già pieno d’intrighi la fama non gli sopravvisse: i capomastri e gli architetti persiani ed indù cui era stata affidata la costruzione, passarono in primo piano. Gli esecutori finirono col prendere il posto dell’ideatore, perché, che tale egli fosse ce lo dice chiaramente il Manrique; egli fece solo il progetto del Taj e ne tracciò il disegno. E questo spiega tutto: spiega l’assoluta unicità di questo monumento, nel quale se ci limitiamo al tipo architettonico, non c’è nulla di originale, è una delle tante tombe, il cui schema i Moghul avevano importato dalle loro terre d’Afganistan: il primo più grande esemplare di quest’arte era proprio lì a poca distanza da Agra e proteggeva le spoglie mortali di Humayum, il bisavolo di Shahjahan. Ma che cosa è dunque che distingue le tombe di Humayum dal Taj: perché quella, così imponente e massiccia, non suscita gli stessi entusiasmi del secondo? Nelle sue linee generali lo schema è lo stesso: un corpo centrale con due fiancate e una cupola: il basamento è press’a poco il medesimo in tutte e due le costruzioni: ma l’uno lascia freddi ed indifferenti e l’altro commuove.

Evidentemente il grande monarca scelse fra i disegni che il Veroneo gli presentò quello che più s’accostava alle tradizioni architettoniche del suo paese e quello che la sua sensibilità artistica formatasi specialmente sotto l’influsso persiano, maggiormente poteva apprezzare. Ma se non c’era originalità nel tipo prescelto c’era qualche cosa di nuovo, qualche cosa per cui il Taj si distacca completamente dai molti mausolei che la pietà e la fede hanno eretto sulle spoglie dei potenti per quelle campagne dell’India che conobbero grandi fasti e grandi tragedie. Nel Taj non è il colore del marmo, né la leggiadria dei pannelli scolpiti che più sorprende ed affascina: è il miracolo delle proporzioni, tutta quella massa marmorea protesa verso il cielo come una speranza di resurrezione, quella levità per cui la materia sembra quasi perdere il suo peso e diventare diafana e confondersi nell’azzurro dell’etere.
Nessuno sul suolo della Persia o dell’India aveva ancora saputo creare questo miracolo: nessuno poté in seguito ripeterlo. L’orafo veneziano aveva trasfuso nella sua concezione architettonica tutta quanta la grazia della sua arte delicata: egli piegò la pietra come duttile lamina d’oro, scavò la superficie marmorea con arcate gigantesche, fece più esili le fiancate, suscitò giochi d’ombre e di luci, impresse alla tomba quel senso mirabile delle misure che sempre fu concetto fondamentale del nostro talento. Il genio di un artista italiano trasfigurava un tipo tradizionale e ne faceva un’opera mai più uguagliata. Le labili vicende della fortuna avevano tolto all’Italia la potenza sui mari e la prosperità nei commerci: ma i suoi figli veleggiavano ancora per lidi lontani e ove altri fondava primati o raccattava ricchezze e seminava incomprensioni e rancori, essi consertavano la genialità italica alle tradizioni indigene, più che prendere donavano e donavano proprio quello che sopravvive e sovrasta a tutto l’incerto ondeggiare delle umane venture, la creazione cioè della loro inesausta attività spirituale, e l’opera del loro insuperato talento artistico.



Giuseppe Tucci, Pionieri italiani in India (Asiatica 1936, pp. 3-11)

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