Gerusalemme, Valle del Cedron, Tomba di età romana, detta erroneamente di Zaccaria. Dottrina dell'Architettura
Architetto David Napolitano
Il dio Asino ed il sacerdote del tempio di Gerusalemme, Zaccaria padre di Giovanni il Battista antagonoista di Cristo, fonderà i Giovanniti......
Architetto David Napolitano
Il dio Asino ed il sacerdote del tempio di Gerusalemme, Zaccaria padre di Giovanni il Battista antagonoista di Cristo, fonderà i Giovanniti......
Iao il dio nascosto del mondo ebraico, tratto da CRISTUS REX di
Graves Robert
Laddove io non li ritengo caricature,
bensì pie identificazioni giudeo-cristiane di Gesù col Messia Figlio di
David, il cui simbolo nella letterature rabbinica era per l’appunto
l’asino, così come quello del Messia figlio di Giuseppe era il bue. Ma
questa opinione m’impiegherebbe in un’altra prolissa disputa
critica……..>> Riporto ora lo stralcio che descrive i fatti strani
accaduti al sacerdote Zaccaria dopo aver messo piede nel santuario per
officiare presso l’altare dei profumi .Il complesso templare di
Gerusalemme, dove si svolgerà lo stano evento, era simile a quelli
mesopotamici e fenicie, la sapienza italica adotterà questo tipo di
architettura per santificare gli Dei. Questo tipo di struttura sacra
sarà ripresa anche nel probabile santuario di Giano a Verona. Il
sacerdote Zaccaria era il marito di Elisabetta che proprio in quei mesi
vicini all’inquietante apparizione che tanto turbò Zaccaria. La storia
inizia descrivendo la tensione sociale scatenata dalla violazione delle
tombe di Davide e di Salomone consumata da re Erode al fine di
impadronirsi del tesoro e degli oggetti dei due re. Proprio Zaccaria
fungeva da portavoce di una delegazione di sacerdoti che domando
spiegazioni al re sulla profanazione della tomba, ma le risposte del re
furono abili e la rivolta popolare fu scongiurata, ma in quei giorni
accaddero fatti strani ed inspiegabili, forse la violazione della tomba
aveva dato seguito agli stani prodigi. In questo clima Zaccaria si
accinge ad officiare il rito accendendo i sette lumi del candelabro
d’oro. <<………Zaccaria mise piede nel santuario al tramonto per
accendere i sette lumi del candelabro d’oro e offrire fragrante incenso
sull’Altare, e vi rimase da solo mentre la congregazione dei fedeli si
teneva all’esterno, in preghiera . Con i gesti delicati ed esperti cimò
gli stoppini con lo smoccolatoio e riempì le ciotole fino all’orlo di
olio consacrato. Poi andò a prendere i coni d’incenso su uno scaffale
dell’apposita nicchia e li depose in una ciotola d’oro; si prostrò a
pregare; si rialzò e, afferrando i coni con un paio di pinze, li collocò
sui carboni ardenti dell’Altare; li spolverò di sale; tornò a
prostrarsi, e di nuovo pregò, mentre il profumo inebriante dell’incenso
cominciava a diffondersi per il santuario. I fumi si sparsero fino alla
congregazione in attesa all’esterno e Zaccaria udì cantare la preghiera
di benedizione del coro di Asaf: Invero tu sei il Signore Dio nostro, il
Dio anche dei nostri padri; il nostro Re, il Re anche dei nostri padri;
il nostro Redentore, il Redentore anche dei nostri padri: il Creatore,
il Creatore anche dei nostri padri; il nostro Soccorritore e Liberatore.
Il tuo nome è sempiterno, non esiste altro Dio all’infuori di te. I
redenti intonano un canto nuovo al tuo nome sulla riva del mare. Assieme
ti lodano e ti riconoscono come loro Re e dicono :”Il Signore regnerà,
il Salvatore di Israele, popolo suo….” Il canto cessò e Zaccaria
comprese che l’agnello serale era stato sacrificato e ora i suoi pezzi
bruciavano sull’altare nel cortile esterno. A un certo punto avrebbe
dovuto tornarci, pronunciare la benedizione sacerdotale e accertare le
offerte di carne e di bevande. Mentre aspettava, calmo e perfettamente a
suo agio, l’assoluto silenzio del santuario fu rotto da una voce: una
voce sottile, tra il bisbiglio e il gemito di un flauto, simile alla
voce della coscienza di un peccatore. “Zaccaria” disse la voce. Zaccaria
si rese conto che la voce proveniva dal Santo dei Santi, dove nessun
uomo poteva mettere piede, a eccezione del sommo sacerdote una volta
all’anno:la cella vuota dove abitava il Dio d’Israele. Gli balzò il
cuore in petto, e rispose: “Eccomi, o Signore? Parla, ché il tuo servo
ti ascolta?” Erano le parole arcaiche con cui, molte generazioni
addietro, a Shiloh, il piccolo Samuele aveva risposto a un richiamo
similare. L’esile voce lo interrogò:”Zaccaria, quali cose sono, quelle
che ardono sul mio altare?” Rispose Zaccaria in un borbottio:”L’incenso
fragrante, signore, conforme alla legge che tu stesso hai dato al tuo
servo Mosè.” Domandò la voce in tono severo:”Forse che il Sole della
Santità è una meretrice o un catamita? Le mie narici fiutano storace,
giglimo di pettine, incenso, nartece, che ardono piano tutti assieme su
carbone di legno di cedro? Appronteresti un bagno di sudore per il Sole
della Santità?” Ora, la composizione del sacro incenso era basata su
un’antichissima ricetta. Era sto costume delle sacerdotesse della dea
dell’Amore, Rechab, la vigilia dell’orgia di maggio bruciare
quell’incenso in un buco sotto il pavimento del santuario della dea.
Ciascuna donna a turno si accovacciava per un momento sopra l’orifizio e
all’interno di una tenda di pelle di foca chiusa finché la sua
epidermide trasudava e assorbiva la fragranza, rendendola in tal modo
irresistibile ai suoi amanti. Tutti gli ingredienti possedevano virtù
afrodisiache. Lo storace è la resina di una pianta dai fiori bianchi,
simile al platano e sacra alla dea Iside: il nome le deriva dalla parola
greca che significa “suscitare lascivia”. Il pettine è una conchiglia
sacra alla dea dell’Amore di Cipro e dei fenici, Afrodite, la quale
viene rappresentata nei miti nell’atto di navigare sul mare entro una
grande conchiglia di pettine trainata da delfini. Grande quantità di
pettini vengono consumate dalle popolazioni di Ascalon e Pafo in
occasione delle agapi in onore della dea, e il ginglimo della conchiglia
è un simbolo del vincolo sessuale. L’incenso, che viene importato
dall’Arabia meridionale e dalla costa africana situata di fronte, è una
resina lattea profumata, trasudata da un arbusto chiamato olibano, sotto
forma di lacrime bianche screziate di rosso, e ai cui fumi è attribuita
la facoltà di conferire eloquenza amatoria; inoltre, si dice che la
Fenice bruci a Heliopolis su un rogo di ramoscelli d’incenso. Il nartece
è il finocchio gigante, ossia la verga, simbolo della sua carica,
impugnata da Sileno, il signore caprino delle gozzoviglie dionisiache; e
si dice che nel midollo del suo stelo Prometeo abbia nascosto il fuoco
che aveva trafugato dai cieli. La resina che ne trasuda possiede un
sentore appena percepibile; ma nella composizione del sacro incenso le
resine dello storace e dell’incenso ne compensavano la deficienza e
servivano altresì a coprire il lezzo sgradevole del ginglimo di pettine.
Zaccaria non seppe rispondere, ma batté sette volte la fronte a terra,
non osando alzare gli occhi. Udì il fruscio del Velo che si apriva e uno
scalpiccio di passi maestosi che si avvicinavano sul pavimento di
marmo. Vi fu una pausa, poi un subitaneo sibili e un crepitio
proveniente dall’Altare. I passi si allontanarono e Zaccaria svenne.
Quando tornò in sé, dopo qualche minuto, lì per lì non riuscì a
comprendere dove si trovasse o che cosa fosse accaduto. I lumi ardevano
ancora con fiamma regolare, ma il fuoco sull’Altare si era spento.
L’orlo della sua veste era zuppo dell’acqua sgocciolata dal ripiano
dell’Altare. Lo spavento tornò ad invadere la sua mente. Gemette e alzò
gli occhi lentamente verso il Sacro Velo quasi per rassicurare se stesso
che il suo Dio non lo odiava. Ma il peggio doveva ancora venire. Tra il
Velo e il muro si ergeva una figura straordinaria, abbigliata con vesti
che scintillavano come il lume della luna su uno stagno dalle acque
increspate. Orrore! La testa era quella di un asino selvatico con rossi
occhi lampeggianti e denti bianco avorio, ed era con zampi dagli zoccoli
d’oro che la figura stringeva al petto lo scettro e il cane simboli
della monarchia. Dalla bocca della bestia uscì la voce flautata “Non
temere Zaccaria! Esci e dì al mio popolo con parole veritiere ciò che
hai udito e visto!” Zaccaria, mezzo morto di paura si coprì il volto con
la veste. Poi batté sette volte la fronte sul pavimento e uscì
barcollando nel cortile esterno, dove tutti si domandavano ansiosi il
motivo del suo ritardo. Si chiuse la porta alle spalle e ristette
ansando. L’aria fredda lo rianimò. Fissò con cipiglio i volti placidi
dei suoi congiunti e dei cantori di Asaf. Aspiro a fondo, e le parole
terribili che gli salirono dal cuore furono: “O uomini di Israele,
udite! Per tutte queste generazioni abbiamo a nostra insaputa venerato
non già il vero Dio, bensì un Asino d’Oro!” Le sue labbra si mossero ma
non ne uscì alcun suono. Era diventato all’improvviso muto. I suoi
congiunti lo riaccompagnarono gentilmente a casa ma uno di essi Ruben,
figlio di Abdiel, cui spettava il compito di prendere il suo posto
qualora si fosse improvvisamente ammalato ovvero fortuitamente
contaminato, pronunciò la benedizione, accettò le offerte di carne e di
bevande e fece segno ai figli di Asaf di intonare il salmo serale.
Quando la funzione ebbe termine e i sacerdoti e i musici si furono
dispersi, Ruben entrò nel santuario per vedere se tutto era in ordine.
Trovando il fuoco spento e pozzanghere di acqua sporca tutt’attorno
all’Altare, rimase stupito e allarmato. Che il suo posato congiunto
Zaccaria fosse stato colto da improvvisa follia? Il suo primo pensiero
fu per l’Ordine, che non doveva essere svergognato. Nessuno doveva
sapere che il fuoco si era spento. Pregando in silenzio che ciò che
stava per fare non fosse peccato, Ruben si affrettò a rimuovere le
ceneri umide dall’Altare, le avvolse nel mantello, preparò di nuovo il
fuoco e lo riattizzò e offrì altro incenso in conformità al rito
tradizionale. Mentre era intento ad asciugare il pavimento del santuario
con un tovagliolo fu colto dallo stesso orrore che aveva colto
Zaccaria, e si sentì rizzare i capelli in capo. Tutt’a un tratto,
infatti, notò impronte umide di zoccoli in direzione in direzione del
Santo dei Santi. Se ne stette a fissarle a lungo. Non ci si poteva
sbagliare. Erano le impronte degli zoccoli di un mulo o di un asino. Si
sentì turbianre la mente. Tuto ciò che riuscì a pensare fu che Zaccaria
doveva aver fatto ricorso alla magia nera ed evocato un demone in
sembianze d’asino, uno dei Lilim, il quale aveva spento il fuoco
sull’altare. Doveva proprio essersi trattato di un qualche demone,
giacché d’era finita la brocca d’acqua usata per spegnere il fuoco?
Zaccaria non ne aveva una con sé, quando era uscito ne cortile esterno.
“Ahimé, ahimé!” Gridò Ruben e, gettandosi a terra, pregò ad alta voce:
“O Signore degli Eserciti, proteggi il tuo servo! Suggella le bocche di
coloro i quali vorrebbero interrogarlo. Poiché non renderò mai pubblica
la vergogna della mia Casa, se non mi sarà chiesto di farlo sotto
giuramento dinnanzi alla corte suprema.” Il mattino seguente, Zaccaria
fu interrogato gentilmente dal sommo sacerdote durante una seduta non
ufficiale della corte suprema. Gli furono poste dinnanzi alcune
tavolette per scrivere, ma Zaccaria le allontanò da sé, scuotendo il
capo. Quando gli venne domandato se avesse avuto una visione, fece segno
di si con la testa, e sul volto gli passò un’espressione di tale
terrore che il sommo sacerdote si astenne dal porgli altre domande. Il
Consiglio gli raccomandò di lasciare Gerusalemme e ritirarsi nella sua
residenza di campagna a Ain-Rimmon, un florido villaggio situato nove
miglia a nord di Bersabea. L’inchiesta fu aggiornata sine die, con
grande solievo di Ruben. Stravaganti voci in merito a ciò che Zaccaria
aveva visto cominciarono a diffondersi per il paese, e i sacerdoti
dell’Ordine di Abia si consultarono tra loro per decidere sulle risposte
da dare alle domande che venivano loro poste di continuo. Ruben non
prese parte alla riunione, e in sua assenza i Figli di Abia decisero che
ciò che Zaccaria aveva visto doveva essere stato un angelo il quale gli
aveva comunicato sorprendenti notizie domestiche. Era, infatti,
avvenuto che, tornando a casa a Ain-Rammon, Zaccaria fosse accolto con
la notizia che sua moglie Elisabetta, la quale era rimasta sterile per
più di vent’anni, era sul punto di diventare finalmente madre.
Particolare ancor più degno di nota, quando Zaccaria era partito da
Ain-Rimmon sei settimane prima, per presenziare ai riti della settimana
pasquale a Gerusalemme, egli ed Elisabetta erano entrambi vincolati da
un obbligo locale di continenza coniugale, e durante i trenta giorni
precedenti si erano scambiati solo casti baci. Essendo la fedeltà di
Elisabetta al di sopra di ogni sospetto, Zaccaria non seppe nascondere
il suo stupore, ma si rifugiò nel mutismo, astenendosi dal far commenti
per iscritto. I suoi congiunti ne conclusero che la visione da lui avuta
al tempio fosse stata quella di un angelo il quale gli avesse predetto
che la creatura che Elisabetta avrebbe dato alla luce in così tarda età
sarebbe stata benedetta da straordinaria santità; e fu questa la
versione che diffusero a Gerusalemme.
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