Robespierre aspettava la morte senza mai distogliere lo sguardo da Dio. Il tratto decisivo della sua personalità politica è la sua volontà di mobilitare le risorse morali del popolo al fine di edificare un tipo umano migliore di Francesco Lamendola
Robespierre aspettava la morte senza mai distogliere lo sguardo da Dio
di
Francesco Lamendola
Articolo d'archivio
Finalmente
una biografia di Robespierre - no, non una biografia, ma un vero
tentativo d'interpretazione - che si muove libero dai soliti pregiudizi e
malintesi; che si sforza di ridare a Robespierre quello che è di
Robespierre, ma anche di levargli quello che non è suo; che procede con
assoluta indipendenza di giudizio, senza lasciarsi deviare né dalle
passioni né dalle ideologie politiche.
È
quanto ha fatto uno storico francese tanto ammirevole quanto
imparziale, Henri Giullemin (1903-1992), già autore di una notevole
biografia di Jaurès, e che è stato dapprima direttore degli studi
francesi all'Università del Cairo (dal 1936 al 1938), quindi ordinario
di letteratura francese all'Università di Bordeaux, consigliere
culturale all'Ambasciata francese di Berna e professore straordinario
all'Università di Ginevra.
Il suo studio esemplare Robespierre politico e mistico (titolo originale: Robespierre politique et mystique,
Editions du Seuil, Paris, 1987; traduzione italiana di Tuckery Capra,
editore Garzanti, Milano, 1999), è stato recentemente riproposto nella Biblioteca storica del quotidiano Il Giornale, operazione culturale che ci sembra assai meritevole.
La
sua tesi di fondo emerge chiaramente già dal titolo, in linea - del
resto - con la franchezza programmatica e quasi brutale che ne
attraversa ogni singola pagina: non si può capire il politico
Robespierre se si fa astrazione dal mistico Robespierre; non si può
comprendere affatto la sua azione di capo riconosciuto della rivoluzione
giacobina, se si mette tra parentesi il culto dell'Essere Supremo.
Si
obietterà che non è niente di originale, che Mathiez lo aveva già
detto. È vero, Mathiez lo aveva detto; non aveva spinto, però, la sua
coerenza sino in fondo. Non aveva compreso la natura mistica di
Robespierre: e diciamo «mistica» nel senso letterale della parola, senza
alcuna sfumatura dispregiativa.
Bene,
questa è la tesi di Guillemin: Robespierre fu un autentico mistico, nel
senso che visse la sua passione politica dalla particolare prospettiva
di un mistico religioso. Una tesi che - è quasi inutile dirlo - ha
suscitato il furore degli storici di destra e di sinistra: dei primi,
perché non sopportano Robespierre in alcun modo; dei secondi perché non
sopportano di vederlo rappresentato in una luce dichiaratamente
religiosa e anti-materialistica.
Sì, l'autore non lo nasconde: egli è un robespierrista.
No,
non è un fazioso: ogni qualvolta Robespierre esita, bordeggia, si
contraddice; ogni qual volta ha un momento di debolezza; ogni qual volta
si lascia trasportare dal suo amor di patria oltre il segno, avallando
provvedimenti eccessivi e sanguinari (come l'ordine alle truppe francesi
di non fare prigionieri fra i soldati britannici e hannoveriani),
Guillemin punta il dito, inesorabilmente, su di lui, smascherando le sue
difese.
Sì:
il ritratto che ne esce, pur fra luci ed ombre inquietanti, è, nel
complesso, elogiativo: soprattutto sul piano morale. Guillemin fa notare
l'abisso che separa Robespierre dalle canaglie che sedevano nei due
Comitati, di Salute pubblica e di Sicurezza generale, e sui banchi della
Convenzione: gli avidi di denaro e di potere, i corrotti, i viziosi, i
sanguinari, gli opportunisti, i cinici, gli accaparratori. L'abisso che
lo separa dai Tallien, dai Sieyés, dai Barras, dai Carnot, dai Fouché; e
anche dai Collot d'Herbois e dai Billaud-Varenne. Per non parlare dei
Danton…
Per
dirla con le parole colorite, ma eloquenti, di un giovane saggista
francese, scomparso anzitempo Pierre Châtelain, amico di Guillemin (e
citato nella Postfazione, p. 416):
Non
scocciarmi con il tuo Robespierre. Ghigliottina e ghigliottina e poi
ancora ghigliottina, è disgustoso. E la sua famosa castità? Cosa vuol
dire? Uno svitato, un falso monaco. Avrebbe fatto maledettamente meglio
a baciare le donne come tutti quanti anziché tagliare le teste. Però ci
sono due punti al suo attivo. Due punti importanti. Primo, non cercava
la grana, come quella carogna di Danton. Secondo, il ribrezzo che gli
ispiravano i razionalisti con i paraocchi, razza di coglioni.
In
breve, per Guillemin, Robespierre - di cui ricostruisce le tappe della
straordinaria carriera politica e, in particolare, i mesi che
precedettero la disfatta del 9 Termidoro - non era un mistico della
rivoluzione che voleva irrobustire lo spirito civico del popolo mediante
il culto religioso dell'Essere Supremo; bensì un politico mistico, che
si proponeva l'obiettivo di restaurare il sentimento religioso nel
popolo.
Senza
di ciò, a giudizio di Maximilien, la rivoluzione era perduta: perché
solo la rinascita del sentimento religioso, con l'idea della virtù
premiata e del delitto punito, avrebbe potuto consentire di tenere
dritta e salda la barra del timone della rivoluzione. Ricordiamo la sua
celebre espressione: L'ateismo è aristocratico.
Mistico
per natura e per convinzione, Robespierre credeva che una rivoluzione
senza virtù avrebbe condotto inevitabilmente al trionfo dei briganti e
degli assassini. E la sua idea di virtù non era più sanguinaria di
quella di tanti altri suoi contemporanei, i quali non avevano - però -
il suo stesso disinteresse. Egli temeva che i ricchi borghesi, i quali
si erano impadroniti dei beni nazionali confiscati ai nobili e al clero,
volessero congelare la rivoluzione, paghi di quanto avevano ottenuto; e
che il popolo avrebbe dovuto sopportare una condizione di ingiustizia e
sfruttamento ancor peggiore di quella precedente il 1789
Ed ha avuto ragione, perché così è stato.
Per
tentar di scongiurare questo destino, egli non vedeva che un'unica
strada: quella della Virtù e del Terrore, binomio inseparabile. La virtù
per incoraggiare e rinsaldare la fiducia nei buoni, il terrore per
spazzar via le mene dei malvagi.
Una visione tropo schematica, troppo semplicistica?
Forse.
È certo che Robespierre non sapeva quasi nulla di economia e di
finanza, e non lo nascondeva. Però vedeva bene le difficoltà in cuoi
versava il popolo, specialmente a Parigi; vedeva la miseria degli
operai, degli artigiani salariati, delle famiglie dei coscritti mandati
alle frontiere - un esercito enorme, nel 1794: qualcosa come 800.000
uomini, necessari per far fronte alla coalizione di quasi tutta
l'Europa…
Non
solo vedeva la miseria del popolo e lo spettacolo rivoltante dei ricchi
che si arricchivano sempre più, a forza di speculazione e di
aggiotaggio; vedeva anche profilarsi in distanza, dietro le vittorie
tanto sbandierate da Carnot, la figura di un dittatore militare che
avrebbe soppresso la libertà in cambio della sicurezza. E aveva buona
vista, benché Napoleone Bonaparte, all'epoca, fosse solo uno sconosciuto
ufficialetto corso, amico del suo fratello minore Augustin (circostanza
che, dopo Termidoro, l'ambizioso avventuriero avrebbe fatto di tutto
per cancellare).
Il
Terrore, quindi, nella mente di Robespierre, non era fine a se steso.
Era semplicemente lo strumento per intimorire i nemici della
rivoluzione, occulti e palesi. Ma se, subito dopo la fine di lui, il
Terrore è stato abolito dalla Convenzione termidoriana (peraltro, per
venire subito sostituito dal Terrore bianco), la ragione è che aveva
ormai esaurito il suo ufficio: quello di far ricadere sul solo
Robespierre tutta l'odiosità del Tribunale rivoluzionario. Mentre è vero
che Robespierre non amava il sangue e non godeva affatto all'idea di
mandare la gente al patibolo: lo riteneva una dura necessità, e in più
d'una occasione intervenne per la salvezza di questi o di quelli.
Guillemin,
poi, sfata anche la leggenda (divulgata da Michelet) secondo cui
Robespierre avrebbe subito terribili umiliazioni all'inzio della sua
carriera di rivoluzionario, e che se ne sarebbe poi vendicato, allorché
divenne - de facto se non de jure - il capo supremo
della Francia. Anche il ritratto convenzionale di un Robespierre
malinconico, taciturno, freddo e dissimulatore, è da considerarsi
sostanzialmente falso.
Come
ricorderà sua sorella, anni dopo la scomparsa di lui, Maximilien era di
carattere allegro e gli piaceva ridere e scherzare. Solo negli ultimi
tempi della sua vita si era fatto cupo e pessimista: aspettava la
morte. L'aspettava, ma non la temeva.
A
partire dall'aprile del 1794 - ossia, secondo la Vulgata, dal momento
del suo maggior fulgore, con l'eliminazione delle opposte fazioni degli
«arrabbiati» di Hébert e degli «indulgenti»di Danton -, Robespierre si
era reso conto che la sua fine era ormai questione di tempo: di poco
tempo, probabilmente.
Sapeva
che i «briganti» - commissari in missione che si erano resi colpevoli
di massacri e di saccheggi; convenzionali pronti a vendersi al migliore
offerente; membri dei comitati mossi da implacabile ambizione personale e
bisognosi di mascherare inconfessabili speculazioni finanziarie -
erano riusciti a invischiarlo nella loro rete, a screditarlo con
l'affare della 'profetessa' Catherine Théot, a renderlo odioso per la
ghigliottina e per il maximum sui salari, a dipingerlo segretamente come un mostro assetato di sangue e di potere.
Sapeva che il tuo tempo stava per finire, ma non temeva la morte.
Non
la temeva perché ogni suo pensiero era sorretto da un profondo,
incondizionato, vivissimo sentimento religioso; e dalla convinzione che
solo affrontando il suo destino sino in fondo, e bevendo l'amaro calice
del martirio, avrebbe potuto giovare al popolo sfruttato e affamato di
giustizia, non meno che di pane, lasciandogli la forza del suo esempio.
Guillemin
non lo dice, ma il confronto con la passione di Cristo - non sembri
sacrilego questo paragone - emerge dalla forza stessa delle cose. Come
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, disse ai suoi discepoli, alla vigilia
della fine, che «presto non lo avrebbero più visto», anche Robespierre
pronunciò una frase quasi identica, rivolto ad alcuni fedelissimi, alla
vigilia di quella tragica giornata alla Convenzione, il 9 Termidoro del
1794…
Robespierre mistico e votato consapevolmente al martirio, dunque.
Le prove?
Ve ne sono parecchie.
I
chirurghi incaricati di bendargli la mascella fracassata da un
proiettile (al momento dell'irruzione dei soldati convenzionali
nell'Hotel de Ville), per non privare i suoi nemici dello spettacolo
edificante della sua salita alla ghigliottina, riferiscono che
l'Incorruttibile non emise un lamento, benché il dolore fisico dovesse
essere atroce. Per tutto il tempo, dicono, Robespierre continuò a
guardare in alto: ma, osserva sapidamente Guillemin, è piuttosto
probabile che non lo facesse per contemplare le modanature del soffitto…
E poi altre, non poche.
Ancora
alla vigilia della sua ricomparsa alla tribuna della Convenzione, dopo
un'assenza di quarantatré giorni (una eternità di quei tempi, quando
un'assenza di due o tre giorni poteva segnare la differenza tra la vita e
la morte), Robespierre - riferiscono gli sbirri che avevano l'incarico
di sorvegliarlo a distanza: lui, il preteso «dittatore» della Francia,
che viveva in casa Duplay e girava per le strade di Parigi senza uno
straccio di scorta - se ne andava a passeggio verso la campagna, con la
sola compagnia del suo cane, e sedeva a lungo in riva alla Senna,
immobile, meditando… o, forse, pregando.
Decisamente, non è l'atteggiamento di uno che ha paura di morire.
Se
i suoi nemici avessero avuto un briciolo di coraggio fisico, avrebbero
potuto spacciarlo in qualunque momento, senza incontrare la minima
difficoltà. Ma a loro non bastava eliminarlo fisicamente: dovevano
anche, e soprattutto, estirparne la leggenda dal cuore di migliaia, di
milioni di umili membri del popolo lavoratore.
Robespierre,
con la sua parrucca debitamente incipriata e il suo vestito azzurro
cielo, che si era fatto confezionare apposta per la grandiosa festa
dell'Essere supremo - quello stesso vestito con cui verrà messo in stato
d'accusa e, poi, dichiarato nemico pubblico e mandato a morte - amava
le persone semplici e virtuose, come il falegname Duplay e la sua eroica
famiglia.
Amava
i lavoratori con i calli sulle mani, ma - alieno dalla demagogia -
voleva innalzarli materialmente e spiritualmente, senza lusingarli nelle
loro debolezze o fare leva sui loro bassi istinti.
Era
convinto che solo la virtù avrebbe potuto preservare lo spirito
migliore della rivoluzione; e che solo il sentimento religioso avrebbe
custodito la fiammella della virtù. Per cui, una volta che la
rivoluzione aveva rovesciato il cattolicesimo (cosa di cui non si
compiaceva e, meno ancora, si vantava), era indispensabile affrettarsi a
fornire al popolo una nuova religione: altrimenti, nella voragine
morale aperta dall'ateismo, l'intero edificio della rivoluzione avrebbe
cominciato a franare…
Un
solo episodio, ma emblematico. Fra i primi prigionieri a essere
liberati dalle galere dopo la morte del «tiranno» c'era il marchese De
Sade: e la sua liberazione parve la liberazione di un martire del libero
pensiero. Così, almeno, qualcuno cercò di presentarla; e così la
dipinse il diretto interessato. Meno male, si disse, che il mostro
sanguinario era stato tolto di mezzo: finalmente sarebbe tornata la
libertà…
Dopotutto,
Robespierre non aveva forse tutti i torti quando aveva messo in guardia
che, privata del sostegno della religione, anche la morale sarebbe
andata in pezzi. Per questo si era opposto, con tutte le sue forze,
all'ondata crescente della scristianizzazione (attirandosi l'odio
implacabile degli enragés), che aveva raggiunto la massima
intensità negli ultimi mesi del 1793. I sanculotti, in fondo, non erano
veramente interessati a quella battaglia: per loro, il problema vero era
il caro vita, divenuto sempre più insopportabile.
Gli
intellettuali, invece, non glie l'avevano perdonata. Già lo tenevano
d'occhio perché, in quanto seguace di Rousseau, non mostrava alcuna
stima per le teorie di Voltaire, l'idolo dei salotti della «brava gente»
(si fa per dire). Adesso, poi, che difendeva il clero (tanto da
accettare l'invito di una famiglia amica di tenere a battesimo il loro
bambino), aveva realmente passato il segno. Per dirla con il filosofo
Condorcet, portavoce di quei salotti illuministi nel segno del più
rigoroso razionalismo: «Robespierre è un prete e non sarà mai altro che
un prete».
Ma
è falso, sostiene Guillemin, che egli abbia voluto restaurare il
cattolicesimo; così come manca il bersaglio Mathiez, quando afferma che
il culto dell'Essere Supremo, per lui, era solo un espediente per
ricompattare moralmente il popolo di Francia.
No, non era affatto un espediente: al contrario, era il cuore della sua concezione politico-religiosa.
La fine di Robespierre iniziò la sera della festa dell'Essere Supremo, con la gazzarra organizzata contro di lui dai suoi nemici occulti, che sparsero ad arte la voce che egli voleva farsi papa della rivoluzione.
La fine di Robespierre iniziò la sera della festa dell'Essere Supremo, con la gazzarra organizzata contro di lui dai suoi nemici occulti, che sparsero ad arte la voce che egli voleva farsi papa della rivoluzione.
Nel suo Robespierre politico e mistico (ed.
cit., pp. 407-09), Guillemin, nel tracciare un bilancio finale delle
idee di Robespierre e della sua azione politica, scrive:
Robespierre
non è uno di quelli che, pur credendo in Dio, pensano che questo
«credo» non impegni a niente, seppur non si riduce a semplice forma, a u
innocuo omaggio ala tradizione, all'osservanza di riti spogliati del
loro significato. È invece uno di quelli per i quali questa fede, quando
è, come la sua, sincera e ardente, comporta un impegno di tutto
l'essere. Robespierre crede in Dio «con tutta la sua anima, con tutta la
sua vita» (Bernanos). Ciò che scriverà un giorno François Mauriac in
una pagina del suo diario, Robespierre avrebbe potuto scriverlo nei
medesimi termini; io sono, scriveva Mauriac, immerso nella politica del
mio paese (e schierato, non senza coraggio), un uomo«impegnato nei
problemi di quaggiù per ragioni di lassù». Robespierre è un uomo che ha
fatto in segreto, e fors'anche inconsciamente, un patto con Dio, che ha
dato la sua parola, pronunciato nel suo cuore, senza aver bisogno di
parole, non so quale imprescrittibile giuramento. La sua volontà
aderisce interamente alla sollecitazione della sua natura; è quello che
chiama «l'istinto sacro» che vive in lui, indistruttibile. In un mondo
del quale ha subito in misura crescente l'opacità, l'aridità, in un
mondo cieco e sordo, dedalo notturno, insieme sovraffollato e vuoto in
cui la creatura, a sua insaputa, muore d'ignoranza, di separazione, di
cattiveria, Maximilien Robespierre si sente investito di una missione.
La sua vocazione - che gli brucia in fondo al cuore come una fiamma -, è
quella di dare un significato alla Storia, restituendo all'uomo (come
Jean-Jacques ha tentato di fare con i suoi scritti, e lui tenta di fare
con i suoi atti) la sua «dignità». Questa dignità - pegno di salvezza e
unica promessa di felicità futura - risiede nella scoperta della
parentela che ha con la sua Origine, cioè nella accoglienza fata a Dio.
Un cuore che si apre a Dio è conquistato per il bene pubblico. Esso si
integra alla collettività per far sì che essa si unisca in una
collaborazione fraterna per mezzo di ciò che ogni creatura ha, al tempo
stesso, di più intimo e di più simile a ogni altra. Ricordatevi, sulla
città futura, i commoventi «vogliamo» messi in fila da Maximilien il 5
febbraio 1794; la società abitabile, dove regnerà la giustizia, dove la
generosità si sostituirà all'avarizia, il dovere alle convenienze, dove
le persone buone sostituiranno la buona società, non ha alcuna
possibilità di nascere quaggiù s i suoi membri non hanno ritrovato il
senso del divino. Il ruolo assegnato da Robespierre è, prima di tutto,
quello di un testimone. Ha mai creduto possibile, concepibile,
realizzabile quella trasfigurazione degli uomini che è, in fondo, il suo
scopo? Un giorno - era il 3 dicembre 1792 - ha guardato in faccia e
indicato col dito questa «contraddizione» invincibile, che fa, dice, la
nostra disgrazia, tra «la depravazione dei nostri spiriti» e «l'energia
di carattere che suppone il governo libero al quale osiamo ambire»; «per
formare le nostre istituzioni politiche, sarebbero necessari i costumi
che queste stesse istituzioni dovrebbero darci». Eco immediata, nel
pensiero di Robespierre, del Contratto sociale nel quale
Jean-Jacques ha visto fin troppo bene l'insolubile nodo del dramma; per
riuscire nella costruzione di uno Stato giusto, «bisognerebbe che gli
uomini fossero, prima delle leggi, ciò che devono divenire grazie a
loro». Robespierre vuole una Repubblica «nella quale tutte le anime si
ingrandiranno», e dovrebbero già esser grandi perché si attui il
movimento che consentirà alla razza umana di «adempiere al suo destino».
Ma
in fin dei conti, ma insomma, esistono altri esseri viventi (oltre a
lui) che hanno già, per il loro disinteresse, il loro civismo, la loro
completa buona volontà, la capacità di rendere concreta la Repubblica
dei suoi sogni. I Duplay prima di tutti, tutta quella ammirevole
famiglia, e Lebas, e altri che conosce Saint-Just? Non è di un ottimismo
esemplare Saint-Just, che dice a voce alta il suo scetticismo: «Il
Terrore può sbarazzarci della monarchia e dell'aristocrazia,. Ma cosa ci
libererà dalla corruzione?». Assurdamente, appassionatamente Maximilien
aveva conservato la speranza sino al giorno, sino al terribile giorno…
Abbiamo assistito a questo dramma. Ha voluto andare troppo in fretta,
ha commesso un errore, un colpevole errore, volendo far riconoscere
dalla nazione degli assiomi che essa non lo aveva affatto incaricato di
proclamare. Jaurès ha un bel condividere il pensiero profondo di
Robespierre, egli disapprova il decreto del 18 floreale che gli apparirà
- a ragione - come un abuso di potere, come l'instaurazione,
inaccettabile, di una religione di Stato. L'8 giugno, in occasione della
nuova «Fête-Dieu» immaginata, realizzata da Maximilien, sopraggiunge la
catastrofe. Tutto era cominciato così bene, in un'atmosfera radiosa!
Una felicità da non crederci. Allora era vero! Era stato capito!
L'avrebbero seguito! Poi, all'improvviso, quelle grida, dirette contro
di lui, come una lapidazione. L'implacabile rifiuto. La violenza del No.
L'annuncio, che gli viene dato, di uno sbarramento insuperabile.
L'ingiunzione di non insistere più, di ritirarsi e tacere. E in effetti
Robespierre si ritira; le feste decadarie, delle quali aveva proposto,
il 7 maggio, un elenco dettagliato, non saranno più ricordate. L'8
giugno 1794 è la dimostrazione del suo fallimento. Quale sinistra
distanza tra la fisionomia illuminata di gioia che aveva mostrato la
mattina dell'8 e il viso segnato, minaccioso, che oppone che oppone
quattro giorni dopo a Bourdon de l'Oise. Uno scoraggiamento senza nome
lo opprime. A che cosa servono le sue responsabilità ufficiali? Non si
mostrerà più al Comitato di salute pubblica se non di passaggio e per
salvare la forma, fino al 26 luglio in cui deciderà di farla finita.
Sì,
ci sembra che Guillemin abbia colto nel segno, quando indica il tratto
decisivo della personalità politica di Robespierre nella sua volontà di
mobilitare le risorse morali del popolo al fine di edificare un tipo
umano diverso e migliore: più altruista, più aperto ai doveri sociali,
più sensibile alla libertà e alla giustizia; in breve, con «un'anima più
grande». E lui, lui per primo, ci credeva così tanto, da aver fatto
della sua vita (e come avrebbe fatto, da ultimo, della sua morte) una
offerta suprema sull'altare di un simile ideale.
Questo, però, è precisamente quanto i suoi detrattori continuano ad imputargli.
Robespierre,
per loro, era uno spietato tiranno, e forse un folle, appunto perché
non teneva conto della natura umana e non rispettava l'ambivalenza
strutturale che la contraddistingue. Essi fanno notare che la «virtù»
non si può insegnare a colpi di ghigliottina; e che, d'altra parte,
l'ambizione di creare «l'uomo nuovo» è l'essenza del disegno
totalitario.
Di
più: la sua costante, quasi ossessiva preoccupazione di far sì che lo
Stato sia educatore del popolo, prima ancora che legislatore, evoca i
fantasmi dello «Stato etico» i quali, in clima di esasperato
individualismo borghese - quali sono quelli in cui viviamo - irritano
ancora di più, se possibile, dei fantasmi del nazismo e dello
stalinismo. Lo Stato, si dice, non deve affatto stabilire che cosa sia
il bene e tanto meno farsene custode e sorvegliante. Ogni cittadino ha
il diritto di cercare il proprio bene, e allo Stato non deve
rimanere altro compito che quello del notaio: prendere atto di questa
pluralità di diritti, garantirla e tutelarla.
Aveva
dunque torto, Maximilien, con la sua ossessione per la virtù e con la
pretesa che i governanti siano i primi a darne l'esempio e che paghino
senza sconti, se cedono alle lusinghe del denaro e di una facile
popolarità, dando così il cattivo esempio?
Dobbiamo
concludere che una pessima democrazia sarà pur sempre meglio di una
dittatura ottimamente intenzionata; e che è preferibile essere governati
da dei cinici furfanti piuttosto che da degli uomini incorruttibili, ma
decisi a imporre il civismo e l'onestà con ogni mezzo, compresa la
forza?
E,
più in generale, è vero che la contraddizione fondamentale della
politica è che essa presuppone nei cittadini di una data società il
possesso di quelle stesse virtù che solo delle buone leggi, e una lunga
consuetudine con esse, possono - gradualmente - formare?
Noi, lo ammettiamo, non abbiamo in tasca la risposta a simili interrogativi.
Robespierre,
spirito profondamente religioso, sentiva la debolezza ontologica della
natura umana, ma pensava che solo con l'apertura esistenziale al divino,
tale debolezza può venire compensata. È per questo che rimase sempre
fedele, a rischio della vita, al suo ideale di una Repubblica ispirata
da una profonda religiosità popolare.
Ma le contraddizioni rimangono, come ferite aperte.
Se
gli uomini puri sono impegnati «nelle cose di quaggiù per delle ragioni
di lassù», bisogna rassegnarsi al pragmatismo di coloro i quali non
hanno altro orizzonte che il proprio vantaggio, e preferirlo alla virtù
di questi mistici i quali, se andassero al potere, vorrebbero rendere
gli uomini migliori, riempiendo le ceste della ghigliottina?
L'unica
possibile risposta, crediamo - parziale e insoddisfacente, lo
riconosciamo di buon grado - non può consistere che in un profondo
ripensamento del dilemma in cui venne a trovarsi Robespierre nel
1793-94.
La
politica non può vivere senza una componente di idealismo, di
disinteresse, di purezza d'intenti da parte di coloro che la praticano;
altrimenti si riduce a un gioco meschino intorno alle posizioni di
potere.
Ma,
d'altra parte, questa componente di idealismo e di purezza deve tener
conto dei tempi lunghi e dei meccanismi estremamente complessi
dell'evoluzione spirituale degli esseri umani; che può essere, sì,
favorita dalle buone leggi e dalla buona politica, ma non promossa per
decreto e neanche imposta dall'alto, collettivamente, a tappe forzate.
Perché,
anche se si realizza nella collettività, la conquista della virtù è
sempre un fatto individuale, nel quale ogni essere umano, a un certo
punto, si trova a fare i conti con se stesso e compie una scelta etica
fondamentale.
Non esistono scorciatoie, di nessun tipo.
Esistono
però delle condizioni generali - e il buon esempio dei politici e degli
amministratori ne è parte non secondaria - le quali possono favorire
tale presa di coscienza e aiutare gli individui, e specialmente i
giovani, a orientare le loro vite in direzione dell'altruismo, della
solidarietà, della condivisione, piuttosto che in quella dell'egoismo,
del cinismo e dell'indifferenza.
Che
è quello che sta avvenendo oggi: con la complicità interessata di
quegli intellettuali che, criticando il robespierrismo per la sua
astrattezza dottrinaria, vorrebbero in realtà abituarci alla
rassegnazione nei confronti di una classe politica totalmente
sprofondata nei giochi di potere e nel perseguimento di inconfessabili
vantaggi personali.
Già pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/08/2008
Del 16 Dicembre 2017
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