lunedì 18 febbraio 2019

ROBESPIERRE POLITICO E MISTICO


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    Robespierre aspettava la morte senza mai distogliere lo sguardo da Dio. Il tratto decisivo della sua personalità politica è la sua volontà di mobilitare le risorse morali del popolo al fine di edificare un tipo umano migliore di Francesco Lamendola  

Robespierre aspettava la morte senza mai distogliere lo sguardo da Dio

di

Francesco Lamendola
Articolo d'archivio



Finalmente una biografia di Robespierre - no, non una biografia, ma un vero tentativo d'interpretazione - che si muove libero dai soliti pregiudizi e malintesi; che si sforza di ridare a Robespierre quello che è di Robespierre, ma anche di levargli quello che non è suo; che procede con assoluta indipendenza di giudizio, senza lasciarsi deviare né dalle passioni né dalle ideologie politiche.
È quanto ha fatto uno storico francese tanto ammirevole quanto imparziale, Henri Giullemin (1903-1992), già autore di una notevole biografia di Jaurès, e che è stato dapprima direttore degli studi francesi all'Università del Cairo (dal 1936 al 1938), quindi ordinario di letteratura francese all'Università di Bordeaux, consigliere culturale all'Ambasciata francese di Berna e professore straordinario all'Università di Ginevra.
Il suo studio esemplare Robespierre politico e mistico (titolo originale: Robespierre politique et mystique, Editions du Seuil, Paris, 1987; traduzione italiana di Tuckery Capra, editore Garzanti, Milano, 1999), è stato recentemente riproposto nella Biblioteca storica del quotidiano Il Giornale, operazione culturale che ci sembra assai meritevole.
La sua tesi di fondo emerge chiaramente già dal titolo, in linea - del resto - con la franchezza programmatica e quasi brutale che ne attraversa ogni singola pagina: non si può capire il politico Robespierre se si fa astrazione dal mistico Robespierre; non si può comprendere affatto la sua azione di capo riconosciuto della rivoluzione giacobina, se si mette tra parentesi il culto dell'Essere Supremo.
Si obietterà che non è niente di originale, che Mathiez lo aveva già detto. È vero, Mathiez lo aveva detto; non aveva spinto, però, la sua coerenza sino in fondo. Non aveva compreso la natura mistica di Robespierre: e diciamo «mistica» nel senso letterale della parola, senza alcuna sfumatura dispregiativa.
Bene, questa è la tesi di Guillemin: Robespierre fu un autentico mistico, nel senso che visse la sua passione politica dalla particolare prospettiva di un mistico religioso. Una tesi che - è quasi inutile dirlo - ha suscitato il furore degli storici di destra e di sinistra: dei primi, perché non sopportano Robespierre in alcun modo; dei secondi perché non sopportano di vederlo rappresentato in una luce dichiaratamente religiosa e anti-materialistica.
Sì, l'autore non lo nasconde: egli è un robespierrista.
No, non è un fazioso: ogni qualvolta Robespierre esita, bordeggia, si contraddice; ogni qual volta ha un momento di debolezza; ogni qual volta si lascia trasportare dal suo amor di patria oltre il segno, avallando provvedimenti eccessivi e sanguinari (come l'ordine alle truppe francesi di non fare prigionieri fra i soldati britannici e hannoveriani), Guillemin punta il dito, inesorabilmente, su di lui, smascherando le sue difese.
Sì: il ritratto che ne esce, pur fra luci ed ombre inquietanti, è, nel complesso, elogiativo: soprattutto sul piano morale. Guillemin fa notare l'abisso che separa Robespierre dalle canaglie che sedevano nei due Comitati, di Salute pubblica e di Sicurezza generale, e sui banchi della Convenzione: gli avidi di denaro e di potere, i corrotti, i viziosi, i sanguinari, gli opportunisti, i cinici, gli accaparratori. L'abisso che lo separa dai Tallien, dai Sieyés, dai Barras, dai Carnot, dai Fouché; e anche dai Collot d'Herbois e dai Billaud-Varenne. Per non parlare dei Danton…
Per dirla con le parole colorite, ma eloquenti, di un giovane saggista francese, scomparso anzitempo Pierre Châtelain, amico di Guillemin (e citato nella Postfazione, p. 416):

Non scocciarmi con il tuo Robespierre. Ghigliottina e ghigliottina e poi ancora ghigliottina, è disgustoso. E la sua famosa castità? Cosa vuol dire? Uno svitato, un falso monaco. Avrebbe fatto maledettamente meglio  a baciare le donne come tutti quanti anziché tagliare le teste. Però ci sono due punti al suo attivo. Due punti importanti. Primo, non cercava la grana, come quella carogna di Danton. Secondo, il ribrezzo che gli ispiravano i razionalisti con i paraocchi, razza di coglioni.

In breve, per Guillemin, Robespierre - di cui ricostruisce le tappe della straordinaria carriera politica e, in particolare, i mesi che precedettero la disfatta del 9 Termidoro - non era un mistico della rivoluzione che voleva irrobustire lo spirito civico del popolo mediante il culto religioso dell'Essere Supremo; bensì un politico mistico, che si proponeva l'obiettivo di restaurare il sentimento religioso nel popolo.
Senza di ciò, a giudizio di Maximilien, la rivoluzione era perduta: perché solo la rinascita del sentimento religioso, con l'idea della virtù premiata e del delitto punito, avrebbe potuto consentire di tenere dritta e salda la barra del timone della rivoluzione. Ricordiamo la sua celebre espressione: L'ateismo è aristocratico.
Mistico per natura e per convinzione, Robespierre credeva che una rivoluzione senza virtù avrebbe condotto inevitabilmente al trionfo dei briganti e degli assassini. E la sua idea di virtù non era più sanguinaria di quella di tanti altri suoi contemporanei, i quali non avevano - però - il suo stesso disinteresse. Egli temeva che i ricchi borghesi, i quali si erano impadroniti dei beni nazionali confiscati ai nobili e al clero, volessero congelare la rivoluzione, paghi di quanto avevano ottenuto; e che il popolo avrebbe dovuto sopportare una condizione di ingiustizia e sfruttamento ancor peggiore di quella precedente il 1789
Ed ha avuto ragione, perché così è stato.
Per tentar di scongiurare questo destino, egli non vedeva che un'unica strada: quella della Virtù e del Terrore, binomio inseparabile. La virtù per incoraggiare e rinsaldare la fiducia nei buoni, il terrore per spazzar via le mene dei malvagi.
Una visione tropo schematica, troppo semplicistica?
Forse. È certo che Robespierre non sapeva quasi nulla di economia e di finanza, e non lo nascondeva. Però vedeva bene le difficoltà in cuoi versava il popolo, specialmente a Parigi; vedeva la miseria degli operai, degli artigiani salariati, delle famiglie dei coscritti mandati alle frontiere - un esercito enorme, nel 1794: qualcosa come 800.000 uomini, necessari per far fronte alla coalizione di quasi tutta l'Europa…
Non solo vedeva la miseria del popolo e lo spettacolo rivoltante dei ricchi che si arricchivano sempre più, a forza di speculazione e di aggiotaggio; vedeva anche profilarsi in distanza, dietro le vittorie tanto sbandierate da Carnot, la figura di un dittatore militare che avrebbe soppresso la libertà in cambio della sicurezza. E aveva buona vista, benché Napoleone Bonaparte, all'epoca, fosse solo uno sconosciuto ufficialetto corso, amico del suo fratello minore Augustin (circostanza che, dopo Termidoro, l'ambizioso avventuriero avrebbe fatto di tutto per cancellare).
Il Terrore, quindi, nella mente di Robespierre, non era fine a se steso. Era semplicemente lo strumento per intimorire i nemici della rivoluzione, occulti e palesi. Ma se, subito dopo la fine di lui, il Terrore è stato abolito dalla Convenzione termidoriana (peraltro, per venire subito sostituito dal Terrore bianco), la ragione è che aveva ormai esaurito il suo ufficio: quello di far ricadere sul solo Robespierre tutta l'odiosità del Tribunale rivoluzionario. Mentre è vero che Robespierre non amava il sangue e non godeva affatto all'idea di mandare la gente al patibolo: lo riteneva una dura necessità, e in più d'una occasione intervenne per la salvezza di questi o di quelli.
Guillemin, poi, sfata anche la leggenda (divulgata da Michelet) secondo cui Robespierre avrebbe subito terribili umiliazioni all'inzio della sua carriera di rivoluzionario, e che se ne sarebbe poi vendicato, allorché divenne  - de facto se non de jure - il capo supremo della Francia. Anche il ritratto convenzionale di un Robespierre malinconico, taciturno, freddo e dissimulatore, è da considerarsi sostanzialmente falso.
Come ricorderà sua sorella, anni dopo la scomparsa di lui, Maximilien era di carattere allegro e gli piaceva ridere e scherzare. Solo negli ultimi tempi della sua vita si era fatto cupo e pessimista:  aspettava la morte. L'aspettava, ma non la temeva.
A partire dall'aprile del 1794 - ossia, secondo la Vulgata, dal momento del suo maggior fulgore, con l'eliminazione delle opposte fazioni degli «arrabbiati» di Hébert e degli «indulgenti»di Danton -, Robespierre si era reso conto che la sua fine era ormai questione di tempo: di poco tempo, probabilmente.
Sapeva che i «briganti» - commissari in missione che si erano resi colpevoli di massacri e di saccheggi; convenzionali pronti a vendersi al migliore offerente; membri dei comitati mossi da implacabile ambizione personale e bisognosi di mascherare  inconfessabili speculazioni finanziarie - erano riusciti a invischiarlo nella loro rete, a screditarlo con l'affare della 'profetessa' Catherine Théot, a renderlo odioso per la ghigliottina e per il maximum sui salari, a dipingerlo segretamente come un mostro assetato di sangue e di potere.
Sapeva che il tuo tempo stava per finire, ma non temeva la morte.
Non la temeva perché ogni suo pensiero era sorretto da un profondo, incondizionato, vivissimo sentimento religioso; e dalla convinzione che solo affrontando il suo destino sino in fondo, e bevendo l'amaro calice del martirio, avrebbe potuto giovare al popolo sfruttato e affamato di giustizia, non meno che di pane, lasciandogli la forza del suo esempio.
Guillemin non lo dice, ma il confronto con la passione di Cristo - non sembri sacrilego questo paragone - emerge dalla forza stessa delle cose. Come Gesù, nel Vangelo di Giovanni, disse ai suoi discepoli, alla vigilia della fine, che «presto non lo avrebbero più visto», anche Robespierre pronunciò una frase quasi identica, rivolto ad alcuni fedelissimi, alla vigilia di quella tragica giornata alla Convenzione, il 9 Termidoro del 1794…

Robespierre mistico e votato consapevolmente al martirio, dunque.
Le prove?
Ve ne sono parecchie.
I chirurghi incaricati di bendargli la mascella fracassata da un proiettile (al momento dell'irruzione dei soldati convenzionali nell'Hotel de Ville), per non privare i suoi nemici dello spettacolo edificante della sua salita alla ghigliottina, riferiscono che l'Incorruttibile non emise un lamento, benché il dolore fisico dovesse essere atroce. Per tutto il tempo, dicono, Robespierre continuò a guardare in alto: ma, osserva sapidamente Guillemin, è piuttosto probabile che non lo facesse per contemplare le modanature del soffitto…
E poi altre, non poche.
Ancora alla vigilia della sua ricomparsa alla tribuna della Convenzione, dopo un'assenza di quarantatré giorni (una eternità di quei tempi, quando un'assenza di due o tre giorni poteva segnare la differenza tra la vita e la morte), Robespierre - riferiscono gli sbirri che avevano l'incarico di sorvegliarlo a distanza: lui, il preteso «dittatore» della Francia, che viveva in casa Duplay e girava per le strade di Parigi senza uno straccio di scorta - se ne andava a passeggio verso la campagna, con la sola compagnia del suo cane, e sedeva a lungo in riva alla Senna, immobile, meditando… o, forse, pregando.
Decisamente, non è l'atteggiamento di uno che ha paura di morire.
Se i suoi nemici avessero avuto un briciolo di coraggio fisico, avrebbero potuto spacciarlo in qualunque momento, senza incontrare la minima difficoltà. Ma a loro non bastava eliminarlo fisicamente: dovevano anche, e soprattutto, estirparne la leggenda dal cuore di migliaia, di milioni di umili membri del popolo lavoratore.
Robespierre, con la sua parrucca debitamente incipriata e il suo vestito azzurro cielo, che si era fatto confezionare apposta per la grandiosa festa dell'Essere supremo - quello stesso vestito con cui verrà messo in stato d'accusa e, poi, dichiarato nemico pubblico e mandato a morte - amava le persone semplici e virtuose, come il falegname Duplay e la sua eroica famiglia.
Amava i lavoratori con i calli sulle mani, ma - alieno dalla demagogia - voleva innalzarli materialmente e spiritualmente, senza lusingarli nelle loro debolezze o fare leva sui loro bassi istinti.
Era convinto che solo la virtù avrebbe potuto preservare lo spirito migliore della rivoluzione; e che solo il sentimento religioso avrebbe custodito la fiammella della virtù. Per cui, una volta che la rivoluzione aveva rovesciato il cattolicesimo (cosa di cui non si compiaceva e, meno ancora, si vantava), era indispensabile affrettarsi a fornire al popolo una nuova religione: altrimenti, nella voragine morale aperta dall'ateismo, l'intero edificio della rivoluzione avrebbe cominciato a franare…
Un solo episodio, ma emblematico. Fra i primi prigionieri a essere liberati dalle galere dopo la morte del «tiranno» c'era il marchese De Sade: e la sua liberazione parve la liberazione di un martire del libero pensiero. Così, almeno, qualcuno cercò di presentarla; e così la dipinse il diretto interessato. Meno male, si disse, che il mostro sanguinario era stato tolto di mezzo: finalmente sarebbe tornata la libertà…
Dopotutto, Robespierre non aveva forse tutti i torti quando aveva messo in guardia che, privata del sostegno della religione, anche la morale sarebbe andata in pezzi. Per questo si era opposto, con tutte le sue forze, all'ondata crescente della scristianizzazione (attirandosi l'odio implacabile degli enragés), che aveva raggiunto la massima intensità negli ultimi mesi del 1793. I sanculotti, in fondo, non erano veramente interessati a quella battaglia: per loro, il problema vero era il caro vita, divenuto sempre più insopportabile.
Gli intellettuali, invece, non glie l'avevano perdonata. Già lo tenevano d'occhio perché, in quanto seguace di Rousseau, non mostrava alcuna stima per le teorie di Voltaire, l'idolo dei salotti della «brava gente» (si fa per dire). Adesso, poi, che difendeva il clero (tanto da accettare l'invito di una famiglia amica di tenere a battesimo il loro bambino), aveva realmente passato il segno. Per dirla con il filosofo Condorcet, portavoce di quei salotti illuministi nel segno del più rigoroso razionalismo: «Robespierre è un prete e non sarà mai altro che un prete».
Ma è falso, sostiene Guillemin, che egli abbia voluto restaurare il cattolicesimo; così come manca il bersaglio Mathiez, quando afferma che il culto dell'Essere Supremo, per lui, era solo un espediente per ricompattare moralmente il popolo di Francia.
No, non era affatto un espediente: al contrario, era il cuore della sua concezione politico-religiosa.
La fine di Robespierre iniziò la sera della festa dell'Essere Supremo, con la gazzarra organizzata  contro di lui dai suoi nemici occulti, che sparsero ad arte la voce che egli voleva farsi papa della rivoluzione.

Nel suo Robespierre politico e mistico (ed. cit., pp. 407-09), Guillemin, nel tracciare un bilancio finale delle idee di Robespierre e della sua azione politica, scrive:

Robespierre non è uno di quelli che, pur credendo in Dio, pensano che questo «credo» non impegni a niente, seppur non si riduce a semplice forma, a u innocuo omaggio ala tradizione, all'osservanza di riti spogliati del loro significato. È invece uno di quelli per i quali questa fede, quando è, come la sua, sincera e ardente, comporta un impegno di tutto l'essere. Robespierre crede in Dio «con tutta la sua anima, con tutta la sua vita» (Bernanos). Ciò che scriverà un giorno François Mauriac in una pagina del suo diario, Robespierre avrebbe potuto scriverlo nei medesimi termini; io sono, scriveva Mauriac, immerso nella politica del mio paese (e schierato, non senza coraggio), un uomo«impegnato nei problemi di quaggiù per ragioni di lassù». Robespierre è un uomo che ha fatto in segreto, e fors'anche inconsciamente, un patto con Dio, che ha dato la sua parola,  pronunciato nel suo cuore, senza aver bisogno di parole, non so quale imprescrittibile giuramento. La sua volontà aderisce interamente alla sollecitazione della sua natura; è quello che chiama «l'istinto sacro» che vive in lui, indistruttibile. In un mondo del quale ha subito in misura crescente l'opacità, l'aridità, in un mondo cieco e sordo, dedalo notturno, insieme sovraffollato e vuoto in cui la creatura, a sua insaputa, muore d'ignoranza, di separazione, di cattiveria, Maximilien Robespierre si sente investito di una missione. La sua vocazione - che gli brucia in fondo al cuore come una fiamma -, è quella di dare un significato alla Storia, restituendo all'uomo (come Jean-Jacques ha tentato di fare con i suoi scritti, e lui tenta di fare con i suoi atti) la sua «dignità». Questa dignità - pegno di salvezza e unica promessa di felicità futura - risiede nella scoperta della parentela che ha con la sua Origine, cioè nella accoglienza fata a Dio. Un cuore che si apre a Dio è conquistato per il bene pubblico. Esso si integra alla collettività per far sì che essa si unisca in una collaborazione fraterna per mezzo di ciò che ogni creatura ha, al tempo stesso, di più intimo e di più simile a ogni altra. Ricordatevi, sulla città futura, i commoventi «vogliamo» messi in fila da Maximilien il 5 febbraio 1794; la società abitabile, dove regnerà la giustizia, dove la generosità si sostituirà all'avarizia, il dovere alle convenienze, dove le persone buone sostituiranno la buona società, non ha alcuna possibilità di nascere quaggiù s i suoi membri non hanno ritrovato il senso del divino. Il ruolo assegnato da Robespierre è, prima di tutto, quello di un testimone. Ha mai creduto possibile, concepibile, realizzabile quella trasfigurazione degli uomini che è, in fondo, il suo scopo? Un giorno - era il 3 dicembre 1792 - ha guardato in faccia e indicato col dito questa «contraddizione» invincibile, che fa, dice, la nostra disgrazia, tra «la depravazione dei nostri spiriti» e «l'energia di carattere che suppone il governo libero al quale osiamo ambire»; «per formare le nostre istituzioni politiche, sarebbero necessari i costumi che queste stesse istituzioni dovrebbero darci». Eco immediata, nel pensiero di Robespierre, del Contratto sociale nel quale Jean-Jacques ha visto fin troppo bene l'insolubile nodo del dramma; per riuscire nella costruzione di uno Stato giusto, «bisognerebbe che gli uomini fossero, prima delle leggi, ciò che devono divenire grazie a loro». Robespierre vuole una Repubblica «nella quale tutte le anime si ingrandiranno», e dovrebbero già esser grandi perché si attui il movimento che consentirà alla razza umana di «adempiere al suo destino».
Ma in fin dei conti, ma insomma, esistono altri esseri viventi (oltre a lui) che hanno già, per il loro disinteresse, il loro civismo, la loro completa buona volontà, la capacità di rendere concreta la Repubblica dei suoi sogni. I Duplay prima di tutti, tutta quella ammirevole famiglia, e Lebas, e altri che conosce Saint-Just? Non è di un ottimismo esemplare Saint-Just, che dice a voce alta il suo scetticismo: «Il Terrore può sbarazzarci della monarchia e dell'aristocrazia,. Ma cosa ci libererà dalla corruzione?». Assurdamente, appassionatamente Maximilien aveva conservato la speranza sino al giorno, sino al terribile giorno… Abbiamo assistito a questo dramma.  Ha voluto andare troppo in fretta, ha commesso un errore, un colpevole errore, volendo far riconoscere dalla nazione degli assiomi che essa non lo aveva affatto incaricato di proclamare. Jaurès ha un bel condividere il pensiero profondo di Robespierre, egli disapprova il decreto del 18 floreale che gli apparirà - a ragione - come un abuso di potere, come l'instaurazione, inaccettabile, di una religione di Stato. L'8 giugno, in occasione della nuova «Fête-Dieu» immaginata, realizzata da Maximilien, sopraggiunge la catastrofe. Tutto era cominciato così bene, in un'atmosfera radiosa! Una felicità da non crederci. Allora era vero! Era stato capito! L'avrebbero seguito! Poi, all'improvviso, quelle grida, dirette contro di lui, come una lapidazione. L'implacabile rifiuto. La violenza del No. L'annuncio, che gli viene dato, di uno sbarramento insuperabile. L'ingiunzione di non insistere più, di ritirarsi e tacere. E in effetti Robespierre si ritira; le feste decadarie, delle quali aveva proposto, il 7 maggio, un elenco dettagliato, non saranno più ricordate. L'8 giugno 1794 è la dimostrazione del suo fallimento. Quale sinistra distanza tra la fisionomia illuminata di gioia che aveva mostrato la mattina dell'8 e il viso segnato, minaccioso, che oppone che oppone quattro giorni dopo a Bourdon de l'Oise. Uno scoraggiamento senza nome lo opprime. A che cosa servono le sue responsabilità ufficiali? Non si mostrerà più al Comitato di salute pubblica se non di passaggio e per salvare la forma, fino al 26 luglio in cui deciderà di farla finita.

Sì, ci sembra che Guillemin abbia colto nel segno, quando indica il tratto decisivo della personalità politica di Robespierre nella sua volontà di mobilitare le risorse morali del popolo al fine di edificare un tipo umano diverso e migliore: più altruista, più aperto ai doveri sociali, più sensibile alla libertà e alla giustizia; in breve, con «un'anima più grande». E lui, lui per primo, ci credeva così tanto, da aver fatto della sua vita (e come avrebbe fatto, da ultimo, della sua morte) una offerta suprema sull'altare di un simile ideale.
Questo, però, è precisamente quanto i suoi detrattori continuano ad imputargli.
Robespierre, per loro, era uno spietato tiranno, e forse un folle, appunto perché non teneva conto della natura umana e non rispettava l'ambivalenza strutturale che la contraddistingue. Essi fanno notare che la «virtù» non si può insegnare a colpi di ghigliottina; e che, d'altra parte, l'ambizione di creare «l'uomo nuovo» è l'essenza del disegno totalitario.
Di più: la sua costante, quasi ossessiva preoccupazione di far sì che lo Stato sia educatore del popolo, prima ancora che legislatore, evoca i fantasmi dello «Stato etico» i quali, in clima di esasperato individualismo borghese - quali sono quelli in cui viviamo - irritano ancora di più, se possibile, dei fantasmi del nazismo e dello stalinismo. Lo Stato, si dice, non deve affatto stabilire che cosa sia il bene e tanto meno farsene custode e sorvegliante. Ogni cittadino ha il diritto di cercare il proprio bene, e allo Stato non deve rimanere altro compito che quello del notaio: prendere atto di questa pluralità di diritti, garantirla e tutelarla.

Aveva dunque torto, Maximilien, con la sua ossessione per la virtù e con la pretesa che i governanti siano i primi a darne l'esempio e che paghino senza sconti, se cedono alle lusinghe del denaro e di una facile popolarità, dando così il cattivo esempio?
Dobbiamo concludere che una pessima democrazia sarà pur sempre meglio di una dittatura ottimamente intenzionata; e che è preferibile essere governati da dei cinici furfanti piuttosto che da degli uomini incorruttibili, ma decisi a imporre il civismo e l'onestà con ogni mezzo, compresa la forza?
E, più in generale, è vero che la contraddizione fondamentale della politica è che essa presuppone nei cittadini di una data società il possesso di quelle stesse virtù che solo delle buone leggi, e una lunga consuetudine con esse, possono - gradualmente - formare?
Noi, lo ammettiamo, non abbiamo in tasca la risposta a simili interrogativi.
Robespierre, spirito profondamente religioso, sentiva la debolezza ontologica della natura umana, ma pensava che solo con l'apertura esistenziale al divino, tale debolezza può venire compensata. È  per questo che rimase sempre fedele, a rischio della vita, al suo ideale di una Repubblica ispirata da una profonda religiosità popolare.
Ma le contraddizioni rimangono, come ferite aperte.
Se gli uomini puri sono impegnati «nelle cose di quaggiù per delle ragioni di lassù», bisogna rassegnarsi al pragmatismo di coloro i quali non hanno altro orizzonte che il proprio vantaggio, e preferirlo alla virtù di questi mistici i quali, se andassero al potere, vorrebbero rendere gli uomini migliori, riempiendo le ceste della ghigliottina?
L'unica possibile risposta, crediamo - parziale e insoddisfacente, lo riconosciamo di buon grado - non può consistere che in un profondo ripensamento del dilemma in cui venne a trovarsi Robespierre nel 1793-94.
La politica non può vivere senza una componente di idealismo, di disinteresse, di purezza d'intenti da parte di coloro che la praticano; altrimenti si riduce a un gioco meschino intorno alle posizioni di potere.
Ma, d'altra parte, questa componente di idealismo e di purezza deve tener conto dei tempi lunghi e dei meccanismi estremamente complessi dell'evoluzione spirituale degli esseri umani; che può essere, sì, favorita dalle buone leggi e dalla buona politica, ma non promossa per decreto e neanche imposta dall'alto, collettivamente, a tappe forzate.
Perché, anche se si realizza nella collettività, la conquista della virtù è sempre un fatto individuale, nel quale ogni essere umano, a un certo punto, si trova a fare i conti con se stesso e compie una scelta etica fondamentale.
Non esistono scorciatoie, di nessun tipo.
Esistono però delle condizioni generali - e il buon esempio dei politici e degli amministratori ne è parte non secondaria - le quali possono favorire tale presa di coscienza e aiutare gli individui, e specialmente i giovani, a orientare le loro vite in direzione dell'altruismo, della solidarietà, della condivisione, piuttosto che in quella dell'egoismo, del cinismo e dell'indifferenza.
Che è quello che sta avvenendo oggi: con la complicità interessata di quegli intellettuali che, criticando il robespierrismo per la sua astrattezza dottrinaria, vorrebbero in realtà abituarci alla rassegnazione nei confronti di una classe politica totalmente sprofondata nei giochi di potere e nel perseguimento di inconfessabili vantaggi personali.



Già pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/08/2008


Del 16 Dicembre 2017

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