Paolo Santarcangeli


Beato chi, come Teseo, potrà uscire dal suo labirinto personale una volta per sempre. Ma la vicenda dell'uomo a cui non arride tanto favore degli dèi è più grave, quindi il suo errare sarà lungo quanto la vita. Eppure, l'aver raggiunto la camera segreta anche una sola volta - per illuminazione spirituale o per una meditazione perfetta - modificherà la sua coscienza per sempre: «Chi è stato felice una volta, non potrà mai essere distrutto».


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Entrare nel labirinto è collocarsi in na solitudine volontaria: è accettare i rigiri e i rigori ignoti della sorte e tentare la soluzione rifiutando ogni aiuto che non sia quello della propria mente: infatti, anche se ci troveremo nella felice condizione di stringere tra le dita un filo di guida, lo dovremo ancora, in ultima analisi, a noi stessi. L'Arianna favolosa che avrà abbastanza pietà o amore per noi verrà a premiare il nostro valore.
Tuttavia, quella solitudine sarà una Einsamkeit e non un Alleinsein, secondo la distinzione di Hölderlin: un essere soli ma non abbandonati. Sarà uno stato cercato, voluto, scelto come via per spiegare a se stessi il proprio mistero, nel corso di una peregrinazione impedita, compiuta in uno stato di veglia, anzi in uno stato di massima attenzione, per arrivare a una situazione di salvezza. Lontani dal mondo, noi ci troveremo presi in un avanzare che è attività del cercatore di sé, del perché di Dio, molto simile a quella volontà di separare se stesso dal mondo che anima l'eremita o l'anacoreta. È un modo di sfuggire alla sorte «per acquistare conoscenza»; una discesa agli Inferi, una nekyia: una decisione di entrare nella caverna e nei suoi inganni sotterranei con la volontà di sottrarre se stessi, sia pure precariamente, agli inganni del mondo di sopra. La stessa angoscia, la vertigine di non avere nessuno né davanti né dietro né a fianco di sé, ma solo un cammino malsicuro e tortuoso che si apre davanti ai propri passi esitanti e pareti di caverna tutt'intorno, si trasforma in una più piena coscienza di sé nella consapevolezza che, con la perseveranza, con la fiducia, con il filo che avremo avuto da quell'Arianna dal serto luminoso che dimora nel nostro cuore, noi sapremo arrivare fino alla camera del mistero. Vi troveremo un tesoro? Lo prenderemo. Vi troveremo un mostro? Lo uccideremo.

Nel labirinto - lo abbiamo già detto -si abolisce anche il tempo: è «tenebra sanza tempo tinta»; e lo sapeva il Poeta, quando entrò nelle viscere della Terra per compiere il grande viaggio. L'importante è che, al termine del cammino, si torni «a riveder le stelle». La conquista umana del sapere - il rinvenimento del Centro, del locus absconditus - è il solo approdo possibile e sensibile; è un uscire dalle tenebre; è la conquista della chiarezza dopo avere oltrepassato le acque infernali. Ovviamente, questo tipo di rappresentazione dell'iter mistico della conoscenza è particolarmente presente nell'animo dell'uomo religioso; era quanto sperimentavano in modo plastico ed evidente coloro che percorrevano l’hieros odòs dei santuari; è quanto sperimenta ancora chi percorre, per esempio, la via lunga che era prescritta agli adepti nell'Asclepion di Pergamo. Il peregrinare è tortuoso e accidentato; ma, al termine di una lunga galleria - di cui anche oggi si ritrova il percorso tra le rovine del santuario-s'incontra la fonte della Gioventù eterna, proprio al limitare di quella che era stata la camera segreta: solo rumori, il leggero strisciare del vento sull'erba alta, sulla gramigna, e il verso schioccante delle rare cicogne bianche e nere, là in alto, sui mozziconi delle mura.



Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti (Frassinelli editore 2005, pag. 299 – 300)