De Gasperi al bivio tra Vienna e Roma
Il calvario del Trentino nella Grande guerra sgretolò la sua fedeltà agli Asburgo. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia molti civili trentini furono deportati dalle autorità imperiali
Aveva difeso l’identità italiana del
Trentino contro il pangermanesimo, tanto da essere arrestato a Innsbruck
nel 1904 in seguito a tafferugli studenteschi. Ma rivendicava la sua
lealtà verso gli Asburgo, dissentiva dagli irredentisti che, come Cesare
Battisti, volevano congiungersi all’Italia. Per Alcide De Gasperi la
Prima guerra mondiale fu una prova dolorosa e per la sua gente fu un
trauma brutale, con costi umani tra i più alti in Europa. A sessant’anni
dalla scomparsa dello statista e nel centenario della Grande guerra, la
Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, diretta da Beppe Tognon, ricorda
insieme le due date. La conferenza che si tiene regolarmente a Pieve
Tesino, paese natale di De Gasperi, nella ricorrenza della sua morte (19
agosto 1954) è stata affidata a due studiosi, Maurizio Cau e Marco
Mondini, che il 18 agosto hanno rievocato il fatale 1914 e le vicende
successive.
«De
Gasperi, eletto al Parlamento di Vienna nel 1911, non metteva in
discussione l’appartenenza della sua terra all’Austria-Ungheria, ma si
era battuto, senza successo, perché il Trentino avesse un ordinamento
autonomo e non dipendesse più dal Tirolo austriaco: capì subito che la
guerra esponeva quella regione a rischi enormi», ricorda Cau, che è
stato tra i curatori degli scritti politici degasperiani. Prima
dell’intervento italiano contro l’Impero asburgico, aggiunge, De Gasperi
fu molto attivo: «Si recò più volte a Roma, incontrò l’ambasciatore
austriaco, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il Papa Benedetto
XV. In quei mesi si ipotizzava che Vienna cedesse il Trentino ai Savoia
in cambio della neutralità e De Gasperi cercò di inserirsi nella
trattativa per tutelare gli interessi della regione. Ma l’entrata in
guerra dell’Italia pose fine ai suoi sforzi».
Nel frattempo il conflitto aveva già investito la sua terra in modo pesantissimo, osserva Mondini, autore del libro La guerra italiana (Il
Mulino): «Nel 1914 i trentini si presentarono in massa ai centri di
reclutamento: renitenti e disertori furono poche centinaia su 55-60 mila
uomini chiamati alle armi durante la guerra, una cifra enorme per una
regione che contava 350 mila abitanti. Spaventose le perdite in Galizia
(oggi in Ucraina), dove quei reparti furono mandati al macello per
tamponare la prima offensiva russa: al termine del conflitto i caduti
trentini furono oltre 11 mila, il 20 per cento dei mobilitati, mentre
nel resto d’Europa furono tra il 10 e il 15 per cento e nel Regno
d?Italia meno del 13».
Il peggio però venne dopo il maggio 1915,
sottolinea Mondini, quando ogni trentino diventò sospetto agli occhi
delle autorità austriache. «Cominciarono vessazioni sistematiche, con la
militarizzazione del territorio, l’internamento in prigionia
dell’intera classe dirigente (circa 2.500 persone, compreso il vescovo
di Trento Celestino Endrici), lo sfollamento e la deportazione di oltre
75 mila civili verso località austriache e ceche. La fedeltà
all’imperatore, solida all’inizio del conflitto, prese ben presto a
sgretolarsi nel cuore di molti, tra cui De Gasperi». Il deputato
cattolico, racconta Cau, subì la chiusura del giornale «Il Trentino», di
cui era divenuto direttore a soli 23 anni nel 1904, ma evitò
l’internamento: «Si trasferì a Vienna nel 1915 per dimostrare la sua
lealtà alla corona. E ciò gli consentì di prestare assistenza ai
deportati. False sono le accuse, che gli vennero poi rivolte dai
fascisti, di aver appoggiato lo sforzo bellico austriaco. Gli anni di
guerra furono per De Gasperi “l’ora di Dio?”, un periodo tragico in cui
preferì sospendere il giudizio e rimettersi alla divina provvidenza,
impiegando ogni energia per alleviare le sofferenze dei suoi
conterranei. Uscì allo scoperto solo alla fine del conflitto: con gli
ultimi due discorsi al Parlamento di Vienna, nell’ottobre 1918, non solo
denunciò con forza la repressione contro le popolazioni trentine, ma
prese di fatto congedo da un Impero in dissoluzione. Ormai si trattava
di difendere la stessa causa autonomista in un altro contesto, sotto il
tricolore italiano».
In Trentino, nota Mondini, il ritorno alla normalità
fu lungo e difficile: «Migliaia di soldati arruolati nell’esercito
asburgico erano caduti nelle mani dei russi e furono coinvolti nel caos
della rivoluzione bolscevica. Con l’aiuto di missioni militari italiane,
alcuni trentini tornarono in Europa dalla Siberia imbarcandosi in Cina;
altri passarono attraverso gli Stati Uniti; altri ancora parteciparono
ai conflitti interni russi e cinesi. Gli ultimi rientri furono alla metà
degli anni Venti». E De Gasperi? «S’inserì presto nella vita politica
italiana, quale mediatore in una fase di transizione che i governi
liberali gestirono in modo morbido e tollerante. In Trentino e nello
stesso Alto Adige di lingua tedesca non vi fu un’epurazione dei
dipendenti statali che avevano lavorato per il regime asburgico, al
contrario di quanto avvenne in Francia nelle regioni recuperate di
Alsazia e Lorena. Gli stessi sudtirolesi all’inizio non erano così
scontenti di essere passati sotto l’Italia, poiché ciò li sottraeva
all’obbligo di pagare le pesanti riparazioni di guerra imposte
all’Austria. Tutto mutò poi con il fascismo, che attuò una politica di
italianizzazione forzata. Credo che quella esperienza dei guasti cui
possono portare i nazionalismi esasperati nelle zone di confine abbia
convinto De Gasperi che fosse necessario disinnescare i contrasti etnici
valorizzando le autonomie regionali, come fece poi, da capo del
governo, dopo il secondo conflitto mondiale».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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1 settembre 2014 | 21:09
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