di Piero Brunello
Pubblichiamo l'intervento tenuto da
Piero Brunello al convegno “Memory and Place in the Twentieth Century
Italian City” (Londra 29-30 aprile 2005).
Per molti secoli la memoria si basava
sulla capacità di collocare termini astratti, eventi, date, concetti
eccetera in immaginari luoghi fisici, concreti: si immaginava cioè uno
spazio suddiviso in tanti luoghi – per esempio un palazzo o un teatro
con stanze, passaggi, nicchie e statue – e si abbinava a ciascun luogo
un sillogismo, una formula, un nome o il verso di una poesia, e così lo
si poteva ricordare più facilmente. Forse non c’è memoria senza luoghi, e
non ci sono luoghi senza memoria. Qui mi limito a due tre osservazioni
su un aspetto particolare. Cerco cioè di capire cosa succede quando in
uno stesso luogo ci sono memorie diverse: nelle città italiane del XX
secolo, sulle quali sono invitato a dire qualcosa, si tratta di un caso
comune.
1. Italo Calvino nelle sue
Città invisibili
scrive che la città di Leandra è protetta da dei di due tipi – dei così
piccoli che non si vedono e così numerosi che non si possono contare.
Gli uni stanno sulla porta delle case o all’entrata, vicino
all’attaccapanni e al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie.
Gli altri invece vivono nelle cucine: fanno parte della casa, e quando
la famiglia se ne va, restano con i nuovi inquilini. I primi sono i
Penati; i secondi sono i Lari. I primi, i Penati, sono in movimento
perché cambiano di casa al seguito delle famiglie. I secondi invece, i
Lari, non si muovono mai: se butti giù una vecchia casa per costruire un
grande casermone, i Penati rimangono, anzi si moltiplicano nelle cucine
di altrettanti appartamenti – forse erano già lì quando la casa non
c’era ancora, tra le erbacce di un’area fabbricabile. Lari e Penati si
assomigliano; tra di loro parlano e discutono, spesso litigano. "I
Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono
arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra con sé quando emigrano. I
Lari considerano i Penati provvisori, importuni, invadenti; la vera
Leandra è la loro, che dà forma a tutto quello che contiene, la Leandra
che era lì prima che tutti questi intrusi arrivassero e resterà quando
tutti se ne saranno andati. In comune hanno questo: che su quanto
succede in famiglia e in città trovano sempre da ridire, i Penati
tirando in ballo i vecchi, i bisnonni, le prozie, la famiglia d’una
volta, i Lari l’ambiente com’era prima che lo rovinassero. Ma non è
detto che vivano solo di ricordi: almanaccano progetti sulla carriera
che faranno i bambini da grandi (i Penati), su cosa potrebbe diventare
quella casa o quella zona (i Lari) se fosse in buone mani. A tendere
l’orecchio, specie di notte, nelle case di Leandra, li senti parlottare
fitto fitto, darsi sulla voce, rimandarsi motteggi, sbuffi, risatine
ironiche”
1.
Il documentario sul terremoto di Napoli di Nick Dines
2
racconta il trasferimento di molte famiglie dalle zone popolari della
città alle nuove costruzioni sorte nelle periferie. I Lari delle
periferie rimpiangono la campagna e i piccoli paesi che c’erano prima
che costruissero i nuovi quartieri anonimi e invasivi; i Penati che
hanno seguito le famiglie rimpiangono a loro volta i luoghi e le
relazioni che hanno dovuto abbandonare – si guardano attorno, osservano
il nuovo ambiente in cui sono capitati e non lo riconoscono.
Nel documentario di Laura Cerasi su Marghera
3,
i Lari della campagna e del quartiere che confina con le fabbriche
rimpiangono l’ambiente prima delle industrie e lamentano che i nuovi
arrivati – i Penati delle ciminiere – si sono comportati in modo
invadente e senza rispetto: per fortuna – dicono – sono Altrochemestre
provvisori, meno di un secolo, fra un po’ se ne andranno e la zona
tornerà a essere quello che è nel profondo, quello che è sempre stata. A
Marghera c’è una strada a due carreggiate divise in mezzo da un’aiola
spartitraffico, lunga più di due chilometri. È fatta per macchine, per
camion, per autobus. Attraversarla a piedi da un lato all’altro è quasi
impossibile. È uno dei tanti confini della città. In questo caso il
confine corre tra il quartiere di Marghera e la terraferma da una parte,
e le fabbriche di Porto Marghera e la laguna dall’altro. Se il vento
viene dalla laguna, qui capita di sentire un odore di creme bruciate
misto a povere di carbone con un retrogusto acido
4.
I Lari e i Penati si mettono lungo i lati opposti della strada, nelle
corsie di emergenza perché non ci sono marciapiedi, gli uni contro gli
altri e cominciano a gridare. I Penati fanno suonare le sirene delle
fabbriche. I Lari diffondono dal sound system una canzone reggae che
inneggia a Porto Marghera trasformato in campi di marijuana
5.
2. A Marghera non è
sempre stato così come avviene oggi, e come Laura Cerasi documenta nel
suo video. La città costruita attorno alle fabbriche è una città che
ripartisce individui, ceti, classi, generi, gruppi professionali. Fino
al XVII secolo i vagabondi e i mendicanti vengono rinchiusi negli ospizi
e messi a lavorare, e non ci si preoccupa dove vivono e dove dormono;
poi, a un certo punto il proletariato urbano viene controllato ed
educato sia nei luoghi di lavoro che in quelli di residenza. È la città,
e non solo la fabbrica, a diventare un luogo di controllo sociale. In
alcune scuole si impara a fare i capi reparto, in altre si impara un
mestiere; il figlio subentra nel posto di lavoro al padre; i bambini
vanno in vacanza nelle colonie estive della fabbrica; succede che il
padrone della fabbrica sia anche il padrone della casa, e così via. Se
nelle famiglie e nelle scuole si impara a diventare operai, nelle
fabbriche si diventa uomini. I ruoli e le gerarchie prodotte dal sistema
di fabbrica si riflettono nei quartieri, nei materiali edilizi,
nell’architettura, nel tipo di relazioni sociali e famigliari. Sorgono
aree separate per impiegati (villini), capi operai (casette isolate),
operai (case operaie); ancora più in là, ci finiscono i disoccupati
(casette minime). Le case degli impiegati prevedono il bagno e l’acqua,
mentre nei “villaggi rurali” il bagno è esterno e serve due famiglie, e
l’acqua si prende dalle fontane. Ciascun quartiere ha la chiesa che gli
spetta. Quartieri operai avranno la chiesa di san Giuseppe artigiano o
di Cristo lavoratore; i quartieri-bene avranno una chiesa-bene, e il
centro il duomo; quartieri di periferia avranno una chiesa in
prefabbricato, adatta alla retorica della frontiera, eccetera
6.
È il movimento operaio a rompere questa
segregazione sociale e spaziale. Presidia i confini simbolici che ogni
città sa riconoscere al proprio interno – strade, binari ferroviari,
ponti, cavalcavia –, e lì accende fuochi. Fa baccano dove è previsto
silenzio o rumori del traffico: batte tamburi, suona fischietti, lancia
slogan, canta canzoni. Quello che è previsto debba restare al margine si
insedia al centro. Percorre a piedi le strade assegnate agli autobus e
alle macchine. Costruisce relazioni di solidarietà in luoghi volti al
controllo, alla frantumazione sociale e al disciplinamento. Penati e
Lari ne approfittano per attraversare la strada, ballare assieme e
cantare le stesse canzoni: continuano ad avere memoria di cose diverse,
ma non gliene importa, perché condividono la stessa idea di futuro
7.
3. Le vicende che
hanno interessato Marghera sono avvenute in altre città industriali del
Novecento. Nel filmato di John Foot su Milano
8,
chiunque abbia più di quarant’anni ricorda i confini di una città che
sfumava nei campi (le coltivazioni di lamponi, le ville padronali), o
meglio ricorda una città che aveva confini – segnati dalla fabbrica,
dalla campagna e dalla ferrovia. I Lari di Milano, nel filmato di John
Foot, ricordano esperienze e luoghi di donne e di bambini – lavori negli
orti e giochi nei cortili. I Penati invece, seguono gli uomini adulti
che a orari determinati entrano ed escono dalle fabbriche; di
conseguenza, a differenza dei Lari, i Penati conservano il ricordo di
percorsi e di luoghi maschili. Ma anche a Milano, come a Marghera, i
Lari ricordano che in quei tempi tutta la città, e non solo gli operai,
si regolavano sul suono delle sirene. Una donna che gestiva con il
marito un negozio di tabacchi, racconta i fiumi di operai che passavano a
ore fisse davanti casa, ed entravano per comperare le sigarette – anche
una sola, dentro una bustina.
4. I Penati non sono
tutti uguali tra di loro, e non sempre tra di loro vanno d’accordo. In
un paese come l’Italia i Penati hanno viaggiato per il mondo, seguendo
le famiglie per più generazioni: hanno accompagnato i bisnonni lungo le
ferrovie delle pianure, fin dentro le foreste tropicali, nelle
piantagioni di caffè e di canna da zucchero; hanno seguito i genitori
nelle miniere di carbone, nelle fabbriche di automobili e nei quartieri
di enormi città; e infine hanno fatto compagnia ai figli, lungo
oleodotti nel deserto e sulle dighe nei grandi fiumi. Ma da circa una
generazione i Penati sono fermi sul pianerottolo di casa e vedono a loro
volta arrivare altri Penati, da altre parti del mondo, che parlano
altre lingue. I Penati del pianerottolo guardano verso la strada e si
sentono a casa; osservano con timore e con sufficienza gli altri Penati,
quelli appena arrivati, e li considerano estranei; preferiscono parlare
con i Lari. Adesso che sono fermi, dopo tanto viaggiare, amano
raccontare di quando andavano in giro per il mondo. Ai Lari piace
sentirli parlare; anzi, spesso succede che i Lari li lascino parlare a
loro nome. I Lari dicono: le storie dei nostri Penati sono le nostre, e
viceversa. Mentre ricordano vicende passate, i racconti rendono estranei
i nuovi arrivati e dicono loro come devono comportarsi
9.
Post scriptum.
Finirei qui. Cambiando registro, potrei forse aggiungere che le vicende
alle quali ho accennato alla fine, parlando dei Penati sul
pianerottolo, sono legate ai cambiamenti nel rapporto tra città e
fabbrica. In una città industriale di ventimila abitanti come
Monfalcone, non lontana da Trieste, il cantiere navale della Fincantieri
ha circa duemila dipendenti diretti, e, secondo i momenti, due-tremila
operai che lavorano per piccolissime ditte in appalto. I dipendenti
diretti sono italiani; gli operai delle ditte in appalto sono
soprattutto stranieri (in primo luogo bengalesi, e poi croati e
albanesi), ma anche italiani immigrati dal sud Italia. Dentro il
cantiere navale i due gruppi – i dipendenti e i lavoratori delle ditte –
hanno orari e luoghi di lavoro differenti: tutto è organizzato in modo
che non si incontrino mai. Sono due popolazioni: i primi sono visibili, i
secondo invisibili. Le famiglie di Monfalcone, che provengono da
famiglie immigrate negli anni Venti del Novecento dal Veneto e più tardi
dalla Puglia, tendono a portare via i figli dalle scuole cittadine
perché non abbiano rapporti con i figli degli stranieri che lavorano
alla Fincantieri, e a iscriverli nei paesi vicini. D’altro canto la
comunità dei bengalesi, che a Monfalcone supera le cinquecento persone,
tende a chiudersi in se stessa, tanto che, rispetto ai primi tempi,
sempre meno bengalesi imparano l’italiano
10.
1 I. Calvino,
Le città invisibili, Mondadori, Milano 1997, pp. 78-79.
2 Fuggi fuggi. Memorie di un terremoto, regia di Nick Dines (2003).
3 Porto Marghera. Città nella città, regia di Laura Cerasi (2005). Cfr. L. Cerasi,
Dentro Porto Marghera fra storia e memoria, “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 171-176.
4 P. Brunello,
Via Fratelli Bandiera, “Altrochemestre”, 1 (1994), pp. 12-13.
5 Pitura Freska,
Marghera (1997).
6 D. Canciani,
Chiese e quartieri, “Altrochemestre. Storia e documentazione del tempo presente”, 2 (1994), pp. 32-35.
7 Riprendo da P. Brunello,
Una città disciplinare, “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 161-167, e rinvio a A. Casellato,
Con Propp a Marghera, ibid., pp. 167-170.
8 Ringhiera. Storie di una casa, regia di J. Foot (2004).
9 Rinvio a P. Brunello,
Memoria dell’emigrazione, memoria del lavoro, in
La memoria del lavoro. Atti del Convegno, Bergamo 4-5 dicembre 2001, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 59 (giugno 2003), pp. 171-176.
10
Devo queste considerazioni a chiacchierate informali con Lucia
Bignucolo, in treno sulla linea Mogliano-Venezia o prendendo un caffè
prima delle lezioni, e alla sua passione per l’inchiesta operaia; qui la
ringrazio per la sua generosità. Ringrazio anche Luigi Di Noia e
Filippo Perazza per l’intervento a un incontro sull’inchiesta operaia
promosso da storiAmestre e dall’Etam-animazione di comunità tenutosi a
Marghera.