domenica 6 novembre 2016

Feronia e la fontana del Fero a Verona



FERONIA I CARATTERI SCIAMANICI DI UNA DIVINITA’ MINORE ROMANA Feronia fa parte di una serie di figure femminili poste a tutela dei centri costieri del Latium vetus, l’odierno Lazio meridionale. Quasi controfigure spirituali dei megaliti dell’isola di Pasqua o a mo’ di più nostrane torri saracene, dee o donne dotate di poteri soprannaturali sono disposte a intervalli regolari per un arco di 150 chilometri: Minerva a Lavinio, Afrodite a Ardea, Mater Matuta a Satrico, Fortuna a Anzio, Circe e Venere al monte Circeo, Feronia a Terracina, Caieta a Gaeta, Marica a Minturno. Come se avessero il compito di difendere le coste da chissà quale invasore proveniente dal Mare Occidentale. Alcune di loro sono addette anche alla protezione dei naviganti. Così Fortuna a Anzio – presente ancora oggi nell’insegna cittadina – è definita da Orazio “signora delle liquide distese”, mentre Properzio la invoca dicendo: “nessuna Fortuna verrà a placare la tempesta di mare?” E la protezione dei naviganti, o un potere legato al mare, riguarda pure Feronia se Dionisio, per scovare un’etimologia, ne stravolge il nome e la chiama “Foronia da coloro che sono portati per mare”. Contemporaneamente, la tradizione ci presenta Feronia come dea delle selve. Virgilio scrive: “Feronia che gode del verde bosco”. E nei boschi sono localizzati diversi luoghi di culto, dal lucus romano del Campo Marzio – dove la dea ha il tempio accanto a quello di Fortuna – al più celebre lucus di Capena; e poi a Amiterno e Trebula Mutuesca in Sabina e a Pesaro nelle Marche. E la presenza di Feronia a Pesaro e di Fortuna a Fano ripropone sull’Adriatico la situazione vista sul Tirreno: che anche dal Mare Orientale arrivino intrusi indesiderati? In relazione al santuario di Terracina si hanno due notizie. La prima viene da Servio, che spiega perché la dea “gode del verde bosco”: in occasione di un incendio improvviso del bosco sacro, gli abitanti avrebbero voluto portarne via le immagini divine per collocarle altrove, ma il loro proposito incontrò la più ferma opposizione della diretta interessata, che fece rinverdire di colpo il bosco. La seconda è di Plinio: “Tra Terracina e il santuario di Feronia si è smesso di costruire torri, perché nessuna di loro si salvò dal fulmine”. Secondo Dumézil, in tutti e due i casi, “la dea esigeva questa lontananza dalla città, questa solitudine.” È così, certo, ma non è tutto; altri elementi di valutazione vengono dalle testimonianze di Livio relative ai due santuari del Campo Marzio romano e di Capena. La prima testimonianza sul tempio del Campo Marzio riguarda un episodio dell’anno 217 a.C. Annibale si prepara a muovere l’attacco decisivo a Roma; e il console Flaminio, che troverà la morte nella battaglia del lago Trasimeno, gli muove contro senza celebrare le Ferie Latine, senza compiere il sacrificio sul monte Albano, senza portare l’offerta votiva sul Campidoglio. Tutti riti prescritti e non eseguiti, tutti motivi di preoccupazione e di ansia, perché – come spiega Livio – “né gli auspici potevano accompagnare un cittadino privato, né costui, partito senza aver preso gli auspici, poteva prenderne di nuovi e validi in terra lontana da Roma. Accrescevano la paura le notizie di prodigi avvenuti nello stesso tempo in luoghi diversi: il cerchio del sole era apparso rimpicciolito, a Preneste erano caduti dal cielo sassi infiammati, a Arpi si era visto il sole combattere con la luna, a Capena durante il giorno erano sorte due lune… Si decise che le matrone, raccolta una somma di denaro, la recassero in dono a Giunone Regina sull’Aventino e che le schiave liberate raccogliessero denaro da offrire alla dea Feronia.” Si riferisce al santuario di Capena la seconda testimonianza di Livio relativa a un episodio del 211. Annibale ha stravinto a Canne e ora, persi oziosamente a Capua cinque anni, vuole ritentare la sorte e puntare, finalmente, su Roma: “Il giorno seguente Annibale, passato l’Aniene, dispose tutte le sue forze in ordine di battaglia; Flacco e i consoli non si ritrassero dal combattimento. Da una parte e dall’altra 2 gli eserciti erano schierati pronti allo scontro nel quale la città di Roma sarebbe stata premio al vincitore, quando una fortissima pioggia mista a grandine sconvolse talmente tutte e due le schiere che, conservando a stento le armi, i soldati si ritirarono negli accampamenti, presi da una gran paura di tutto, non inferiore a quella che incutevano i nemici. Il giorno dopo, nello stesso luogo, un eguale temporale disperse le truppe disposte a battaglia; ma appena i soldati si ritiravano negli alloggiamenti, il cielo ritornava tranquillo e mirabilmente sereno. Dai cartaginesi quel fatto fu attribuito a un prodigio e Annibale fu udito affermare che gli dei una volta gli avevano negato la volontà di impadronirsi di Roma, e un’altra volta, invece, non gli avevano concesso l’occasione fortunata.” I due giorni di pioggia di un temporale prodigioso che si alterna a un sereno mirabile, le due lune sorte in pieno giorno, le folgori che bruciano le torri da guerra e poi ancora il bosco fulmineamente rinverdito sono tutti prodigi che mostrano il “dominio del fuoco” di Feronia e, più in generale, il suo rapporto straordinario col mondo naturale e soprannaturale. Un rapporto simile a quello dello sciamano eschimese in grado di ottenere il bel tempo e “capace di arrestare le tempeste”; o a quello dello sciamano paviotso, del lontano Nord-ovest americano, che “può provocare la pioggia, arrestare le nubi, far fondere il ghiaccio dei fiumi”; o a quello dello sciamano ipurina, dell’America Meridionale, che “arresta piogge torrenziali” e “manda il suo doppio in cielo per spegnere le meteore che minacciano di bruciare l’universo”. Chiare manifestazioni di un “dominio sugli elementi atmosferici” in Groenlandia, nell’America settentrionale, in quella meridionale: in una parola, dovunque all’interno dell’universo sciamanico. Sul mondo naturale, poi, in particolare su quello vegetale, se Feronia è in grado di rinverdire prodigiosamente un bosco, gli sciamani ojibwa del Nord America hanno “il potere di far germogliare e crescere un chicco di grano sotto gli occhi dello spettatore o di far venire in un attimo rami di abete da montagne lontane”. D’altra parte, diverse testimonianze della tarda latinità definiscono Feronia “dea dei campi” e altre aggiungono “degli inferi”. Tutte sembrano ripetere l’informazione di Dionisio: “Vi è un santuario, comune a sabini e latini, dedicato alla venerata dea che chiamano Feronia; che alcuni traducono in greco come Anthophoros, “Portatrice di fiori”, altri Philostephanos, “Amante delle ghirlande”, e altri ancora Persephone.” Per quanti dubbi si possano avere sull’origine e sul significato del nome Persephone, è certo il collegamento della dea con gli Inferi; da cui si deduce che Feronia è – anche – un personaggio con caratteristiche infernali. Ma non solo, perché Persefone è la “luna, in quanto frequenta il sottoterra” – e il corsivo mette in rilievo l’opposizione della luna al sole e la sua dimestichezza con gli Inferi. Dunque Feronia è anche una divinità lunare, della luna che non appare, della luna che è sottoterra, della luna che è nell’aldilà. Qui si trova un elemento di comunione tra Feronia e Fortuna: la luna nuova – come ho spiegato altrove – rappresenta Fortuna in cielo, la luna che sta “sottoterra” rappresenta Feronia. Due lune reali, concrete, ma invisibili: la prima troppo vicina al sole, la seconda troppo lontana dal sole e occultata dalla terra. Festeggiate, però, in due templi contigui – nella cosiddetta area sacra di largo Argentina in Roma – e nello stesso giorno, il 13 novembre. Sul rapporto della dea con i fuochi terreni, invece, ecco la testimonianza di Strabone: “Ai piedi del monte Soratte c’è una città chiamata Feronia, come una divinità locale tenuta in grande venerazione dai popoli circostanti. Nel suo santuario, che sorge sul posto, si celebra una cerimonia portentosa, perché i posseduti dal demone camminano a piedi nudi su una vasta superficie di carboni e ceneri ardenti e non sentono alcun dolore. Una moltitudine di uomini si raccoglie qui per la festa popolare che si celebra ogni anno e per questo spettacolo.” È evidente il carattere sciamanico della “cerimonia portentosa”; basta ricordare l’esempio degli sciamani nord-americani “capaci di camminare sul fuoco.” È anche evidente che tra fulmini celesti, carboni ardenti disposti sul terreno, fuochi infernali Feronia mostra di 3 sentirsi a proprio agio nei tre livelli cosmici del Cielo, della Terra e degli Inferi. Nel caso del mitico Erulo, Virgilio sostiene che è stata la “madre Feronia” a conferirgli tre anime alla nascita; al contrario, Servio identifica Feronia con “Giunone Vergine”. Ora, come si può conciliare “maternità” con “verginità”? Forse solo attraverso la relazione specialissima tra gravidanza/parto e sciamano, al quale ci si rivolge “nei casi di sterilità o di parto difficile.” Relazione che si prolunga nei secoli fino ai lontani eredi dello sciamanesimo, a quei benandanti che, in pieno ’600, sono contrassegnati da qualche particolarità legata alla nascita. Il kresnik e lo zduhac sono nati con la camicia; il Negromanat ha la coda; il mogut è figlio di una donna che è morta nel partorirlo o che l’ha partorito dopo una gravidanza più lunga del normale.” Eredi lontani, che è possibile rintracciare persino alle soglie del XX secolo in una testimonianza raccolta ancora tra i ciukci siberiani, secondo la quale “la sposa del potente sciamano concepisce in pochi giorni!” Eredità che si prolunga – a ben vedere – anche nella figura della Madonna dei cattolici. Perché Madonna e Fortuna sono unite dal loro particolare rapporto con la divinità suprema. La prima, come qualsiasi rappresentante del genere umano, è figlia di Dio ma, al tempo stesso, è “Madre di Dio”. La seconda, innanzi tutto, è Primigenia, “Colei che non ha origine da un altro essere”; però allo stesso tempo è anche “figlia di Giove”, una figlia che tiene in grembo suo figlio Giove insieme a Giunone, con il primo che cerca la mammella come un lattante. I misteri della fede non nascono con la tradizione cristiana e la tradizione cristiana non nasce dal nulla. Si è visto che la prima testimonianza di Livio dice che le schiave liberate raccolsero del denaro e lo offrirono alla dea. Ecco un altro aspetto della sfaccettata figura di Feronia: il rapporto con gli schiavi, in particolare nel momento del passaggio alla libertà. Di cui si hanno altre conferme, la più importante a Terracina, dove avviene la cerimonia di liberazione degli schiavi e dove si trova un sedile di pietra con la scritta: GLI SCHIAVI CHE HANNO BEN MERITATO SEGGANO E SI ALZINO LIBERI. Feronia è proprio “la dea degli schiavi liberati, dei liberti” che, a capo rasato in segno di rinascita, ricevono il “berretto” degli uomini liberi. Analizzando questi dati, Dumézil ha posto in luce l’assimilazione tra schiavitù e morte nel pensiero degli antichi: “Lo schiavo è un uomo? La sua riduzione in schiavitù lo ha reso incapace, come un morto, di ogni azione giuridica: ‘la schiavitù va vista come la morte’, diranno i giuristi.” A conferma di questa “non vita”, lo studioso francese riporta l’opinione di Varrone, secondo la quale “l’agricoltura si avvale di tre tipi di strumenti: ‘la classe di strumenti che è articolata, l’inarticolata e la muta; l’articolata comprende gli schiavi, l’inarticolata i buoi, la muta i carri.’” E Dumézil conclude citando Plutarco che ci fa capire cosa rappresenta la liberazione dalla schiavitù: “un vero e proprio passaggio giuridico dal nulla all’essere, il passaggio morale da una forma superiore di animalità alla condizione umana.” Così Feronia è in rapporto con la schiavitù che è simile alla morte – ennesimo tratto sciamanico. Però, proprio sul rapporto con la schiavitù inizia a registrarsi la differenza tra Feronia e Fortuna, una differenza sottile – ma netta – tra chi protegge schiavi e servi. Nella realtà, Fortuna può “innalzare (qualcuno) dal niente agli onori più alti, ogni volta che vuole scherzare” o “se lo desidera, dare al prigioniero un trionfo e un regno allo schiavo” – come avviene nel caso più noto, quello di Servio Tullio. Ma la dea volubile si riserva sempre di cambiare idea e di “trasferire i suoi mutevoli favori” senza preavviso e a proprio insindacabile giudizio – anche se il termine “giudizio” non è il più adatto a definirne la imprevedibile e capricciosa condotta. Al contrario, la condotta di Feronia è meditata e coerente: se e quando arriva a concedere la libertà agli schiavi, la concede una volta per tutte, senza ripensamenti o pentimenti. Del resto, una dimostrazione di fermezza la dea l’ha data negli episodi ricordati prima: rifiutando il mutamento di sede e respingendo ogni continuità e vincolo con la città vicina al suo santuario. 4 È tale fermezza che invita a legare il nome di Feronia alla forma sanscrita dharana, una forma che indica genericamente l’azione di “tenere, sostenere, conservare (nella memoria); ritenzione, conservazione, protezione” e che deriva dalla radice verbale dharáyati, “(egli) tiene, trattiene”. Il fatto è che il termine dharana possiede un valore filosofico-esistenziale e serve a definire una “forma di meditazione o di contemplazione di un’immagine focalizzata su un unico oggetto… Un uomo che muore in stato di dharana assiste le anime dei congiunti e infine entra egli stesso in Paradiso.” Per raggiungere il dharana è necessario effettuare preventivamente il pranayama, lo yoga che consente il controllo del prana, o ‘soffio vitale’, cioè il controllo dell’espirazione. Di cosa si tratti è spiegato in questo brano: “Il primo passo del pranayama riguarda la regolazione del respiro in una maniera misurata e lasciando che il respiro entri e esca ritmicamente… Dopo aver completato un primo ciclo di pranayama è necessario distendersi supini sul dorso, come morti, per rilassare e calmare la mente… Il pranayama è largamente usato per raggiungere stati di meditazione attraverso la concentrazione sui movimenti interni del respiro… La concentrazione implica l’attenzione ‘su un singolo oggetto’, ossia fissata su un unico stimolo, al fine di raggiungere una perfetta autonomia rispetto all’‘attenzione in varie direzioni, discontinua e diffusa’… ‘Non appena le onde si fermano e il lago si quieta, ne vediamo il fondo. Lo stesso avviene con la mente: quando è calma, noi vediamo qual è la nostra natura; non confondiamo noi stessi con l’alterazione della mente; ma rimaniamo noi stessi.’ 1) Pranayama, 2) dharana o “concentrazione”, 3) meditazione sono le tre fasi di un medesimo processo; ogni fase successiva è un sottile perfezionamento della precedente. Se un singolo atto di attenzione focalizza la mente su un particolare oggetto o idea o sensazione, la concentrazione diviene una intensificazione dello stesso processo ottenuta impedendo alla nostra consapevolezza ogni distrazione dall’oggetto di concentrazione. La meditazione è una forma ancora più intensificata, caratterizzata dal controllo volontario della mente che porta a un’esperienza condensata di una modalità dell’essere al di là del normale stato della nostra mente… Un’esperienza meditativa interiore… è messa in atto in un luogo solitario e che concili la meditazione.” Si saranno notate un paio di cose: - prima, la presenza di elementi sciamanici nello stato di dharana: la concentrazione in se stessa, l’isolamento, il controllo del respiro, il giacere distesi come morti, l’assistenza alle anime dei congiunti e l’ingresso finale nell’aldilà per l’uomo che muore in quella eccezionale condizione; - seconda, la presenza del prana accanto al dharana. E come altrove abbiamo proposto di collegare il nome prana, “soffio vitale”, al nome di Praeneste, adesso proponiamo di collegare il dharana, “concentrazione, meditazione”, al nome di Feronia. Ecco che, tra le due figure divine romane, si ritrova il contrasto tra i due tipi orientali di attenzione: - l’attenzione concentrata su un singolo oggetto, che è di Feronia; - l’attenzione in varie direzioni, discontinua e diffusa, che è di Fortuna. Si ricorderà il passo di Livio e l’affermazione di Annibale che gli dei una volta gli avevano negato la volontà di impadronirsi di Roma, un’altra volta, invece, non gli avevano concesso l’occasione fortunata. Con una semplice inversione di ruoli, qui è Fortuna che impedisce a Annibale di concentrarsi unicamente sulla conquista di Roma, e gliela sottrae. Mentre è Feronia a negargli l’occasione fortunata con il doppio prodigioso fortunale. O “feroniale”? leonardo magini l.magini@yahoo.it - verona, 4 maggio 2012

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