mercoledì 9 gennaio 2019

La maledizione di Artemisia..Artemisia si appella al dio Oserapis o Serafide


Il frammento appartiene alla Biblioteca Nazionale d’Austria e fa parte della Collezione voluta dall’Arciduca Ranieri Giuseppe d’Asburgo, il quale nel 1899 la donò all’Imperatore Francesco Giuseppe che la incluse nella Hofbibliothek (Biblioteca Imperiale) di Vienna. La Collection Erzherzog Rainier è stata inserita nella lista Unesco Memoria del Mondo nel 2001. Via World Digital Library
Il testo è scritto in greco ma di fatto la lingua è l’egiziano, perché potrebbe essere tradotto quasi parola per parola in demotico. Nell’Egitto ormai disgregato del cosiddetto Tardo Periodo, un arco di tempo che comprende le conquiste persiane e macedoni fino alla morte di Alessandro , gli ionomemphiti e altre comunità greche non erano gli unici immigrati.
Quello che non ci aspetteremmo, in tempi in cui le religioni investono più il campo dell’ideologia che non quello del ‘rapporto con il sacro’, è che i popoli che migravano dalle più svariate regioni del mondo, con le proprie antichissime culture alle spalle, non avessero alcun problema di inserimento con il paese che li ospitava, ed è proprio in campo religioso che troviamo le più sorprendenti conferme. I fenici ad esempio, che in quei tempi conducevano in Egitto una vita molto dinamica di viaggi e scambi commerciali, ci hanno lasciato iscrizioni votive nel tempio di Osiride ad Abydos che ci restituiscono la sincera devozione a un dio locale.
Tra il IV e il V sec. aev sono frequenti le iscrizioni in aramaico, la maggior parte delle quali molto brevi; la più rilevante è sicuramente quella incisa sulla cosiddetta stele di Carpentras, lirica funebre dedicata a una certa Taba in cui non solo si invoca Osiride, ma l’intero testo sembra il risultato di una traduzione letterale di un originale egiziano, quale poteva essere un brano dal Libro dei Morti:
“Sia benedetta Taba figlia di Tahapi, devota al dio Osiris, non ha fatto niente di male nella sua vita, non ha mai calunniato nessuno. Possa ella giungere al cospetto del dio della Doppia Verità e riceverne l’acqua, e come sua ancella risiedere tra i beati”
Stele di Carpentras, IV sec. aev, del cosiddetto Aramaico d’Impero IV. La stele è stata rinvenuta presso la cittadina francese di Carpentras, dove era giunta a data imprecisata, e pubblicata nel 1704. “L’iscrizione è incisa alla base di una stele calcarea su cui sono raffigurate due scene dei rituali di imbalsamazione e sepoltura tipici della cultura dell’Egitto faraonico. Il testo contiene nomi propri e vocaboli di origine egiziana ed è da ascriversi all’ambiente linguistico aramaico egiziano della tarda età persiana”.
Se quello che ci stupisce è l’idea di una ‘abdicazione’ a un dio straniero e di una sconfessione del proprio dio da parte di due donne immigrate, delle loro famiglie e delle loro comunità, in realtà non c’è nessuno ‘scandalo’. Il paganesimo prevede che la lista dei propri dèi si possa allungare per includere quelli degli altri – vicini, lontani, con i quali si abbiano avuto rapporti più o meno amichevoli o duraturi.
Artemisia, della quale null’altro si conosce, si appella alla divinità greco-egiziana Oserapis , affidandosi al potere della parola scritta, chiede in tono piuttosto drastico una punizione esemplare per il padre di sua figlia, che avrebbe privato la bambina dei riti funebri e della sepoltura: che altrettanto succeda a lui e ai membri della sua famiglia.
“Artemisia si appella a Oserapis, e agli dèi che siedono con lui per dare i giudizi. Come la mia richiesta qui giace, possa il padre della bambina non ricevere più alcun favore dagli dèi. Se qualcuno rimuove questo documento o reca un torto ad Artemisia, il dio gli infliggerà una punizione... ” – il testo diventa frammentario...

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