Il rasoio di Occam applicato a Majorana
Piero Biancucci
Sembrava che il 4 febbraio 2015, con l’archiviazione da parte della Procura di Roma, il “caso Majorana” si fosse chiuso definitivamente. Non era così. E forse era ingenuo pensare che un fascicolo riposto in un cassetto potesse mettere la parola fine sulla scomparsa di un genio assoluto della fisica avvenuta nottetempo su un traghetto tra Palermo e Napoli il 27 marzo 1938. Quando non si trova più né un vivo né il suo cadavere, la parola fine non arriva mai. Lo sanno bene gli psicologi e gli scrittori di romanzi polizieschi.
La versione presa in considerazione e in qualche modo certificata dalla Procura di Roma – Ettore Majorana emigrato in Venezuela sotto il falso nome di Bini, ipotesi suffragata da una “compatibilità” fotografica – appare fragile: è difficile accordarle credibilità. Ma ancora più incredibile è la nuova puntata del “giallo”, che è di questi ultimi giorni: un libro appena pubblicato riporta una dozzina di lettere autografe di Majorana che si snodano dagli anni 60 fino all’ultima del 2001. In quelle degli anni 60 si parla di una “macchina”, forse un’arma, che a quanto si intuisce avrebbe dovuto generare energia pressoché illimitata annichilendo materia e antimateria. Le lettere sarebbero state indirizzate a tale Rolando Pelizza che si spaccia per “allievo” di Majorana: ne avrebbe seguito le lezioni in un convento su territorio italiano dove il grande fisico catanese si sarebbe rifugiato dopo aver simulato il suicidio e avrebbe poi lavorato alla costruzione della “macchina”. Una perizia grafologica di Sala Chantal, professionista di Pavia abilitata in campo giudiziario, dichiara che la calligrafia delle lettere corrisponde a quella di Majorana.
Non è necessario essere attivisti del Cicap per associare questa struttura narrativa a quella di episodi come i “raggi N” di Blondlot (1903), il “raggio della morte” attribuito a Guglielmo Marconi, la “memoria dell’acqua” di Benveniste o la “fusione fredda” annunciata da Pons e Fleischman nel 1989. Ma prendiamo ugualmente in esame i dati a disposizione.
Il ritiro in un monastero non meglio identificato era anche la tesi narrativa di Leonardo Sciascia nel romanzo-inchiesta del 1975 “La scomparsa di Majorana”, testo che tanto dissenso suscitò in Edoardo Amaldi, uno dei “ragazzi” cresciuti, come Majorana, Segré, Rasetti, Pontecorvo e altri, alla scuola romana di Enrico Fermi in via Panisperna. Sciascia adombrò pure che Majorana fosse “scomparso” per non farsi coinvolgere nella progettazione dell’arma atomica: uno scenario nel 1938 difficilmente immaginabile, ma forse non per il suo genio.
Bisogna ricordare che Rolando Pelizza, che oggi ha 77 anni, non è un nome nuovo alle cronache. Nella sua tortuosa biografia c’è una “collaborazione” datata 1976 con il fisico nucleare Ezio Clementel (1918-1979, all’epoca professore all’Università di Bologna e presidente del Cnen, Consiglio nazionale energia nucleare, poi sciolto e dal 1982 trasformato nell’Enea) per la verifica di un presunto esperimento finalizzato – confusamente – alla produzione di energia concentrata in un “fascio” tipo laser. Insomma, ancora una volta il “raggio della morte” che trae dal nulla – e ovviamente gratis – una formidabile energia. Giulio Andreotti, la cui principale qualità fu lo scetticismo, era allora presidente del Consiglio ma, pur essendone a conoscenza, si tenne alla larga da questa storia così bizzarra e irrituale dal punto di vista del metodo scientifico.
La pratica passò quindi al ministro socialista Loris Fortuna, che tenne i contatti con il Cnen. Clementel esaminò nei laboratori del Cnen lastre di metallo che sarebbero state perforate dal fascio della misteriosa “macchina”, calcolò l’energia richiesta per la perforazione e concluse che non poteva trattarsi di annichilazione materia/antimateria prodotta da un fascio di antiatomi. Escluse anche getti di plasma, neutroni e altre particelle. Il diniego di altri dati impedì un responso più preciso.
Del fantomatico esperimento si occuparono i servizi segreti italiani, americani e belgi. Gli americani pragmaticamente chiesero prove che non ebbero, il che li convinse della fumosità della cosa, peraltro facilmente sospettabile. Diverso fu il comportamento del nostro paese, i cui servizi di intelligence spesso hanno brillato per l’abuso di entrambe le parole, servizio e intelligenza: due carabinieri si infiltrarono nelle faccende di Pelizza, mentre il settimanale “OP” – contiguo ai servizi segreti e alla P2, chiuso nel 1979 – cercava di avvalorare la “macchina” alimentando il polverone. Pelizza passerà poi per aule giudiziarie e mandati di cattura internazionali, uscendo indenne. Ora, tanti anni dopo, ha deciso di parlare, e svela le “carte” in quanto – dice – liberato dal vincolo di segretezza impostogli dal grande scienziato suo maestro.
Il tutto è raccontato nel libro fresco d’inchiostro di Alfredo Ravelli, “Il segreto di Majorana, due uomini, una macchina” (Print Service, Pavia). Un articolo firmato Rino Di Stefano lo ha ampiamente anticipato su “Il Giornale”, lo stesso quotidiano che, per un’incauta soffiata di Antonino Zichichi ad Alessandro Sallusti, fece lo “scoop” dei presunti neutrini più veloci della luce (donde il penoso “incidente” in cui incorse il ministro della ricerca Maria Stella Gelmini – noi l’abbiamo quasi dimenticato, ma il mondo ancora ne ride).
A introdurre il libro di Ravelli c’è una stringata prefazione di Erasmo Recami, professore di Fisica all’Università di Bergamo, associato all’Istituto nazionale di fisica nucleare, studioso e biografo riconosciuto di Majorana, da sempre molto vicino alla famiglia.
Eccone alcuni passi salienti: “In questo libro ci sono svariate informazioni a priori incredibili: 1) sulle vicende di Rolando Pelizza (…); 2) sulla macchina di Rolando Pelizza (…). 3) sul fatto che la macchina sia stata inventata da un Ettore Majorana, vissuto a lungo in ritiro (…). Vengono riprodotte anastaticamente in questo libro numerose lettere apparentemente scritte da Ettore Majorana a partire dal 1964, ovvero molto dopo la sua scomparsa di fine marzo 1938. Una prima lettura di esse non mi convinse, non riconoscendovi io lo stile a me familiare del Majorana (…). La calligrafia sembra proprio quella del Majorana ante-scomparsa, a me notissima dal 1970 (…). Mi è stata richiesta una opinione. La mia opinione è che il materiale contenuto in questo libro, nonostante le iniziali incredulità che suscita, meriti di essere esaminato con attenzione”.
Responso prudente. O sibillino? Non così furono con me i “ragazzi di via Panisperna” che ebbi l’opportunità di intervistare sulla vicenda Majorana: Edoardo Amaldi, Emilio Segré, Bruno Pontecorvo e Gian Carlo Wick. Tutti mi dissero, in vario modo, di essere certi che Majorana cercò la morte quella notte sul traghetto Palermo-Napoli, e la trovò.
Si è detto della perizia grafologica. E’ strano che in sessant’anni una calligrafia non dia segni di evoluzione, se non altro per senilità, ma qui la parola spetta ai tecnici. Sui contenuti delle lettere però viene spontanea una semplice analisi stilistica. Majorana faceva della parola un uso sottile, colto, elegante, allusivo. “Non mi prendere per una ragazza ibseniana”, “il mare mi ha rifiutato”, scrive all’amico Carrelli poche ore prima di scomparire. Nelle lettere ora pubblicate troviamo invece una scrittura banale e incongrua, degna di un fumetto scadente: “Caro Rolando, ti ricordi il nostro primo incontro, avvenuto il 1° maggio 1958? Ne è passato di tempo.”. A proposito della “macchina”: “Disegni e dati non sono tanto importanti; la formula, invece, va ben custodita. Per nessun motivo deve cadere in mano di altre persone, sarebbe la fine, di sicuro.” E poi queste parole di congedo: “In attesa della tua decisione, Tuo amico e maestro, Ettore”. Chiunque sappia scrivere in modo raffinato non sarebbe caduto nella frusta domanda retorica sul primo incontro con un Majorana “scomparso”. La formula scientifica “segreta” è tipica dell’immaginario popolare ed estranea alla comunità scientifica. “Tuo amico e maestro” suona, dato il contesto, come un’espressione pacchiana.
Il racconto non sarebbe completo senza aggiungere che lo stesso Recami, si apprende adesso, avrebbe ricevuto lettere dal presunto Majorana, rimanendo dapprima incredulo, poi un po’ meno, e questo è l’aspetto più sconcertante.
Mettendo da parte il groviglio inestricabile e inquietante Pelizza-Clementel-servizi segreti- “macchina” e carteggio, o meglio dandogli un taglio deciso con il sempre prezioso “rasoio di Occam”, tornano alla mente i pensieri che Leonardo Sciascia nel primo capitolo de “La scomparsa di Majorana” attribuisce ad Arturo Bocchini, capo della polizia, al quale Salvatore, fratello di Ettore, si rivolge con la mediazione del senatore Giovanni Gentile per sollecitare le ricerche.
Eccoli: “La scienza, come la poesia, si sa che sta ad un passo dalla follia: e il giovane professore quel passo lo aveva fatto, buttandosi in mare o nel Vesuvio o scegliendo un più elucubrato genere di morte. E i familiari, come sempre accade nei casi in cui non si trova il cadavere, o si trova casualmente più tardi e irriconoscibile, ecco che entrano nella follia di crederlo ancora vivo. E finirebbe con lo spegnersi, questa loro follia, se continuamente non l’alimentassero quei folli che vengono fuori a dire di avere incontrato lo scomparso, di averlo riconosciuto per contrassegni certi”.
Difficile trovare una conclusione migliore. In effetti, per certi versi, Majorana non è morto. Vive nelle idee che ha lasciato, negli esperimenti che tuttora sono in corso su sua ispirazione. E vive nella follia di chi ancora lo cerca.
Il rasoio di Occam applicato a Majorana - La Stampa
Nessun commento:
Posta un commento