Il concetto, tipico della società romana, del culto familiare, che comportava la persistenza del dialogo con i defunti, si esprimeva anche nell'architettura degli edifici funerari. La tomba era considerata il luogo dell'incontro tra il morto e i suoi parenti; che vi si recavano a praticare riti non in ricordo del defunto, ma al defunto. Per questo le tombe erano sempre facilmente accessibili ma solo a chi ne aveva il diritto: al concetto dell'inviolabilità fisica del sepolcro, proprio di altre civiltà si sostituisce quello dell'inviolabilità giuridica.
I tipi di sepoltura praticati a Roma erano l'inumazione e la cremazione, già ricordati in tale ordine dall'antichissima legge delle XII tavole alla metà del V sec. a.C. Esse, con alterna fortuna, caratterizzarono il rito funerario nel mondo romano. Intorno al IV sec. a. C. la cremazione diviene la pratica dominante e tale rimane come dimostra la diffusa presenza dei colombari, fino agli inizi del II secolo della nostra era. Effettuata dagli ustores, la cremazione poteva svolgersi o nel luogo stesso della sepoltura delle ceneri (bustum) o in un luogo apposito detto ustrinum. In quest'ultimo caso, le ossa combuste erano raccolte in urne di marmo, pietra o terracotta, e deposte in nicchie ricavate nelle pareti dei colombari.
Durante il regno di Adriano, tuttavia, l'inumazione comincia gradualmente a prevalere, fino ad affermarsi definitivamente verso la metà del III sec. d. C. La coesistenza dei due riti spiega quindi quegli edifici tipici del II sec d. C. con nicchie alle pareti e arcosoli in basso per deporre gli inumati; assai spesso si nota, inoltre, a partire dalla metà del II sec. la costruzione di tombe a fossa con spallette di mattoni, dette formae, sul piano pavimentale dei vecchi colombari. La ripresa dell'inumazione determina anche il diffondersi dell'uso dei sarcofagi, stimolando così una straordinaria produzione artistica di questi oggetti, spesso importati dall'Asia Minore. Per i più poveri restavano semplici tombe scavate nella nuda terra, fatte di tegole o di cocci d'anfora.
Naturalmente la disponibilità di aree e la densità della popolazione erano fattori determinanti nella scelta del monumento funebre. Mentre, infatti, lungo le arterie extraurbane e nei terreni privati era possibile l'edificazione di imponenti mausolei e la delimitazione di vaste aree, nelle immediate vicinanze delle grandi città era frequente la concentrazione delle sepolture, agevole soprattutto se il rito era crematorio.
In ogni caso, le sepolture, salvo onori oltremodo eccezionali, si effettuavano, per antichissima disposizione, testimoniata già dalle XII tavole, sempre fuori delle città e lungo le vie extraurbane. Dalla metà del I sec. a. C. si diffuse il tipo edilizio del colombario, atto ad accogliere le sepolture di una famiglia o di un collegio funerario. L'edificio, che si sviluppava in gran parte nel sottosuolo con una o più camere ipogee, presentava lungo le pareti interne una serie più o meno numerosa di nicchie, loci o loculi, disposte generalmente in più file parallele, fino ad occupare quasi tutto lo spazio disponibile; spesso la monotonia era rotta da edicole con frontone decorato a stucco. Le nicchie avevano, in genere, forma semicircolare, ma ve n'erano anche di quadrate o rettangolari; all'interno di ciascuna potevano trovare posto da una fino a quattro urne, ollae, destinate ad accogliere le ceneri dei defunti. Spesso le urne erano fissate nella muratura, forando il piano di appoggio della nicchia, in maniera tale da non poter essere spostate. Di esse rimaneva visibile solo il coperchio, operculum, che poteva essere sollevato per versare nell'urna stessa le libagioni, così che il defunto potesse partecipare al banchetto funebre celebrato in suo onore.
La fede nella sopravvivenza del defunto oltre la morte e nella possibilità, per i vivi, di perpetuare il dialogo con i trapassati si manifesta nella ricchezza delle celebrazioni in onore dei defunti, dalle cerimonie private, come la cena novendialis (9 gg. dopo la morte), il dies natalis (giorno del compleanno del defunto) a quelle pubbliche: i Parentalia o dies Parentales (13-21 febbraio) e iRosalia, delle quali restano come testimonianza numerose raffigurazioni di rose incise o dipinte sulle pareti degli edifici funebri. E' proprio l'apparato decorativo a fornirci notizie sulle credenze legate alla vita ultraterrena nel mondo romano.
Complesso era il rituale che accompagnava il trapasso, dal bacio dato al moribondo da uno dei suoi cari per raccoglierne l'ultimo respiro, alle celebrazioni che seguivano la sepoltura. Subito dopo la morte il cadavere veniva lavato e cosparso di unguenti e quindi vestito e preparato con i suoi abiti di parata (la toga o la praetexta) ed esposto nell'atrio di casa. Per il viaggio verso l'al di là gli si poneva in bocca una moneta che egli avrebbe offerto a Caronte.
Dai funerali più semplici, quelli dei bambini e dei poveri, che si svolgevano addirittura di notte alla luce delle torce che precedevano il feretro, si arrivava alle grandiose cerimonie in onore dei grandi personaggi che tanto impressionarono lo storico greco Polibio (metà II sec. a.C.): per lui non vi era spettacolo più nobile del vedere sfilare, nelle cerimonie funebri delle famiglie patrizie e in processione davanti al feretro, i potenti e gloriosi antenati del defunto, rappresentati dalle maschere di cera che ne ritraevano l'immagine (imagines maiorum). Tali maschere, che i parenti del defunto portavano durante il corteo funebre, venivano custodite in una teca e costituivano una sorta di raccolta dei ritratti degli avi. Questa tradizione perdurò senza dubbio fino alla II metà del I sec. d.C., anche se, a partire dalla tarda età repubblicana, alle maschere di cera furono talvolta sostituiti busti dello stesso materiale o di terracotta.
Ai funerali provvedevano di regola imprese di pompe funebri (libitinarii), con i vari specialisti: i pollinctores, che preparavano la salma, i vespillones che curavano il trasporto funebre, gli ustores che provvedevano al rogo, ecc.; queste attività, comunque, erano ritenute tanto sordide da comportare diminuzioni dei diritti civili per chi le svolgeva. Proprio Pozzuoli ci ha restituito, in una preziosa iscrizione d'età augustea, parti del capitolato d'appalto cittadino, che regolava minuziosamente la prestazione dei servizi funebri e la fornitura delle attrezzature necessarie (lex libitinaria). Vi si prescriveva, ad esempio, che l'impresario dovesse impiegare non meno di 32 addetti, di sana costituzione e di età compresa fra i 20 e i 50 anni, ma anche che queste persone non potessero risiedere e neppure entrare in città se non per motivi legati al loro servizio e in ogni caso distinguendosi con un berretto colorato; che l'impresario dovesse rispettare l'ordine delle richieste pervenutegli in un apposito ufficio cittadino (sito nel foro?), salvo che per i funerali dei decurioni e dei bambini, cui si doveva in ogni caso dare la precedenza; che i cadaveri degli impiccati e degli schiavi fossero nella stessa giornata portati via, ecc.
Nel caso delle famiglie ricche le spese dei funerali e della costruzione delle tombe venivano sostenute dai parenti del defunto, mentre ai privati si sostituivano, presso i ceti medi e piccoli, associazioni particolari, i collegia funeraticia. I collegia sorti per iniziativa dei privati potevano avere varie finalità, religiose e politiche. Negli ultimi anni della repubblica queste ultime assunsero un aspetto preponderante fino a provocare la soppressione di molti collegia da parte di Cesare e poi di Augusto, che vollero conservare soltanto le associazioni di più antica fondazione. In età imperiale si formarono molte nuove associazioni con il beneplacito degli imperatori. Ve ne erano di tutti i tipi, religiose, funerarie e professionali, e raccoglievano in prevalenza artigiani, schiavi e liberti.
La maggior parte dei collegia si preoccupava di garantire ai propri consociati un'onorevole sepoltura. A tale scopo veniva creato un fondo comune (arca) col versamento di una quota mensile (stips menstrua) da parte di ciascun consociato. A questo fondo si attingeva poi per coprire le spese relative al funerale, all'acquisto e alla successiva manutenzione della tomba e alle cerimonie per la commemorazione dei defunti.
Dal sito ICIB - index_html
I tipi di sepoltura praticati a Roma erano l'inumazione e la cremazione, già ricordati in tale ordine dall'antichissima legge delle XII tavole alla metà del V sec. a.C. Esse, con alterna fortuna, caratterizzarono il rito funerario nel mondo romano. Intorno al IV sec. a. C. la cremazione diviene la pratica dominante e tale rimane come dimostra la diffusa presenza dei colombari, fino agli inizi del II secolo della nostra era. Effettuata dagli ustores, la cremazione poteva svolgersi o nel luogo stesso della sepoltura delle ceneri (bustum) o in un luogo apposito detto ustrinum. In quest'ultimo caso, le ossa combuste erano raccolte in urne di marmo, pietra o terracotta, e deposte in nicchie ricavate nelle pareti dei colombari.
Durante il regno di Adriano, tuttavia, l'inumazione comincia gradualmente a prevalere, fino ad affermarsi definitivamente verso la metà del III sec. d. C. La coesistenza dei due riti spiega quindi quegli edifici tipici del II sec d. C. con nicchie alle pareti e arcosoli in basso per deporre gli inumati; assai spesso si nota, inoltre, a partire dalla metà del II sec. la costruzione di tombe a fossa con spallette di mattoni, dette formae, sul piano pavimentale dei vecchi colombari. La ripresa dell'inumazione determina anche il diffondersi dell'uso dei sarcofagi, stimolando così una straordinaria produzione artistica di questi oggetti, spesso importati dall'Asia Minore. Per i più poveri restavano semplici tombe scavate nella nuda terra, fatte di tegole o di cocci d'anfora.
Naturalmente la disponibilità di aree e la densità della popolazione erano fattori determinanti nella scelta del monumento funebre. Mentre, infatti, lungo le arterie extraurbane e nei terreni privati era possibile l'edificazione di imponenti mausolei e la delimitazione di vaste aree, nelle immediate vicinanze delle grandi città era frequente la concentrazione delle sepolture, agevole soprattutto se il rito era crematorio.
In ogni caso, le sepolture, salvo onori oltremodo eccezionali, si effettuavano, per antichissima disposizione, testimoniata già dalle XII tavole, sempre fuori delle città e lungo le vie extraurbane. Dalla metà del I sec. a. C. si diffuse il tipo edilizio del colombario, atto ad accogliere le sepolture di una famiglia o di un collegio funerario. L'edificio, che si sviluppava in gran parte nel sottosuolo con una o più camere ipogee, presentava lungo le pareti interne una serie più o meno numerosa di nicchie, loci o loculi, disposte generalmente in più file parallele, fino ad occupare quasi tutto lo spazio disponibile; spesso la monotonia era rotta da edicole con frontone decorato a stucco. Le nicchie avevano, in genere, forma semicircolare, ma ve n'erano anche di quadrate o rettangolari; all'interno di ciascuna potevano trovare posto da una fino a quattro urne, ollae, destinate ad accogliere le ceneri dei defunti. Spesso le urne erano fissate nella muratura, forando il piano di appoggio della nicchia, in maniera tale da non poter essere spostate. Di esse rimaneva visibile solo il coperchio, operculum, che poteva essere sollevato per versare nell'urna stessa le libagioni, così che il defunto potesse partecipare al banchetto funebre celebrato in suo onore.
La fede nella sopravvivenza del defunto oltre la morte e nella possibilità, per i vivi, di perpetuare il dialogo con i trapassati si manifesta nella ricchezza delle celebrazioni in onore dei defunti, dalle cerimonie private, come la cena novendialis (9 gg. dopo la morte), il dies natalis (giorno del compleanno del defunto) a quelle pubbliche: i Parentalia o dies Parentales (13-21 febbraio) e iRosalia, delle quali restano come testimonianza numerose raffigurazioni di rose incise o dipinte sulle pareti degli edifici funebri. E' proprio l'apparato decorativo a fornirci notizie sulle credenze legate alla vita ultraterrena nel mondo romano.
Complesso era il rituale che accompagnava il trapasso, dal bacio dato al moribondo da uno dei suoi cari per raccoglierne l'ultimo respiro, alle celebrazioni che seguivano la sepoltura. Subito dopo la morte il cadavere veniva lavato e cosparso di unguenti e quindi vestito e preparato con i suoi abiti di parata (la toga o la praetexta) ed esposto nell'atrio di casa. Per il viaggio verso l'al di là gli si poneva in bocca una moneta che egli avrebbe offerto a Caronte.
Dai funerali più semplici, quelli dei bambini e dei poveri, che si svolgevano addirittura di notte alla luce delle torce che precedevano il feretro, si arrivava alle grandiose cerimonie in onore dei grandi personaggi che tanto impressionarono lo storico greco Polibio (metà II sec. a.C.): per lui non vi era spettacolo più nobile del vedere sfilare, nelle cerimonie funebri delle famiglie patrizie e in processione davanti al feretro, i potenti e gloriosi antenati del defunto, rappresentati dalle maschere di cera che ne ritraevano l'immagine (imagines maiorum). Tali maschere, che i parenti del defunto portavano durante il corteo funebre, venivano custodite in una teca e costituivano una sorta di raccolta dei ritratti degli avi. Questa tradizione perdurò senza dubbio fino alla II metà del I sec. d.C., anche se, a partire dalla tarda età repubblicana, alle maschere di cera furono talvolta sostituiti busti dello stesso materiale o di terracotta.
Ai funerali provvedevano di regola imprese di pompe funebri (libitinarii), con i vari specialisti: i pollinctores, che preparavano la salma, i vespillones che curavano il trasporto funebre, gli ustores che provvedevano al rogo, ecc.; queste attività, comunque, erano ritenute tanto sordide da comportare diminuzioni dei diritti civili per chi le svolgeva. Proprio Pozzuoli ci ha restituito, in una preziosa iscrizione d'età augustea, parti del capitolato d'appalto cittadino, che regolava minuziosamente la prestazione dei servizi funebri e la fornitura delle attrezzature necessarie (lex libitinaria). Vi si prescriveva, ad esempio, che l'impresario dovesse impiegare non meno di 32 addetti, di sana costituzione e di età compresa fra i 20 e i 50 anni, ma anche che queste persone non potessero risiedere e neppure entrare in città se non per motivi legati al loro servizio e in ogni caso distinguendosi con un berretto colorato; che l'impresario dovesse rispettare l'ordine delle richieste pervenutegli in un apposito ufficio cittadino (sito nel foro?), salvo che per i funerali dei decurioni e dei bambini, cui si doveva in ogni caso dare la precedenza; che i cadaveri degli impiccati e degli schiavi fossero nella stessa giornata portati via, ecc.
Nel caso delle famiglie ricche le spese dei funerali e della costruzione delle tombe venivano sostenute dai parenti del defunto, mentre ai privati si sostituivano, presso i ceti medi e piccoli, associazioni particolari, i collegia funeraticia. I collegia sorti per iniziativa dei privati potevano avere varie finalità, religiose e politiche. Negli ultimi anni della repubblica queste ultime assunsero un aspetto preponderante fino a provocare la soppressione di molti collegia da parte di Cesare e poi di Augusto, che vollero conservare soltanto le associazioni di più antica fondazione. In età imperiale si formarono molte nuove associazioni con il beneplacito degli imperatori. Ve ne erano di tutti i tipi, religiose, funerarie e professionali, e raccoglievano in prevalenza artigiani, schiavi e liberti.
La maggior parte dei collegia si preoccupava di garantire ai propri consociati un'onorevole sepoltura. A tale scopo veniva creato un fondo comune (arca) col versamento di una quota mensile (stips menstrua) da parte di ciascun consociato. A questo fondo si attingeva poi per coprire le spese relative al funerale, all'acquisto e alla successiva manutenzione della tomba e alle cerimonie per la commemorazione dei defunti.
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