martedì 14 giugno 2016

Daimon e maschera

L’attore e la maschera

di Alessandro Orlandi


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Socrate: “E Dio, togliendo a loro la mente, li adopera come suoi ministri, e fa lo stesso con gli oracolanti ed i divini vaticinatori, così che noi, udendoli, ci avvediamo che non sono essi, esseri umani, a dire cose mirabili, ma lo stesso Dio che per loro bocca parla a noi […] niente altro sono i poeti se non interpreti degli Dei e ciascuno è ispirato da quel Demone che lo ispira: e Dio, ciò mostrando manifestamente, per il più sciocco poeta ci cantò il canto più bello. Non ti sembra che io dica il vero?”(Platone – Jone – V)

Nel teatro antico gli attori erano soliti nascondere il volto dietro una maschera che raffigurava il personaggio da essi interpretato. Questa usanza derivava direttamente dai Misteri iniziatici (ad esempio quelli Dionisiaci [1]) in cui il ruolo della maschera era ad un tempo quello di nascondere, rivelare, spaventare e trasformare.

Le maschere sono, da sempre, messe in relazione col mondo dei morti e con l’Oltretomba, perché sono rigide ed inanimate come il volto di un cadavere.

D’altro canto la loro eterna stasi è la condizione perché il divino possa assumere forma e rivelarsi agli uomini; le maschere sono dunque il mezzo attraverso il quale il sacro può mostrarsi, il velo che permette il collegamento tra il mondo degli Dei e quello degli uomini.

Sono comiche o spaventevoli poiché ci pongono sempre di fronte ad aspetti della nostra natura colti nella loro essenzialità archetipica, atemporale, e dunque possono suscitare divertimento in chi si accorge che la maschera non è che uno specchio del profondo, ma anche paura e repulsione da parte di chi rifiuta di riconoscersi. [2]

Anche oggi ogni attore di teatro, quando recita, deve mediare tra una maschera immobile, costituita dalla sua parte scritta e codificata nel testo, ed il pubblico vivo e concreto che gli sta davanti, legato all’attimo della situazione contingente. Per poter riuscire nell’impresa di far vivere il suo personaggio egli deve avere le capacità di rivolgersi ad ogni spettatore con un linguaggio particolare ed apparire vecchio ai vecchi e giovane ai giovani, malato ai malati e sano ai sani, saggio ai saggi e stolto agli stolti, facendo sì che ciascuno possa vedere nella maschera la forma che gli corrisponde.

È così, raccogliendo sulla propria persona le proiezioni dei presenti, che egli risveglia le figure morte e rigide che deve mettere in scena, dando loro un’anima. Perché questa funzione di mediazione totale tra maschera e pubblico sia possibile, l’attore deve essere in grado di stabilire tra sé e chi lo guarda delle “direzioni universali”, di trascendere totalmente la propria soggettività di uomo, di dimenticare sé stesso, di essere agito più che agire, di essere parlato più che parlare, di essere mosso più che di muoversi.

Egli diviene un semplice mezzo, uno strumento attraverso il quale il pubblico dialoga con se stesso.

Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per l’artista e l’opera d’arte. L’artista è qualcuno che cerca di catturare le essenze e richiuderle dentro la forma che da alle sue opere.

Perché ciò gli sia dato egli deve avere in sé una forza creativa, demiurgica, divina, che lo renda mediatore tra le cose celesti e quelle terrene, tra le ombre e gli archetipi, tra il cristallo immobile della sua creazione e l’energia che la anima.

Per rendersi degno di una tale investitura egli deve però diventare conscio che quella forza non gli appartiene, di essere solo un umile servitore che porta a compimento azioni di cui non conosce né il senso né la finalità.

È ben noto che solo in tempi relativamente recenti colui che si distingue nel campo dell’arte viene fatto oggetto di forme di culto della personalità ed il suo carattere è studiato ed esaltato come se questo potesse spiegare la vitalità delle opere prodotte dall’artista.

Nel medio evo i pittori, gli scultori, i musicisti ed i costruttori di cattedrali mantenevano l’anonimato e si consideravano interpreti e prosecutori di una tradizione iniziatica. Se in quel tempo era concepibile un’arte viva e popolare, che mediasse direttamente tra gli aspetti profani della vita quotidiana e la dimensione del sacro, non deve meravigliare che le opere d’arte siano oggi preda dei mercanti oppure rinchiuse nei musei, oggetto di dispute tra eruditi, con la funzione di essere solo segni ed indicatori della civiltà e della storia passata dell’uomo: se nell’artista si riconosce solo l’aspetto umano, personale ed individuale, della sua opera sopravvivrà solo il lato cadaverico della maschera.

Se è vero che il mestiere dell’attore e quello dell’artista esemplificano particolarmente bene la necessità di un passaggio attraverso la parte sovrapersonale del proprio essere, questo imperativo non ha meno valore se lo applichiamo ad altri tipi di lavoro.

Ogni lavoro svolto da un uomo è infatti, innanzi tutto, un servizio reso agli altri. Perché ciò avvenga non è necessario alcuno sforzo, né di volontà né di coscienza. Col suo stesso esistere ed agire ognuno di noi offre agli altri inconsapevolmente la visione della propria esteriorità, di un modo d’essere, del proprio ruolo, di un compito che è necessario che qualcuno si assuma.

Che tale maschera sia allegra o truce, spaventevole o comica, benevola o malevola, attraente o repulsiva, non ha poi molta importanza. Se il lavoro viene svolto bene, e cioè in maniera impersonale, la maschera attingerà la sua energia, la sua vitalità dal “daimon” che la abita e mostrerà dunque, attraverso l’uomo che la indossa, un lato del divino. [3]

Papi ed eretici, poliziotti e ladri, suore e prostitute, reazionari e rivoluzionari, banchieri e mendicanti possono svolgere egualmente bene il loro compito nel mondo. Non abbiamo, né possiamo avere, alcun controllo dell’immagine che mostriamo all’esterno, nessun volto vede la maschera che lo copre, ma è possibile diventare bravi attori della parte che dobbiamo recitare.


Note

1. Cfr: il saggio di Kerenji “Uomo e Maschera” in “Miti e Misteri”; il saggio di Burckart “La maschera sacra”; il saggio di Lanza “L’attore” in “Oralità, scrittura e spettacolo”.

2. Le due etimologie proposte per il termine greco che designava l’attore (hypokrites) sono “colui che risponde” e “colui che spiega”.

3. Corrispondentemente a ciò, si parla di due stadi di evoluzione del mercurio. Uno, detto “impuro”, in cui tutte le cose vengono misurate col metro soggettivo; l’altro detto mercurio “purificato”, in cui l’uomo è mosso da intenti transpersonali. Così scrive l’alchimista Zosimo in “Apparecchi e forni”: “Accade anche che si trovino in tutti i mestieri persone che lavorano ad una stessa arte con strumenti e procedimenti diversi e ne conseguono in misura diversa l’intelligenza e la riuscita delle operazioni”.

Esonet.it-Pagine scelte di Esoterismo - L’attore e la maschera

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