sabato 19 maggio 2012

Il mistero di Verona IX

STORIA DEL PILOTON DI ALBERTO SOLINAS
La costruzione di megaliti (la parola deriva dal greco, e vuol dire “grosse pietre”) iniziò dopo la scoperta dell’agricoltura; quel termine viene impiegato per definire qualsiasi struttura architettonica costituita da grandi massi. I betili sono il tipo più semplice di megalito. Il loro nome deriva forse dall’ebraico beth ’El, che significa “casa di Dio”; questo termine è valido per l’area mediterranea, mentre nei paesi atlantici e baltici i betili vengono chiamati con la parola bretone menhir (che significa “pietra lunga”). Per l’uomo primitivo il betilo era una pietra sacra: egli pensava che fosse animata di vita divina e che talvolta impersonasse il Dio stesso. Oggi, è accertato che attorno al betilo si svolgevano cerimonie a sfondo magico-religioso rivolte anche a favorire la fertilità sia umana che della terra (maschio-femmina, seme-terra, sole-luna), come se nella pietra si celasse uno spirito fecondatore. I betili sono pietre a forma allungata di varia grandezza, grezze o parzialmente scolpite. Rappresentano il corpo umano o i suoi elementi sessuali sia maschili che femminili. La forma del betilo suggerisce: per quello maschile la forma del fallo; quello femminile reca scolpite delle mammelle sia in rilievo e sia in negativo a forma di coppe. In queste ultime, i “primitivi” attuali inseriscono delle palle di grasso, che con il calore del Sole si sciolgono e ungono la pietra. Spesso il betilo tende ad un colore particolare: il rosso o il bianco. Secondo la tradizione il colore rosso indicava il vigore solare associato all’energia maschile, mentre il bianco simboleggiava la forza lunare racchiusa nella fertilità femminile. Infatti il Sole è l’astro che dà forza e calore a tutte le creature della Terra, mentre la Luna influenza la germinazione delle piante e la rugiada notturna le mantiene in vita nei periodi di siccità. Tra l’altro, gli uomini di quel tempo dovevano aver colto la corrispondenza dei cicli fecondativi della donna con quelli lunari. Queste pietre più o meno grandi venivano conficcate verticalmente sul terreno e pertanto oggi vengono chiamate “pietre fitte”, o “pietre dritte” e sono ancora considerate elementi sacri in molte aree. La più antica testimonianza scritta della presenza di betili la troviamo nella Bibbia: «Giacobbe giunse a Caran e passò la notte, prese una delle pietre del posto e la usò come guanciale e fece un sogno. Sognò una scala appoggiata sulla terra e la sua cima arrivava fino al cielo, gli angeli di Dio salivano e scendevano e il Signore stata sopra di essa... Svegliatosi dal sonno Giacobbe disse: “Veramente il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”... “Quanto è degno di venerazione questo luogo. Questo non è altro che la casa di Dio e la porta del cielo”... Quindi Giacobbe, prese la pietra che aveva usato come capezzale, la eresse in cippo e versò dell’olio sulla sua sommità, e dette a quel luogo il nome di Betel... “E questa pietra che ho eretto in cippo diventerà la casa di Dio”» (Genesi, 28,10). Queste poche righe ci spiegano la funzione del betilo che unisce la terra al cielo e su di esso stava il Dio, il luogo dove è collocato diventa sacro; perciò tutti i posti sacri devono possedere il betilo. Questo è confermato dalle popolazioni “primitive”, e non, tutti usiamo tuttora compiere riti religiosi attorno ai betili. Il clero cristiano condannò il culto dei betili, ma visto che le forme repressive nei confronti del popolino pagano che adorava queste pietre davano modesti risultati, cercò il compromesso: le pietre sacre vennero “battezzate”, si diede loro il nome di una santa o di un santo, vi si scolpì o si pose sopra una croce e in alcuni casi vi si issarono sopra statue di santi. L’esempio più noto è quello della colonna di Santa Brigida in Bretagna, che è tuttora meta di giovani donne non sposate. Queste donne salgono tre volte sopra la pietra lasciandosi poi scivolare verso il basso ripetendo il nome dell’amato desiderato, oppure più semplicemente abbracciano il monolito posando l’orecchio alla pietra nella speranza che questa riveli loro se si potranno sposare. La regione ricca di betili più vicina a noi è la Sardegna, ove i primi betili risalgono a circa 5000 anni fa (verso la fine del Neolitico). In un primo momento erano erette verticalmente pietre rozze nei luoghi sacri. Con l’Età del Rame, i betili vengono sbozzati a colonna; nell’Età del Bronzo medio (circa 3300 anni fa) assumono caratteri sessuali più evidenti: i maschili con forme cilindriche con la sommità spianata o concava, i femminili con forme troncoconiche; trecento anni dopo i betili prendono forme antropomorfe. In epoca punica e romana vengono costruiti con forme più plastiche, presentandosi come colonne lisce e regolari, mentre i più piccoli recano a volte delle sculture, questo ci permette di ricostruire i riti che si svolgevano attorno ad essi. Il folclore sardo è ancora legato alle pedras fittas o longa (i Sardi hanno adorato i betili almeno sino al papato di S. Gregorio Magno, 590-604), perciò possiamo comprendere più facilmente l’utilizzazione di tali pietre da parte dell’uomo e il significato rivestito da queste. Nella tradizione orale i sardi associano ai betili figure mitiche oppure santi, o anche cattivi cristiani pietrificati. Un nome ricorrente è quello di sa Perda de Luxia Rajosa (la Pietra di Lucia Radiosa), una fata o la santa martire siciliana che viene invocata per propiziare la fertilità e la vita. Si sa che il popolo ritiene che il giorno di S. Lucia coincida con il solstizio d’inverno. Sino a qualche decennio fa, nel Veronese non erano ancora stati individuati dei betili anche se alcuni toponimi potevano farne supporre l’esistenza. Tra questi “la Pozza de la Prea Drita” presso San Zeno di Montagna sul M. Baldo, ove una pietra lastriforme di notevoli dimensioni si ergeva nel mezzo di una pozza d’acqua. Purtroppo questa pietra andò distrutta per farne calce circa 40 anni fa. Poteva trattarsi di una stele o, forse, di un betilo; i betili sardi che sorgono in aree umide portano sovente il nome di Jorgià Rajosa (Giorgia Radiosa) nome di una fata-maga o dea madre dell’acqua associata ai festeggiamenti del1’equinozio di primavera, celebrati il 23 aprile. Il prof. Mario Gecchele mi informava che in Val d’Alpone a ovest del Monte Birón durante i lavori agricoli vennero spostati tre grossi massi longilinei. Mi recai sul posto e i tre monoliti mi diedero subito l’impressione di essere tre betili, infatti il raggruppamento di tre – del tipo “triade sacra” – è tra i più diffusi. Essi sono in basalto colonnare, e le rocce di questo genere non si trovano sul luogo, ma nella vallata opposta oppure quasi sulla sommità dei monti Belloca e Coleara, lontani dal Birón, perciò qualcheduno doveva averli portati sul posto. Questo potrebbe essere stato fatto dagli abitanti del vicino villaggio preistorico del Monte Birón, abitato ininterrottamente per circa 3000 anni: dal Neolitico all’inizio dell’età del Ferro. Infine, le loro misure possono corrispondere a quelle dei betili: il più grande presenta una lunghezza di circa 4 m e una circonferenza di oltre 5 m; gli altri due sono lunghi uno circa 3 m e l’altro 2,75 m; per una circonferenza di circa 4 m. Lo stesso giorno raccolsi una curiosa leggenda raccontata dal sig. Berto Gazzo di 70 anni: “Per far filò, i miei zii mi raccontavano che sul Monte Birón c’erano le anguane (streghe), che vivevano nelle tane dell’acqua (in effetti, nelle vicinanze ci sono delle sorgenti). La madrina degli zii non credendo nella loro esistenza, per metterle alla prova, le chiamò dalla cima del Monte Birón e le sfidò a lasciare un segno della loro presenza. Il giorno dopo, in contrada Birón, sulla finestra della sua casa, la madrina trovò con orrore, appesa, una gamba intera d’uomo”. L’amico Giovanni Rapelli rileva che la leggenda mostra influssi cimbri (la gamba umana appesa), ma che per il resto vi potrebbe essere il riferimento a un antico luogo di culto locale. È doveroso far notare ai nostri lettori un particolare curioso: i toponimi Monte Pipaldolo, Monte Birón, Monte d’Accoddi (in dialetto sassarese significa Monte del Coito), sono legati all’etimologia sessuale; e i nostri betili o menhir preistorici sono finora – secondo le mie conoscenze – gli unici della nostra penisola. La pietra fitta più curiosa si trova sulla dorsale a Ovest di Montorio a Nord del Forte Austriaco sulla strada detta appunto della Preafita. Oggi questo monolito colonnare in pietra bianca è ridotto di altezza, perché mi è stato raccontato da una persona anziana del luogo, che fino a pochi anni fa nei pressi del Pilotón esisteva un roccolo (difatti la casa vicina si chiama Roccolo) e ai cacciatori dava fastidio il Pilotón così alto e pensarono bene di abbassarlo con la mazza; i pezzi rotti si trovano attorno al Pilotón. Una domenica, il 13 maggio 1950, nel corso di una delle tante passeggiate archeologiche fatte con mio padre, ricordo bene, avevo 10 anni, venni issato sul Pilotón sul quale notai un avvallamento con infisso un moncone di ferro, forse la base di una croce. Poi misurammo il monolito: era alto 3,20 m sul terreno, la circonferenza alla base era di 2,05 m e alla sommità di 1,80 m. Data la forma regolare, mio padre ritenne trattarsi di un betilo di età romana, quando si associavano le pietre termini che delimitavano i confini con il culto al Dio Termine. Infatti un toponimo del luogo era Terminon; qui, durante il Regno Lombardo Veneto, tra l’altro si incontravano i confini dei comuni di Poiano, S. Maria in Stelle, Montorio e Castel S. Felice. L’anno dopo Umberto Grancelli – grande amico di mio padre – scrisse sul “L’Arena”, In Valpantena scoperto un menhir e lo classificò di età romana. Sempre Grancelli nel 1964 scrisse Il piano di fondazione di Verona Romana, e il fulcro della fondazione di Verona è il Pilotón. Questo libro venne contestato – e lo è tuttora –, tanto che Umberto sulla rivista Vita Veronese del 1968 scrisse un articolo in risposta ai contestatori i quali affermavano che Verona è stata orientata pressappoco sui quattro punti cardinali; il cardo è Via Cappello-S. Egidio e non Via Pellicciai-Santa Maria in Chiavica; e il Pilotón è una rozza colonna senza significato. Nella primavera del 1977 riesaminai quel Terminon confrontandolo con i betili sardi, prima di tutto era stato “battezzato” con due croci incise poco sotto la rottura causata dai cacciatori; e giunsi alla conclusione che la sua origine doveva essere più antica e connessa con il villaggio del Monte Pipaldolo che risale al Bronzo Medio (circa 3500 anni fa). Nella zona esistono tre villaggi di questa età: Forte Preara, Monte Pipaldolo e Monte Tesoro. Il sito di M. Pipaldolo si trova tra i primi due abitati ed è interpretabile come castelliere-santuario, dato che la sua alta piattaforma artificiale è simile a quella del villaggio-santuario sassarese di Monte d’Accoddi. Come abbiamo visto, i betili sono sempre collocati nei luoghi sacri e hanno lo scopo di propiziare fertilità. È noto che nel nostro dialetto, il pene viene chiamato pipolo o biri, quindi il monte avrebbe assunto il nome dal vicinissimo betilo. Nel tempo sorsero delle leggende attorno al nostro betilo, tra cui una simile a quella della colonna di Santa Brigida, secondo la quale appoggiando l’orecchio sul betilo si sentirebbero delle voci, il rumore di cavalli in corsa o le onde del mare. Il betilo assume la sua importanza sacrale anche perché essendo legato agli astri, dava la possibilità all’uomo di seguire gli spostamenti durante il giorno, la notte e negli anni degli astri. Poteva così calcolare l’anno agrario. Infatti se il betilo viene usato come gnomone, dava la possibilità di creare un calendario e quindi un orologio solare, lunare e stellare. Per esempio: per calcolare i solstizi bastava usare il betilo come mirino, osservare con precisione sull’orizzonte il punto dove appare al mattino del solstizio il primo bagliore del Sole nascente. Se a qualche decina di metri dal betilo mettiamo una seconda pietra lunga come riferimento, in corrispondenza della levata del Sole, si avrà la possibilità di riconoscere il giorno dal solstizio l’anno dopo. Così facendo per gli altri giorni si crearono degli allineamenti orientati su punti dell’orizzonte particolarmente interessanti astronomicamente, che a loro volta, divennero siti sacri. Come è noto su alcuni di questi luoghi sorsero poi le chiese cristiane. Sempre nel 1977 mi fu chiesto: Se il Pilotón fosse stato usato dai Romani per il piano di fondazione di Verona Romana come sosteneva Grancelli? Quindi decisi di verificare se Umberto aveva ragione o torto. In realtà lo studio non era difficile, a portata di mano erano i libri basilari: Dell’Architettura di Marco Vitruvio Pollione, il costruttore dell’arco dei Gavi, e De limitibus constituendis di Igino il Gromatico (Geometra), e considerando che: il Sole, il Pilotón e il Capitello di Piazza delle Erbe – conosciuto ingiustamente come berlina – non si sono mai mossi dal loro posto originale. Interessai all’argomento il prof. Giuliano Romano docente di storia dell’astronomia all’Università di Padova e massimo studioso di archeoastronomia in Italia, il quale mi mise in contatto con l’astrofilo veronese Flavio Castellani. Iniziammo così una serie di calcoli astronomici, tenendo come cardine il betilo in questione e l’orizzonte collinare intorno a noi. I risultati furono interessantissimi, per esempio: le due croci incise sul betilo erano espressione di orientamento, una era nella direzione del punto ove il Sole appare dietro la collina nel giorno del solstizio estivo (21 giugno), sul Pian di Castagnè, la seconda nella direzione opposta, cioè quando il Sole tramonta al solstizio invernale (21 dicembre); il castelliere dell’Età del Bronzo a nord di Verona, dove oggi vi è la torricella Austriaca n° 1, si trova dove il Sole tramonta all’equinozio di primavera e d’autunno (21 marzo, 23 settembre), perciò a Ovest; e il santuario della Madonna di Campagna a Sud. Nel 148 a.C. venne costruita la via Consolare Postumia, e logicamente iniziarono i lavori per la fondazione della Verona romana all’interno dell’ansa dell’Adige. Le norme seguite per la fondazione delle città romane avevano un orientamento diverso da quello canonico, con i lati o gli spigoli orientati ai quattro punti cardinali. Le altre regole erano: 1) l’assenso degli dei; 2) l’orientamento ad sidera (alle stelle); 3) il cardo (cardine) doveva seguire il percorso del Sole per far sì che tutti gli edifici potessero sfruttare al massimo la luce e nessun lato doveva essere né troppo caldo né troppo freddo; 4) le vie di comunicazione dovevano avere un facile accesso all’esterno della città. Perciò il sacerdote doveva scegliere il punto preciso del centro della futura città, cioè il Foro; decidere l’orientamento astronomico della città rispetto ai principali movimenti del Sole (solstizi ed equinozi). Nel caso di Verona si doveva adattare la città nell’ansa dell’Adige, che si presentava simile a una pianura. Perciò si potevano usare tutte le norme stabilite senza alcuna difficoltà. Dopo i nostri calcoli astronomici ci si accorse che il sacerdote (augure) che fondò la nostra città doveva conoscere il betilo di Montorio, perché lo scelse come punto di riferimento per orientare astronomicamente Verona. Infatti se tracciamo una linea attraverso tre mire: il Pilotón, il Capitello di Piazza delle Erbe e la chiesa del borgo cittadino di Santa Lucia si ottiene l’orientamento ad sidera di questa linea sul tramontare del Sole al solstizio d’inverno (21/12). Teniamo presente che sull’orizzonte astronomico la direzione dove sorge il sole al solstizio estivo, è diametralmente opposta a quella in cui tramonta al solstizio invernale e viceversa. Inoltre sembra che il più importante momento dell’anno fosse allora il solstizio invernale. Perché proprio in questo momento e non al sorgere del sole il 21 giugno come sosteneva Grancelli? Infatti dal Pilotón noi vediamo sorgere il Sole dietro le colline del Pian di Castagnè più spostato verso Nord, ma in effetti sull’orizzonte piano a est è nato prima. L’augure senza fare tanti calcoli trovò più comodo osservare il tramonto del Sole in una zona priva di ostacoli geomorfologici quindi piana e scelse la zona di Verona cioè l’area del borgo di Santa Lucia. Lungo questo orientamento l’augure doveva far incrociare perpendicolarmente sul cardo (Via Pellicciai-Santa Maria in Chiavica), la seconda via principale della città cioè il decumano (Via Cappello-Via S. Egidio). Essendo la città di forma quadrata, le due strade principali dovevano avere la stessa lunghezza. Infatti sono lunghe poco più di mezzo miglio romano, circa 750 e si incrociano perfettamente nel punto in cui sorge il Capitello. Tutte le strade, anche quella fluviale, hanno un facile accesso alla città. Come abbiamo notato sui luoghi principali sacri ai pagani sorsero in un secondo tempo le chiese cristiane. Nel nostro caso, lungo il percorso dell’orientamento del cardo, partendo da Est e andando verso Ovest, abbiamo chiese legate al santo del Solstizio d’estate dove sorge il Sole; vi è l’antichissima chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, sul Pian di Castagnè. Seguendo a ritroso questa linea e partendo dalla chiesetta troviamo: il betilo, poi una delle più antiche e importanti chiese di Verona, quella di San Giovanni in Valle e il Capitello di Piazza delle Erbe. Prolungando sempre questa linea dal Capitello, abbiamo chiese dedicate alla santa del solstizio d’inverno: troviamo a metà di Corso Porta Palio, dopo il semaforo, guarda caso, l’antichissima chiesa – oggi sede del tribunale militare – del convento delle suore di Santa Lucia, e il Sole tramonta dove oggi si trova la più antica chiesa del borgo di Santa Lucia, che si trova spostata rispetto alla strada statale che ricalca il percorso della Postumia. Mentre, prolungando la linea del decumano troviamo la chiesetta di San Rocchetto sulla collina a Ovest di Quinzano. San Rocchetto, il Pilotón e il Capitello formano un triangolo astronomico perfetto. Difatti, osserviamo la posizione della chiesetta: stranamente si trova poco più bassa rispetto alla cima del colle, dove era logico sorgesse. Quella strana posizione era motivata perché si trovava vicinissima alla quota altimetrica del Pilotón: San Rocchetto quota 163 m sul livello del mare, Pilotón m 149 – calcolata con strumenti attuali –. Come si nota, il triangolo astronomico costruito dai Romani era perfetto in tutti i sensi. Sempre su questa chiesetta, inizialmente era una piccolissima cappellina fondata addirittura dal famosissimo Arcidiacono Ireneo Pacifico, nato nell’anno 776 e morto nell’844, ed era dedicata a Sant’Alessandro. I punti cardinali dell’Est e dell’Ovest si calcolano quando il Sole sorge e tramonta durante i giorni degli equinozi. Nel nostro caso sono indicati a Est dal Pilotón e a Ovest dalla cappellina di Sant’Alessandro. C’è da porsi un’altra domanda: perché è stata innalzata la chiesa di San Giovanni in Valle in quella posizione così infelice? Forse perché da quel punto abbiamo la possibilità di vedere dalla città – per la prima volta durante il giorno –, dove tramonta il Sole sull’orizzonte al solstizio d’inverno. Cioè San Giovanni in Valle si trova a 70 m sul livello del mare, come la chiesa di Santa Lucia, perciò sullo stesso livello altimetrico rispetto l’orizzonte. Tutto quello che ho scritto con l’aiuto di Flavio Castellani, è verificabile senza alcuna difficoltà, usando la semplice carta topografica al 25000, tavoletta Verona, foglio 49 III Nord-Ovest, un righello e un goniometro. In conclusione, il Pilotón sarebbe da restaurare con i pezzi mancanti che si trovano sulla sua base e valorizzarlo; e smettere di insegnare ai bambini che il cardo e Via Cappello - S. Egidio e il decumano Corso Porta Borsari - Corso S. Anastasia. Infine, teniamo presente che quei calcoli astronomici sono stati fatti con strumenti vecchi di oltre 2200 anni fa.

Nessun commento: