Di Jaime Riera Rehren
Poeta, diplomatico, saggista, Octavio Paz, ambiguo e contraddittorio, amato e disprezzato, rivoluzionario e conservatore, è stato una figura tipicamente latinoamericana, mitizzata e onorata – dopo la morte – sugli altari delle icone nazionali (Neruda, Asturias, García Márquez, Vargas Llosa, e così via), ma anche un tormentato intellettuale cosmopolita che ha coltivato radici in Europa, in Giappone, in India, e che intratteneva con il suo paese un rapporto complesso e travagliato. Al prezzo di una inevitabile semplificazione, si può dire che il pensiero di Paz si dipani a partire dall’eterna ossessione messicana, la confluenza di quelle tre culture che s’incrociano cercando inutilmente una sintesi: le tradizioni amerindie, quelle coloniali e quelle nazionali che fin da giovane lo spingono nel labirinto della solitudine. Dal quale forse non uscì mai.
Paz ha attraversato il Novecento – quest’anno si è commemorato il centenario della nascita – ed è scomparso nel 1998, momento in cui il suo modo tutto sommato illuminista di intendere la modernità veniva travolto anche nelle forme letterarie. Non era però un voltairiano fuori tempo massimo, anzi, un nucleo ricorrente della sua riflessione ha tuttora valore, in un certo modo un valore antesignano: quella lucida e precoce percezione dell’impossibilità di sentirsi più o meno a proprio agio nella gabbia di un’identità. Attestazione di tale lucidità sono appunto il celebre saggio [/V_INIZIO]Il labirinto della solitudine, del 1950, e il notevole prologo alla sua biografia di Juana Inés de la Cruz, Le trappole della fede del 1982, testi in cui il destino storico degli individui e dei popoli appaiono accomunati nella medesima condanna a un’eterna adolescenza.
La strada che nel 1990 lo avrebbe portato al Nobel era iniziata agli inizi degli anni trenta, sedotto dal surrealismo, dal modernismo spagnolo e dalle atmosfere sovversive delle avanguardie parigine. Figlio della rivoluzione messicana e di un generale zapatista, Octavio Paz si trovò immerso fin da ragazzo nelle contraddizioni che assillavano le élite intellettuali latinoamericane, permanentemente incerte fra le sollecitazioni europee e il potente richiamo dell’appartenenza americana. Il Messico degli anni trenta e quaranta, anzi Città del Messico D. F., era un crogiuolo esemplare di questo scontro-incontro culturale, e Paz non si sottrasse all’esigenza di assumere anche posizioni politiche radicali. Scelte che però i lunghi soggiorni europei avrebbero successivamente intiepidito, malgrado il suo deciso schierarsi con i repubblicani durante la guerra civile spagnola. Furono gli anni della delusione politica: «Ma per noi la poesia non era un rifugio o una fuga: era una consapevolezza e una fedeltà. Di contro alle rovine e ai progetti andati in fumo vedevamo sorgere i suoi edifici trasparenti: la poesia rappresentava la continuità».
Soprattutto dopo l’assassinio di Trotzky, avvenuto a poca distanza da casa sua nella capitale messicana, la bestia nera era per Paz lo stalinismo; il che, per la sinistra comunista egemone di qua e di là dell’oceano, fece dello scrittore il paradigma dell’ «intellettuale borghese». Per reazione, sarebbero seguiti anni di relativo isolamento, un silenzioso dedicarsi all’attività poetica e al lavoro diplomatico, un crescente interesse per la cultura e la spiritualità indiana e giapponese, la riscoperta esplosiva del sentimento amoroso. Ma quando nel 1968 il governo messicano massacrò centinaia di studenti nella piazza delle Tre Culture, Octavio Paz, più unico che raro nei ranghi della diplomazia, si dimise dall’incarico di ambasciatore a Delhi e scrisse brucianti denunce dell’accaduto. Tuttavia gli studenti e i giovani poeti messicani degli anni sessanta e settanta non lo amarono (basterebbe rifarsi alle diatribe raccontate da Bolaño nei Detective selvaggi); per loro Paz era uno scrittore ormai decaduto, cultore di forme obsolete, che identificavano con il potere. E negli anni Ottanta, una manifestazione della sinistra messicana davanti all’ambasciata statunitense arrivò persino a bruciare un pupazzo raffigurante Octavio Paz, accusato di complicità con Reagan e con Tatcher.
In realtà, dietro questa figura pubblica di vate accomodante e conciliato pulsavano ancora – nella scrittura segnata fin dalle origini da inquietudini e ossessioni mai risolte – intuizioni sugli abissi dell’anima e dei sensi e sui conflitti collettivi che mal si conformavano al riflusso conformista dominante nel mondo intellettuale latinoamericano, e non solo, degli anni ottanta. Con grande rammarico non riuscì mai a dimenticare quelle dimostrazioni di ostilità che lo facevano sentire un esule in patria. Di fatto, rivendicando una scelta di libertà critica, Paz non si sentiva comodo fra i liberali che speravano di cooptarlo dopo la sua rottura con il socialismo reale. Il filo rosso del suo pensiero, il pensiero tragico di un poeta condannato alla solitudine s’identificava con la solitudine di un intero popolo che si domanda quale sia il proprio posto nel mondo.
È questa la continuità che vorrebbe restituire il volume titolato Anch’io sono scrittura. L’autobiografia (a cura di Julio Hubart, traduzione dallo spagnolo di Maria Nicola, Sur, pp. 160, euro 15,00 ), una scelta di testi autobiografici organizzati arbitrariamente senza alcun riferimento ai momenti e ai contesti in cui furono scritti, per cui un lettore poco avvezzo si ritrova spesso disorientato, a interrogarsi sull’autorialità delle pagine che sta leggendo. Resta il fatto che Octavio Paz percorre qui molti avvenimenti e vicissitudini della propria vita, e, si sa, le autobiografie hanno sempre ragione.
Verso il finale di questo racconto di sé (verso la fine della sua vita?), Paz ci dice e sembra dire a se stesso: «L’uomo, inventore di idee e di manufatti, creatore di poesie e di leggi, è una creatura tragica e irrisoria: è un incessante creatore di rovine. Le rovine racchiudono dunque il senso della storia? Se così fosse, che senso avrebbero? Chi potrebbe rispondere a questa folle domanda?». Domanda tuttora cruciale e stimolante.
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