Le versioni originali delle fiabe: c’era una volta il ‘non lieto fine’
Di Mario de Maglie
C’erano una volta le fiabe. C’erano una volta e ci sono tutt’ora. Siamo cresciuti ascoltando le storie di Biancaneve, Cappuccetto Rosso, La Bella addormentata nel bosco e gli altri grandi classici, quasi sempre anche guardandoli attraverso la tv o il cinema. Storie narrate ai bambini per farli sognare o farli addormentare. Un classico è l’immagine del genitore, ai piedi del letto del figlio, con il libro di fiabe in mano, suscita sempre un misto di tenerezza e ricordi infantili, in chiunque la rievochi, perché parla del proprio passato, non fosse altro per gli innumerevoli film per ragazzi in cui questa compare.
Di solito troviamo trame semplici in cui magia e fantasia conquistano le menti con un lieto fine teso a tranquillizzare i bambini che le cose, qualsiasi siano le avversità, si aggiustano. Calmi bambini, non vi spaventate troppo, esiste sempre una giustizia che porta inesorabilmente al ”e vissero felici e contenti”.
In realtà, le versioni originali delle fiabe spesso si discostano dalle versione edulcolorate che, nel corso del Novecento, sono state diffuse. Le fiabe, in passato, dovevano educare alla vita e, nella quotidianità, non sempre le cose vanno come vorremmo e il bambino doveva impararlo.
Prendiamo La piccola fiammiferaia, esiste forse racconto più triste, anche nella stessa versione ai più conosciuta? Una bambina che vende, in completa solitudine, fiammiferi la notte di Capodanno al gelo e che, alla fine, muore per il freddo. Cerco di ricordare come vissi questa storia da bambino e provo turbamento, perché nonostante la storia mi colpì , solo ora da adulto, ne comprendo la piena tragicità.
Incuriosito da questo mondo, a noi arrivato in versione alleggerita, sono andato
alla ricerca delle versioni originali delle fiabe dei Fratelli Grimm e ho letto il recente libro di Jack Zipes, esperto di fama internazionale di fiabe, ‘Principessa Pel Di Topo e altre 41 fiabe da scoprire’. Nell’opera vengono recuperate molte delle storie dei Grimm pubblicate nella prima edizione del 1812. Scopro che ben sette sono le edizioni totali, ogni volta riviste attraverso criteri depurativi degli elementi più tragici e violenti, fino alla settima edizione del 1857 che è quella definitiva e che noi conosciamo. Solo la prima edizione fa fede alla tradizione orale popolare di cui i fratelli si servirono per la loro raccolta.
I protagonisti dei racconti sono spesso giovani perseguitati o maledetti, bambini maltrattati e abbandonati, uomini che rivaleggiano e si scontrano, oppressi, persone malvagie che abusano del loro potere.
Le matrigne di Biancaneve e di Hansel e Gretel erano in realtà le loro madri naturali, ma furono trasformate in matrigne per tutelare il ruolo materno. Non si poteva accettare che una madre potesse essere malvagia.
Queste fiabe non erano state necessariamente concepite per bambini, anche se non di rado le ascoltavano, erano il frutto di una secolare tradizione orale che cercava di parlare della natura umana così come la vedeva, integrandola di elementi magici e fantastici.
Leggendo le vecchie versioni si nota come esse siano molto più crude e violente. Certo, siamo lontani da racconti horror o cose del genere perché il linguaggio è scarno, l’azione diretta, la suspense inesistente e troviamo dei temi che si ripetono in modo abbastanza costante fino a diventare monotoni, ma non possono che suscitare un certo sgomento storie quali “Come certi bambini si misero a giocare al macellaio” presente in due diverse versioni.
Nella prima un gruppo di bambini di cinque, sei anni giocano al “macellaio”: un bimbo fa il macellaio, un altro il cuoco ed un terzo il maiale. Il macellaio assale il maiale e gli taglia la gola, mentre il cuoco raccoglie il sangue in una ciotola.
Nella seconda versione sono due fratellini che giocano al “macellaio” e quello che fa il macellaio sgozza l’altro che fa il maiale. La madre che sta facendo il bagno ad un altro figlio più piccolo arriva, sentendo le urla, e visto l’accaduto, per la rabbia, colpisce al cuore il bambino rimasto. Intanto il figlio più piccolo, lasciato solo in casa, annega nel catino. La donna, realizzata la morte dei suoi tre figli, per la disperazione si impicca e quando il marito torna dai campi e scopre quello che è successo muore di crepacuore.
Non proprio il lieto fine a cui siamo abituati.
L’aggressività è parte integrante della natura umana ed è sempre meglio quando è presente in un racconto, in un film o in un video game che quando è presente nella nostra vita, ma lo è anche in quella, indipendentemente dalle nostre migliori intenzioni.
La questione è se il trovarla in un cartone o in un racconto faccia da canale di sfogo o nutra invece l’istinto di emulazione. Non so rispondere, da ragazzo guardavo molti cartoni violenti e, ad oggi, credo di aver visto la maggior parte degli horror in circolazione, essendone un appassionato ma, seppure convinto dell’importanza di un controllo ragionato di quello che arriva ai bambini, tramite soprattutto i nuovi mezzi di comunicazione, personalmente a me ha fatto sempre più timore la violenza della vita che quella dei cartoni, per quella non c’è censura che tenga.
La questione è complessa almeno quanto lo è la mente umana. Una personalità fragile può rimanere molto più colpita da certe scene e da certi racconti, ma una personalità fragile, prima o poi, troverà il modo di mostrare al mondo la sua fragilità, questo non ci deve tuttavia esimere dal tutelare i nostri bambini dall’esagerazione e dall’esasperazione della violenza gratuita, consapevoli che non è comunque mettendoli sotto una campana di vetro che li aiuteremo ad affrontare la vita per quello che è e non per quello che vorremmo fosse per loro.
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