lunedì 1 agosto 2016

I Kalash gli ultimi pagani dell' Afghanistan, la loro esistenza è ora in serio pericolo dall'islam


Figli di Dioniso

Re pastori, seguaci della cultura "caprina". Sono i kafiri: mille eredi biondi di Alessandro Magno. Nel Pakistan di Italo Bertolasi

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Foto di Italo Bertolasi
Cartina L.Varaschini

Nemici di Allah, infedeli. Una tra le più piccole e combattive popolazioni della terra è chiamata kafir. Un insulto e una minaccia rivolta a chi è colpevole di blasfemìa contro l'Islam. Ma i mille kafiri, che sopravvivono in un eden alpestre tra i labirinti rocciosi dell'Hindukush, mai domati e mai islamizzati, si autoproclamano kalash. Uomini liberi. Dell'antico e leggendario regno del Cafiristan rimangono tre valli nell'alto Chitral pakistano: Rumbur, Bumburet, Birir. Piene di pini, querce, noci. Gonfie di acque. La loro esistenza è un rebus antropologico, un miracolo di sopravvivenza in un ambiente estremo, e unico esempio di vittoriosa resistenza etnica contro i disegni della teocrazia militar-religiosa che regge il Pakistan. Il Pakistan conta un 97 per cento di musulmani (musulman vuol dire credente) e solamente un 3 per cento di kafiri. Tra questi ci sono i parsi, ultimi superstiti della potente comunità zoroastriana; e i cattolici, sempre più perseguitati: il vescovo di Faisalabad, John Joseph, si è suicidato il maggio scorso per denunciare le condanne a morte pronunciate contro i cattolici accusati di blasfemia. I kafiri kalash si proclamano anche "ultimi greci dell'India": sostengono di discendere dagli eroi dell'invincibile armata di Alessandro il Grande che nel 326 a. C. attraversò il Cafiristan per conquistare l'India. Nei bashikek - i loro canti epici - ricordano come sperma greco e magie di fate (le suchi) hanno originato montanari biondi dagli occhi azzurri. Che coltivano la vite, bevono vino, celebrano riti orgiastici e dionisiaci dove le belle kafire danzano come vere baccanti. Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell'Oxus (l'Amu Darja). L'antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell'odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio. La prima volta li ho visitati trent'anni fa. Allora non c'erano turisti. C'erano soltanto sentieri avventurosi attraverso gole e torrenti che mi hanno riportato in "un'isola antichissima di genti, cose, idee, costumi sopravvissuti alle frane del tempo". In una terra di pace che aveva ammaliato nel 1959 Fosco Maraini, scrittore e antropologo, autore del libro Gli ultimi pagani (ed. RED). Kipling vi ambientò il romanzo L'uomo che voleva essere re e il "visionario" russo Gurdjieff ricorda nei suoi diari di viaggio l'incontro con i "cercatori di verità" dell'Hindukush. Mentre gli hippy degli anni '70 vedevano nel microcosmo cafiro il modello di una comunità ideale. Oggi anche il Cafiristan è una terra violata da strade militari con una sorta di "dogane" che ti costringono a pagare un biglietto d'ingresso per entrare a vederli, come in un museo o in uno zoo. Le belle foreste di pini e ginepri, da terreno di caccia e di legnatico, sono state confiscate dal governo e i fondovalle svenduti ai coloni pakistani che hanno invaso le terre. I nuovi arrivati sono usati come muro umano per arginare l'ondata di afghani in fuga attraverso le valli cafire. I profughi afghani in Pakistan sono oggi quasi un milione. Mi sono affezionato ai kafiri e sono ritornato tra loro più volte: ad accogliermi c'era sempre il capo villaggio Bumbur Khan e il kasi - il cantastorie e guardiano delle tradizioni - Khoshinawas. Una vera enciclopedia vivente che ricorda centinaia di bidra kalein, i miti della tribù cantati durante le feste. Bumbur Khan ha due mogli, una dozzina di figli e ha trasformato il granaio domestico in un lodge dove accoglie turisti e studiosi. Trent'anni fa, quando passeggiavamo per la valle di Bumburet - la sua valle - mi mostrava lo scempio perpetrato dalle spedizioni "scientifiche" e da atti di terrorismo islamico. Gli antropologi avevano profanato le basciali, i templi riservati alle donne che conservano la vulva in legno di Dezalik, la dea del Parto. Entrando, fotografando e misurando tutto avevano costretto i kafiri a demolire questi spazi magici e a riconsacrarne dei nuovi. Gli studiosi avevano rubato i gandau, le statue lignee che raffigurano gli antenati usate per proteggere i villaggi, i campi e i cimiteri. Di notte giravano bande di fanatici musulmani che li decapitavano: per loro erano "idoli demoniaci". Oggi la strage di questi totem è compiuta: del centinaio di gandau di allora non ne rimane che una solitaria coppia. Ma ci sono ben più tragiche calamità. La piccola comunità cafira è divisa da tremendi conflitti. C'è chi ha "tradito" la propria gente islamizzandosi o facendosi cristiano. Negli ultimi anni girano in valle strani missionari americani che assomigliano a mujiadin. La valle è ferita da recinti e fili spinati che difendono le proprietà private dei coloni padroni. Così si bloccano sentieri vitali che conducono ai pascoli d'alta montagna. E non c'è più libertà di muoversi nella propria terra. Poi c'è il progetto violento d'acculturazione: maestri e mullah fanatici - preti islamici - costringono i bimbi kafiri a esprimersi solo in urdu - la lingua del Pakistan - e a studiare il Corano. L'educazione cafira, invece, è un galateo di libertà. I bimbi frequentano l'unica scuola utile: il villaggio. Oggi i kafiri vivono sempre più stretti nei loro nidi d'aquila abbarbicati a mezza montagna, collegati da sentierini che costeggiano acquedotti pensili. I villaggi sono rimasti come centinaia d'anni fa. Raccolti intorno ai templi - le Jesta Khan - dove si venera Jesta, l'energia materna che conserva il mondo. Il tempio cafiro è un mandala - un cosmogramma - e una "macchina del tempo". Nelle giornate di sole dal tetto bucato scende un filo di luce diaframmata da travi sovrapposte a spirale. È un complicato orologio solare: nel giorno del solstizio d'inverno il raggio di luce bacia la statua di Jesta e fa esplodere la gran festa del Chaumos. La geomanzia cafira attribuisce ai luoghi più alti un'aura di potere e sacralità. Le valli sono così disegnate da curve di livello energetiche e spirituali. Le terre basse, vicino al fiume, occupate dai musulmani, sono sempre di più impure e pericolose. Qui da sempre i kafiri hanno i loro cimiteri con le casse di legno fuori terra, sigillate da enormi pietroni, e le basciali, le case del parto. A mezza montagna è edificato il villaggio a gradoni, e in cima le stalle delle capre che ogni tanto accolgono le suchi, le fate che incarnano la forza fecondante di madre Natura. Più su, enormi macigni irradiano invece la forza maschia e solare di Mahandeo e di Balumain. Le fate cafire risiedono nelle terre purissime delle vette. Proteggono i markor (gli stambecchi), i dehar (gli sciamani), i re pastori e tutta la natura nuda e selvaggia dell'alta montagna. Le vette sacre sono un luogo tabù. Sarebbe una vera profanazione ascendere la piramide del monte Palar, dove risiedono dèi e antenati in palazzi d'oro che si vedono ogni tanto luccicare al sole. Morte e follia castigano chi offende madre Natura inquinando acque sorgive, tagliando alberi fratelli o assassinando animali guida. Il mondo cafiro è così diviso tra sacro e profano, puro e impuro. Tutto quello che è alto e selvaggio - monti, animali selvatici ma anche capre e stalle - è puro; mentre tutto quello che è in basso, non è libero ed è stato addomesticato - fondovalle ma anche vacche e polli - è impuro. I kafiri appartengono a una cultura caprina, che predica il nomadismo, la sacralità della wilderness e del caprone totem, in netto contrasto con i popoli contadini e sedentari dell'India che appartengono invece alla "cultura della vacca sacra". La capra è un tesoro. Il potere di un uomo si misura dal numero delle sue capre e i re - i capo villaggio - sono onorati col titolo di "uomini dalle molte corna". Il simbolismo della capra compare dappertutto: nelle danze e nelle lotte a suon di cornate dei caproni, nei ricami delle tuniche che raffigurano capre stilizzate e nel make-up delle donne che si tingono impressionanti sopracciglia cornute. In questo universo agreste i pastori eremiti che trascorrono tutta l'estate negli alpeggi sono considerati dei budalac, eroi. Bumbur mi invita a salire in montagna per incontrarli. Mi spiega che la scuola di vita che ti fa diventare un vero uomo è lassù in alta montagna, tra capre e pastori. Gli alpeggi cafiri sono in mezzo a un mosaico di terre di nessuno che dividono Pakistan e Afghanistan, dove puoi incontrare, come cent'anni fa, banditi armati fino ai denti. Ma sotto protezione cafira mi sento al sicuro e salgo scortato dal figlio di Bumbur Khan. Vorremmo incontrare un famoso pastore-sciamano sepolto da anni in un eremo di montagna. Lo raggiungiamo dopo una faticosa arrampicata: la sua reggia è in cima a una rupe con vista panoramica su tutti i quattro lati. È ricoperto di stracci ma il suo sguardo rivela una forza magnetica. È circondato da cani lanosi che sembrano levrieri afghani e da altri pastori. Ci offre del tè e un po' di ciapati (un pane sottile cotto alla piastra) condito con una gustosa ricotta. Mi vuol mostrare le famose dizilawat - le rocce della creazione - dove si offrono acqua, latte, vino, sangue di capra e incenso di saras (ginepro) a Sajigor, il dio delle vette. Quest'eremita ci svela di essere anche un erborista e un dehar, uno sciamano. Passo giorni di sogno: sopra le testa volano i bombardieri afghani mentre il nostro re ci vuole convincere a rimanere in montagna promettendoci che con una full immersion di qualche mese si può diventare sciamani. Scendo a valle ripensando a quell'offerta: nessun uomo bianco ha mai seguito la via dei dehar. Ma il mondo è cambiato anche in queste valli e i giovani kafiri non ne vogliono più sapere di isolarsi in montagna per diventare sciamani. Il figlio di Bumbur, esempio perfetto di nuovo kafiro, sogna Peshawar e le grandi città. Ha sempre con sé una radio che rompe il silenzio della montagna. Quando si visita il Cafiristan si rimane sedotti dalla bellezza delle donne kafire. Ti sorridono senza chador e senza veli. Per farsi più belle indossano maestose kupas, copricapi-criniera fatti di lane, argenti e conchiglie. E si tingono gli occhi con kajal nero e sugo rosso di sambuco. Nella festa della primavera - lo joshi - le ho viste danzare lo zabum. Accese dal rombo dei tamburi girano su se stesse come trottole fino allo sfinimento. Il corpo è scosso da un tremito sacro che i kafiri chiamano umbulu. Lo sguardo è in cielo. È una danza nuda ed estatica ispirata al movimento di rotazione dei pianeti per "ricreare" ordine e armonia. È "fuoco che brucia e sole che sorge di nuovo", spiega Kasi Khoshinawas. In autunno ho visto imbottigliare il vino. Gli onjesta mosh, i bimbi vergini, iniziano a pigiare l'uva in mastelli di latta. Il lavoro è poi completato dai fratelli maggiori. Il mosto è conservato fino a dicembre per la sbronza rituale della festa del solstizio: una specie di Natale. La vite cresce abbarbicata agli alberi di noce e l'uva matura ad altezze vertiginose. La coltivazione di quest'uva alpina rimanda a una nuova leggenda. L'uva sacra a Dionisio è stata forse portata fin quassù da eroi che hanno percorso una "Via del Vino e dell'estasi" che partiva dal Mediterraneo. Più segreta della famosa e trafficata "Via della Seta". Il vino che per ogni buon musulmano è una droga sacrilega, per i kafiri è un'ambrosia offerta a Balumain, un Dioniso locale, che alla fine dell'inverno fa ritorno nel Cafiristan. Per raggiungere le tre valli cafire d'inverno devi per forza volare sugli aeroplanini a elica che collegano Peshawar a Chitral. Le tempeste di neve sommergono il Logorai Pass isolandole dal mondo. Ho voluto festeggiare lì il chaumos, la festa del solstizio invernale. Un'orgia pantagruelica (chaumos vuol dire quattro volte carne) e un rito per propiziare il ritorno del sole, del calore e della vita. Nei giorni di vigilia si preparano i shishao (pani ripieni di noci e cotti dai ragazzi vergini), e i kuturuli (dolci a forma di genitali femminili), che sono offerti a Kushumai, dea dei campi e dell'amore. E nel giorno del ditsh - della gran purificazione - si fanno bagni di sangue, di fuoco e d'acqua ghiacciata di torrente e ancora fumigazioni di ginepro. Per proteggere questa purezza rituale i kafiri si ritirano nei loro villaggi imponendosi il divieto di far sesso e di avvicinarsi a tutto ciò che è pragata, impuro. Per tre giorni nessun kafiro potrà allora incontrarsi con un musulmano. Mi ero anch'io asperso con il sangue del capretto sacrificale, benedetto con l'incenso di ginepro e purificato con un bel bagno di torrente. Bumbur mi spiegava che questo fanatismo per la purezza è una cura intelligente che rinforza i villaggi e la cultura cafira. Tabù, bagni e diete sono antidoti contro malattie e disgrazie. Danze e feste un modo per rinsaldare il gruppo e alleviare i conflitti sociali. Il chaumos è una performance politica dove si afferma la voglia di resistere alla repressione islamica. Tutto questo viene simboleggiato dal rogo di un fortino di assicelle di pino pieno di nemici e di altri demoni. La notte santa del solstizio è anche la notte dei sacrifici. Guidati dai prodi budalak - i re pastori - si sale in montagna invocando Balumain, dio Ariete: "Noi ti onoreremo con fiumi di fango. Donaci il calore della primavera e il seme caldo che ingravida i ventri delle nostre donne". Per raggiungere le rocce sacre, troni di Balumain, scaliamo un canalone senza tracce di sentiero. Il luogo più sacro è il più selvaggio e il dio del solstizio sceglie d'atterrare ogni anno su un gruppo di rocce antropomorfe in cima a una frana. Ogni capofamiglia porta un caprone da sacrificare: anch'io ho un bel caprone rosso. La capra sarà sacrificata quando il suo corpo sarà scosso da brividi: segno che la divinità prende possesso della vittima. Il tremito può contagiare i dehar e i giovani più sensitivi che cadono in trance manifestando la loro vocazione sciamanica. Ma dopo una trentina di sgozzamenti nessuno si contorce. Peccato. Quest'anno non ci sarà un nuovo sciamano. 


Figli di Dioniso | Dmemory numero 105 del 16 Giugno 1998 | D - la Repubblica

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