Che cosa ci fa un pino himalayano a Roma, dritto davanti al Colosseo? Sta lì da ottant’anni, da quando lo portò in Italia Giuseppe Tucci, celebre tibetologo al tempo del regime fascista, fondatore dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente. L’orientalista del Duce, lo chiamavano. Si trova così bene nei giardini di Colle Oppio, quel pino, che le sue radici sono penetrate in profondità, dove ha trovato ottimo nutrimento nella malta antichissima che sta lì sotto. Peccato soltanto che quella malta di epoca romana tiene insieme una delle parti più preziose della volta della Domus aurea, l’immensa dimora per gli svaghi dell’imperatore Nerone. E le radici del pino dell’Himalaya, alla lunga, la stanno sgretolando. Per evitare il peggio bisognerebbe estirpare la pianta. Con zero possibilità di sopravvivenza. Ma tant’è: la scelta è fra la vita di un pino ottantenne e il destino di un pezzo della nostra memoria, che ha quasi duemila anni e un valore storico archeologico inestimabile. Per quanto dolorosa, la decisione a svantaggio del povero pino sarebbe inevitabile.
Il buonsenso
Siamo però in Italia e il buonsenso abita altrove. Ecco allora che a sostegno delle ragioni della pianta si è formata nel quartiere una robusta scuola di pensiero, sostenuta da associazioni e singoli cittadini, che si oppone alla pena capitale per il prezioso vegetale. E qui viene fuori il vero problema che affligge lo sterminato patrimonio archeologico di Roma. Dal 1925, a causa dell’introduzione di una cervellotica e insensata suddivisione dei tesori capitolini, una parte di essi è stata attribuita in proprietà al Comune. Il quale ha pure una propria Soprintendenza distinta da quella statale. Due galli nello stesso pollaio. E che pollaio. Il Colosseo, per esempio, è dello Stato. Mentre l’area circostante è del Comune. Come è pure del Comune il Mausoleo di Augusto. L’area del Palatino è statale, ma il Circo Massimo è comunale. Al pari dei fori imperiali: però non tutti, perché ce n’è un bel pezzo di cui è padrone il Campidoglio. Ma è alla Domus aurea che questa follia, che non ha mai avuto ragion d’essere e chissà perché in novant’anni nessuno ha mai cercato di risolvere, raggiunge l’apice. Nessuno, almeno fino a questo momento.
Il ministro
Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e il sindaco di Roma Ignazio Marino hanno ora deciso di creare un consorzio fra Stato e Comune per arrivare almeno a una gestione condivisa. I nostri migliori auguri. Torniamo alla Domus aurea. La dimora di Nerone è dello Stato; i giardini soprastanti, che ospitano i resti delle gigantesche terme fatte costruire all’inizio del secondo secolo da Traiano sulla sontuosa dimora neroniana utilizzata come fondamenta dopo essere stata ricoperta di terra e detriti, sono invece del Comune. Come sono pure del Comune le cosiddette Gallerie di Traiano, ossia le altre fondamenta delle terme che si intersecano con le strutture della Domus aurea. Una contraddizione esplosiva, in cui il pino di Tucci recita la parte del detonatore. Se i giardini sono del Comune, la pianta deve sradicarla il servizio giardini del Campidoglio. Ma non prima di aver concluso le trattative (come se fosse possibile una soluzione diversa…) con i cittadini del quartiere. Affidate a un apposito «mediatore sociale«. E chi altri, se no, per un compito così socialmente difficile? La faccenda del pino, per quanto possa sembrare marginale, è invece un dettaglio importante per il successo del progetto di risanamento avviato l’anno scorso. Il piano prevede il rifacimento dei 16 mila metri quadrati di giardini che insistono sulle strutture, con la riduzione dello strato di terra e l’impermeabilizzazione delle volte. Il che comporta l’obbligo di togliere tutte le piante di alto fusto. Il fatto è che il problema cronico della Domus aurea è proprio costituito dai giardini del colle Oppio. Quella è la fonte delle infiltrazioni d’acqua che mettono a rischio le murature e vanificano del tutto i restauri degli affreschi che si sono conservati per due millenni grazie al fatto che dai tempi di Traiano la grande dimora neroniana è stata interrata. Non era una casa vera e propria, ma una splendida villa per feste con 300 stanze costruita dopo il terribile incendio di Roma del 64 dopo Cristo. Quando ne venne scoperta l’esistenza, nel quindicesimo secolo, si cominciarono a praticare fori nelle volte attraverso cui artisti e curiosi si calavano all’interno, negli spazi lasciati liberi dalla terra per ammirare le strabilianti decorazioni sulle pareti di quella specie di grotte. Che presero appunto il nome di grottesche.Gli scavi
Si racconta che Raffaello, Michelangelo e Bernardino di Betto Betti, meglio noto come il Pinturicchio, fossero fra gli abituali speleologi in quelle missioni alla luce delle torce. E le tracce degli affreschi della Domus aurea si ritrovano in molte decorazioni rinascimentali, per esempio quelle delle Logge del Vaticano. Per secoli gli scavi sono andati avanti, così come le sistemazioni dei giardini sovrastanti, che però non sono mai riusciti a sfuggire al degrado. La storia recente, poi, non è certo più edificante. Dopo restauri durati molti anni, nel 1999 la Domus aurea viene aperta al pubblico: il grande Giubileo merita un evento cittadino degno della ricorrenza. L’anno successivo entrano nella dimora neroniana 197.667 visitatori paganti. Nel 2001 sono 133.128. L’anno seguente, 120.296. Nel 2003 scendono a 103.879, più o meno come nel 2004. E nel 2005 siamo a 100.883. Poi più niente. La Domus aurea viene chiusa: troppo pericolo a causa delle infiltrazioni d’acqua. E poi non c’è il becco di un quattrino. Il progetto presentato nel 2001 per il risanamento di tutta l’area, compresi i degradatissimi giardini che sono pieni di spazzatura e ridotti a bivacco di extracomunitari, è fermo. Dei 130 milioni previsti neanche l’ombra. I sali e le muffe, nel frattempo, si stanno divorando i restauri fatti negli anni precedenti.
Nel 2002, quando il rubinetto si chiude definitivamente, al governo c’è Silvio Berlusconi e al ministero dei Beni culturali Giuliano Urbani. Nel 2006 torna a palazzo Chigi Romano Prodi e la Domus aurea viene commissariata con un’ordinanza di Protezione civile. Il ministro Francesco Rutelli affida l’incarico a un dirigente dei Beni culturali, Luciano Marchetti. Giusto il tempo di mettere qualche toppa e nel 2008 i diluvi dell’autunno aggravano ancora di più la situazione. Finché nel 2010 crolla la volta di una galleria traianea e si apre una gigantesca voragine nei giardini. L’anno seguente, a cinque anni di distanza dal commissariamento decretato per «somma urgenza» inizia qualche lavoro di consolidamento. Sono gli anni nei quali si affida tutto alla Protezione civile di Guido Bertolaso, dai Grandi eventi del G8 e dei mondiali di nuoto agli scavi di Pompei, con risultati che le cronache impietosamente hanno raccontato: gli sprechi, le inchieste giudiziarie, i processi. E la Domus aurea finisce nello stesso tritacarne. Del resto Marchetti ha ben altro a cui pensare. Nell’aprile 2009 eccolo infatti contemporaneamente commissario dei beni culturali del terremoto a L’Aquila. Incarico che avrebbe fatto bene a non accettare: nel giugno 2014 Marchetti viene arrestato nell’ambito di un’inchiesta sulla ricostruzione delle chiese. In seguito rimesso in libertà, è ora in attesa della decisione di un eventuale rinvio a giudizio. Pur a mezzo servizio, nel 2011 riesce comunque a sfornare un progetto per la Domus aurea, con una soluzione radicalissima delle infiltrazioni. Ovvero, l’eliminazione del giardino. Al suo posto, un museo sorretto da pali d’acciaio infissi nelle strutture della dimora neroniana. Manco a dirlo, la cosa suscita polemiche e finisce su un binario morto.
Arriva Mario Monti al governo e il commissariamento finisce. Marchetti lascia e ha la meglio il progetto alternativo, quello di risanare i giardini di Colle Oppio e impermeabilizzare le volte. I cantieri si aprono nel settembre del 2014. Il costo previsto per il progetto del nuovo giardino è di 31 milioni e la previsione è di completare i lavori nel giro di quattro o cinque anni. Per rispettare la tabella di marcia servirebbero fra i sette e gli otto milioni l’anno. E qui incrociamo le dita. Perché si tratterà di trovarli, quei soldi, anche dai privati, con il sistema del crowdfunding (le sottoscrizioni, che finora hanno portato in cassa 6.185 euro) e con il meccanismo del cosiddetto art bonus che mira a stimolare il mecenatismo. Il consorzio fra Stato e Comune dovrebbe servire pure a questa funzione. Vedremo. E speriamo che quella non sia solo un’operazione di facciata. Perché abbiamo il dubbio che per mettere fine a un dualismo scriteriato nella gestione dell’immenso patrimonio archeologico di Roma un consorzio non sia una gran soluzione. Ma la fusione della Soprintendenza comunale in quella statale, quella sì. Francamente ci sembra l’unica strada.
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