Di seguito un testo di Goffredo Parise pubblicato il 30 giugno del 1974, si intitola: “Il rimedio è la povertà”.
«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che
sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi
accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio
odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il
diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra,
usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza
produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e
dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono
d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il
titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere
di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali,
perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali
scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non
consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli
affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo
nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è
insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei
prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta
di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si
vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la
benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente.
Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri
ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di
cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la
nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i
miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i
miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed
economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo
necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e
non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di
locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a
piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e
cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi
esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del
rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e
minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la
qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà
vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura
niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda
e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente
ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio,
il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese;
imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli
imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma,
educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli
alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal
nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un
intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del
linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e
artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione
elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e
poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi,
della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del
proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici
tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere
nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno
strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla
vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa
di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura,
come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è
riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal
cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di
mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e
invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta
di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti
costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di
stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda),
costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di
sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi
scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso
vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola,
ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al
mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al
mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura
sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità
delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta
disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa
età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui,
naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro
“qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha
ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste,
nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e
politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e
pubblicizzato come l’élite, come la differenza e
differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai
partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano
impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces
ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono
dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto
questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la
massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute
fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere
estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la
sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola.
Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”,
come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi,
bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale.
La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme
cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il
berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in
fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare,
era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica.
Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a
impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della
ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans
con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come
un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un
capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente
convinto, salverà il nostro paese».
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