venerdì 4 maggio 2018

L'asino d'oro: storia legata all'iniziazione isiaca


Sotto l’imperatore Antonino Pio ed il proconsole Claudio Massimo, probabilmente nel 158, si svolse un singolare processo di magia a Sàbratha, città sulla costa della Libia a settanta chilometri ad ovest di Tripoli, Oea per i Romani. Era imputato Apuleio di Madaura, in Numidia, un intellettuale di famiglia illustre, abile oratore e filosofo molto conosciuto ed apprezzato di scuola neoplatonica.
Risultati immagini per magia  isiacaNon si hanno notizie precise sulla sua vita. Da alcune vaghe note autobiografiche, che si possono trarre dalle sue opere, pare sia nato intorno al 125 d. C. e che fu avviato dal padre precocemente alle arti liberali in Cartagine. Ma, spinto dalla curiosità di conoscere il mondo, desideroso di viaggiare e di ampliare i suoi orizzonti culturali, Apuleio si recò ad Atene, dove aggiunse ai suoi studi retorici interessi filosofici e scientifici e si avviò al processo d’iniziazione a diversi misteri, desideroso di avvicinarsi ad ogni forma del sapere. Viaggiò a lungo da occidente ad oriente, fu in Attica, in Asia Minore e per brevi periodi fu a Roma, dove esercitò la professione di avvocato. Dall’Italia ritornò a Cartagine. Durante un viaggio verso Alessandria, la stanchezza lo costrinse a fermarsi in  Oea, ospite della nobile famiglia degli Appii. Ma Ponziano, un suo amico, che era stato suo condiscepolo ad Atene, lo invitò a recarsi ospite a casa sua, per trascorrervi l’estate e riprendere le forze. Il lungo viaggio verso Alessandria sarebbe stato più pericoloso nei mesi estivi per le bestie feroci e per il caldo della regione sirtica. Apuleio accettò di buon grado l’ ospitalità dell’amico Ponziano, che viveva con la madre vedova e il fratello minore Pudente di quindici anni. Qui nel 158 ebbe inizio il processo contro di lui con la seguente accusa: aveva sposato la ricca quarantenne, Pudentilla, vedova da quattordici anni. Lo si accusava di avere plagiato la donna e di averla indotta a sposarlo con la magia per entrare in possesso delle sue ricchezze. Il matrimonio, in effetti, era stato proposto da Ponziano, con viva sorpresa di Apuleio. Lusingato dalle parole dell’amico e circuito dall’amorevole ospitalità della vedova Pudentilla, non insensibile al fascino del giovane e della fama di brillante oratore che lo accompagnava, Apuleio accettò di convolare a giuste nozze. Il matrimonio doveva essere celebrato dopo che Ponziano avesse preso moglie e il fratello più piccolo, Sicinio Pudente, avesse indossato la toga virile. Tuttavia, indotto dall’avido e corrotto suocero, Ponziano cominciò a mostrarsi ostile verso l’amico e finì con l’imporre alla madre di non contrarre le seconde nozze. Ma la vedova, conquistata dalla giovinezza organica e dalla brillante personalità di Apuleio, ruppe ogni indugio e affrettò le nozze, che furono celebrate in una casetta di campagna, nei dintorni di Oea. Il caso volle che poco tempo dopo Ponziano morisse, non prima di avere riconosciuto i propri torti nei confronti dell’amico. L’avido suo  suocero, che ora era interessato a sposare la figlia al fratello minore di Ponziano, cominciò a spargere la voce che la morte del genero era stata provocata dalle arti magiche di Apuleio, le stesse che aveva messo in pratica per indurre al matrimonio Pudentilla. A questo punto, lo zio paterno, per difendere gli interessi del nipote, presentò contro Apuleio l’accusa di magia, appellandosi alla lex Cornelia, che colpiva, tra gli altri crimini, il crimen magiae. Apuleio ci ha tramandato la sua linea di difesa contro l’accusa nell’orazione Apològia o De magia, che è una fonte preziosa per conoscere la vita dell’oratore, ma soprattutto la diffusione dei riti magici nell’antichità.
I capi d’accusa che vengono dall’oratore citati erano i seguenti:

'1. Pudentilla non ha mai voluto rimaritarsi dopo la morte del primo marito: lo ha fatto perché costretta dai miei incantesimi (mala sacrificia);
2. nelle sue lettere gli accusatori ritengono ci sia la confessione dell’azione magica;
3. a sessant’anni d’età Pudentilla, dopo quattordici anni di vedovanza, si risposava solo per voglia di sesso e non per procreare ( le leggi Iulia e Papia Poppaea vietavano agli uomini ultra sessantenni e alle donne che avessero superato la soglia dei cinquant’anni di contrarre matrimonio, perché si presumeva sarebbe stato sterile);  4. l’atto matrimoniale era stato stipulato privatamente nella villa di campagna e non in città;
5. avrei sposato Pudentilla per la sua ricca dote '.

Apuleio inizia la difesa distinguendo per prima cosa la magia bianca dalla magia nera. La prima corrisponde alla sapienza che il mago-filosofo deve possedere e arricchire, mostrandosi pio verso gli dei, che vanno propiziati con adeguati riti. La magia nera è, invece, cattiva, serve a piegare le forze divine e naturali ed è da condannare perché pericolosa. La sua qualifica di mago corrisponde a quella del filosofo, che studia le leggi della fisica, per cui la sua attività è lodevole e degna di apprezzamento. Tra i capi d’accusa alcuni risultavano ridicoli e frutto dell’ignoranza: era un filosofo troppo giovane, appena ventottenne, e troppo vanesio. Portava i capelli lunghi e faceva uso di uno strumento magico per eccellenza, come lo specchio, che portava sempre con sé. Inoltre, usava come dentifricio una polverina ricavata da alcune piante arabiche e teneva nascosta una statuetta in legno d’ebano, che per gli accusatori raffigurava uno spettro scheletrico adatto ai riti malefici.
Seguirono altre accuse. La prima sosteneva che Apuleio avesse comprato due frutti di mare, i cui nomi richiamavano gli organi genitali maschili e femminili, per ammaliare Pudentilla con una pozione adatta  allo scopo. Pare si trattasse di due conchiglie, la virginal e la veretilla (virile veretrum = membro virile), che per i Greci e i Romani designavano l’una l’organo femminile, l’altra i genitali maschili. Virginal potrebbe essere anche il pettine di mare, mentre  veretilla un pesce somigliante all’oloturia. Apuleio si fa beffa dei suoi accusatori, ridendo di quanti credessero che i frutti di mare abbiano virtù magiche. Fingeva però d’ignorare che i pesci per i suoi contemporanei erano sacri ad Afrodite, nata dalla spuma del mare, e che particolari pesci venivano usati per produrre particolari pomate afrodisiache. Una seconda accusa affermava che Apuleio in un luogo segreto avesse pronunciato delle formule magiche, che avevano tramortito un giovane schiavo. Apuleio si difese sostenendo che il servo era epilettico e, infatti, poco dopo s’era rialzato senza ricordare nulla dell’accaduto.  Altre accuse sulla sua attività di cultore di arti magiche e di culti misterici furono con la medesima brillantezza oratoria confutate dall’accusato, che ogni volta l’ebbe vinta per mancanza di testimoni. La fama di possedere poteri occulti accompagnava Apuleio, cui si attribuivano vari miracoli, resurrezioni di morti, guarigioni, in cui l’arte medica sconfinava in quella magico-misterica e viceversa.
    
Apuleio non negò mai di essere stato iniziato in Grecia ad alcuni culti misterici, ma insisteva sulla natura dei suoi interessi, che andavano dalla filosofia alla fisica, dalla medicina alla scienza in generale. Purtroppo, egli stesso lo riconosceva, ai suoi tempi era molto labile la linea di demarcazione tra scienza e magia. Durante il processo, senza infingimenti, Apuleio confessò che il matrimonio gli era stato quasi imposto dal figlio, preoccupato dello stato di salute della madre che, a detta dei medici, soffriva molto per l’astinenza sessuale e che solo il matrimonio avrebbe potuto guarire la povera donna, assalita da un costante deperimento dell’apparato genitale con continui dolori che la riducevano in fin di vita. Apuleio confessò ai giudici che non voleva contrarre matrimonio non solo per la differenza d’età, ma perché non voleva interrompere la sua aspirazione a viaggiare per conoscere il mondo. Tuttavia, durante la sua arringa usò sempre parole di grande rispetto verso la donna, sottolineando che il matrimonio era stato felicemente consumato e sempre onorato con piacere molto appagante per entrambi i coniugi. Apuleio vinse la causa e uscì indenne da un processo che avrebbe potuto condannarlo a morte se fosse stata riconosciuta l’accusa di magia. A decretare la sua assoluzione, giovò poi il testamento di Pudentilla, che diseredava Apuleio e nominava come suo unico erede il figlio Pudente. Dopo questa brutta vicenda, Apuleio si trasferì a Cartagine, dove ricoprì incarichi religiosi e civili di alto prestigio, che gli meritarono onori e gloria e monumenti celebrativi ancora in vita. Della conclusione del suo matrimonio non si ha notizia. È probabile che il matrimonio sia naufragato per l’intervento dei parenti della donna o per naturale decesso. Si sa, comunque, che Apuleio si votò al sacerdozio di un culto che predicava l’assoluta castità, sublimando negli studi scientifici e nella ricerca filosofica e misterica ogni ardore sessuale. La fama di mago sopravvisse alla sua morte. Lattanzio, apologista cristiano, originario dell’Africa settentrionale come Apuleio, vissuto tra il terzo e il quarto secolo, considerava Apuleio uno dei più famosi taumaturghi pagani, mettendolo a confronto con Gesù Cristo. Un secolo dopo, tra il quarto e il quinto, Agostino ricordava nelle sue opere la potenza oratoria del suo connazionale Apuleio e metteva in guardia i Cristiani a non lasciarsi traviare dalla dottrina demoniaca dell’oratore pagano. Siamo in un periodo in cui i Cristiani e i pagani si fronteggiavano, contrapponendo quest’ultimi i miracoli di Apuleio o di altri maghi a quelli operati da Cristo. Ma lo stesso Agostino riconosceva ad Apuleio la sua abilità retorica e il titolo di filosofo platonico. 
Apuleio amava definirsi, infatti, un filosofo platonico e tale attributo trova riscontro nella dedica incisa in una statua, ritrovata nel 1918, che i suoi concittadini gli eressero a Madaura.
L’approccio al pensiero di Platone è quello tipico del cosiddetto Medioplatonismo, corrente filosofica diffusasi tra il I° secolo a. C. e il II° secolo d.C. . Il medio platonismo, che anticipa il Neoplatonismo, affermatosi con Plotino nel III sec., era molto interessato alla magia e ai culti misterici, come i misteri di Esculapio ed i misteri Eleusini, che tanta parte ebbero nella formazione di Apuleio.

I misteri erano forme segrete di culto, consentite solo ad alcuni individui che vi erano stati iniziati ( gr. mystes = iniziato; mystéria = lat.  initia ) . L’iniziazione implicava la rivelazione di segreti e la promessa che l’iniziato avrebbe goduto vita beata in un altro mondo dopo la morte. I misteri eleusini sono i più noti, documentati fin dall’antichità nell’inno omerico a Demetra. Furono soppressi con la diffusione del Cristianesimo nel 393 d. C. dall’imperatore Teodosio, cristiano devoto, seguace del credo niceno (325), duro contro ogni forma di culto pagano e di eresia. I misteri eleusini erano celebrati tra settembre e ottobre, al tempo della semina ed erano legati al mito di Demetra ( identificata con la dea italica delle messi Cerere, con la dea egizia Iside, e talvolta con la dea frigia Cibele) e Persefone, lat. Proserpina, detta anche Kore, figlia di Zeus e di Demetra. Il mito del ratto di Persefone da parte di Ade (lat. Plutone), re degli Inferi, fu interpretato come il simbolo del seme del frumento che deve penetrare nella terra, sicché da una morte apparente possa nascere una nuova vita. Ad Eleusi, la più importante città dell’Attica a 20 chilometri da Atene, la stessa Demetra aveva istituito i misteri in suo onore perché era stata benevolmente ospitata dal re Celeo nel corso delle sue peregrinazioni alla ricerca della figlia. L’iniziazione si svolgeva in due tempi: i partecipanti, uomini e donne, si riunivano ad Atene, si bagnavano nel mare per un rito di purificazione e sacrificavano ciascuno un porcellino. Gli iniziati celebravano una sorta di sacramento, bevendo il  kykeòn, una speciale bevanda, composta di un decotto d’orzo  aromatizzato con menta pulegio, dalle stesse proprietà della mente piperita. In un secondo momento, si svolgeva una grande processione di iniziati da Atene ad Eleusi. Nel Telesterio, la sala d’iniziazione che poteva contenere migliaia di persone, il sacerdote, dopo aver tenuto al buio il luogo della riunione per un certo tempo, improvvisamente ordinava che venisse illuminato e mostrava agli iniziati gli oggetti sacri, di cui si ignorano i particolari. Quindi, veniva annunciata la nascita di un bambino divino, che diffondeva una generale letizia tra i partecipanti. Il passaggio dal buio alla luce significava il processo di elevazione spirituale cui tendevano gli iniziati, di cui il bambino divino rappresentava l’espressione più alta della palingenesi.
I misteri eleusini erano uno dei tanti culti misterici presenti contemporaneamente al diffondersi del Cristianesimo. È un momento particolare della storia del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, in cui nasce una nuova sensibilità religiosa, l’esigenza di credere nell’immortalità, il bisogno di riconsiderare il fine ultimo della vita umana, sottoponendola ad un processo iniziatico che conducesse alla catarsi e alla palingenesi. Gli antichi dei dell’Olimpo non erano più in grado di appagare le richieste spirituali di chi aspirava alla comunione con la divinità. Era più facile trovare delle risposte nel mito di Iside o nel culto di Dioniso, che con il nome di Liber, era stato insieme a Cerere il primo dio straniero introdotto a Roma. Una nuova chiave di lettura esigevano i miti del passato, come la stessa interpretazione delle fatiche di Ercole e il mito legato alla resurrezione di Alcesti, moglie di Admeto. La vita è considerata in iter, un viaggio al quale bisogna essere iniziati, un cammino sottoposto a regole ferree e tappe inviolabili. Orfeo violò le leggi del percorso iniziatico e non riuscì a riportare fuori dall’oltretomba, dalle tenebre alla luce, la sua Euridice. Fu così che  nella dura lotta contro Thanatos, il dio della morte, Orfeo rimase sconfitto.
La somiglianza di alcuni riti iniziatici con la ritualità cristiana preoccupava i padri della Chiesa. Tertulliano, contemporaneo di Apuleio, metteva in guardia contro la presenza del diavolo ' il cui ruolo è quello di rovesciare la verità, lui che con i misteri idolatri imita persino gli stessi sacramenti divini. Anch’egli battezza alcuni, in quanto credenti e suoi fedeli; promette la purificazione dai peccati che viene dal lavacro; e, se ancora ricordo bene, Mitra ( antico dio indo-iraniano, il cui culto era riservato agli uomini, cui offriva una vita felice attraverso vari gradi d’iniziazione. Sembra fosse identificato con il Sole) segna sulla fronte i suoi soldati; celebra anche l’offerta del pane e presenta un’immagine della resurrezione. … Il suo pontefice contrae un solo matrimonio e il culto dispone di vergini e di uomini che praticano la continenza …' De praescriptione hereticorum,40. Il culto di Mitra giunse a Roma attraverso i legionari che avevano combattuto nei territori ad oriente dell’impero. Si diffuse a Roma in concorrenza con la religione cristiana, con la quale aveva molti punti in comune, come notava Tertulliano, tra cui anche il fatto di essere nati Mitra e Cristo in una grotta tra il 24 e il 25 dicembre e di predicare entrambi la fratellanza universale. Sembra sorprendente che in questo stesso giorno la leggenda vuole che  siano nati anche il dio Oro, figlio di Iside, Dioniso e Buddha. Sennonché la spiegazione è data dalla coincidenza astronomica con il solstizio d’inverno, il 21 dicembre, che segna la giornata più corta dell’anno. Da questo giorno in poi le tenebre lasceranno sempre più spazio alla luce, il che assumeva per i nostri antenati un forte valore simbolico. Non è un caso che i Romani chiamassero il 25 dicembre  dies solis, il giorno del sole. 
È però da sottolineare che 'all’esclusività di un’adesione totale, qual è quella richiesta dal cristianesimo, la religiosità del tardo paganesimo romano contrappone una molteplicità di pratiche che non si escludono fra loro e non risultano in conflitto con l’aderenza alla tradizione culturale dei maiores' F. E. Consolino, Religione misteriche, in Storia di Roma, 3 Einaudi Torino p. 925. Un classico esempio è dato dall’iscrizione funebre incisa sul cippo funerario di due nobili romani del IV secolo, Vettio Agorio Pretestato e la moglie Fabia Paolina. Il marito era morto prima della moglie e la sopravvissuta trova conforto nella sicurezza di potere continuare a vivere con il marito dopo la sua morte: ' felix, maritum si superstitem mihi divi dedissent, sed tamen felix, tua quia sum fuique postque mortem mox ero'. Sembrerebbe l’epigrafe di una moglie cristiana, che crede nell’aldilà. Si tratta invece di due soggetti che hanno compiuto un itinerario religioso insieme, pur per vie diverse: Pretestato era augure e pontefice di Vesta, pontefice del dio Sole e consacrato a Libero, Dioniso; Paolina era consacrata ad Ecate, signora delle anime dei defunti, associata alla stregoneria e alla magia nera, e  a Cerere. Entrambi i coniugi erano stati iniziati ai misteri eleusini. 
È questa la temperie culturale in cui è immerso Apuleio, studioso di grammatica e di oratoria, iniziato a vari culti misterici, enciclopedico negli interessi, che andavano dalla poesia alla medicina, dalla geometria alla musica e soprattutto alla filosofia. Brillante conferenziere e avvocato di successo, fu una specie di clericus vagans, per dirla con Maurizio Bettini. Spinto dalla sua sete di conoscenza viaggiò in lungo e in largo dall’Egitto ad Atene, dall’isola di  Samo, patria di Pitagora, a Roma. Durante questi viaggi fu iniziato ai misteri eleusini, al culto di Iside e Osiride, al culto di Esculapio, mosso dal desiderio di appagare la sua ricerca in campo scientifico e  metafisico. Poliedrico e versatile come scrittore, Apuleio scrisse moltissimo e sugli argomenti più svariati in lingua latina e greca, in versi e in prosa. Della sua vasta produzione si sono salvate alcune opere filosofico-scientifiche, una raccolta di conferenze, l’Apologia e soprattutto il romanzo le Metamorfosi in 11 libri, conosciuto anche come L’asino d’oro, che fu il modello più imitato della novellistica occidentale. Giovanni Boccaccio scoprì il romanzo e non si limitò a copiarlo, ma lo tenne a modello del suo capolavoro, inserendo le 100 novelle all’interno di una cornice e trasferendo in un luogo ameno l’allegra brigata di giovani, che con sommo diletto narravano ed esorcizzavano l’idea della morte con piacevoli intrattenimenti. La seconda novella della settima giornata del Decameron riprende  la storia di un’infedeltà coniugale, che Apuleio racconta nel libro IX. Si tratta di due poveri mariti gabbati dalle loro mogli che, sorprese in flagrante adulterio, nascondono i loro amanti dentro una botte. Entrambi gli autori sono accomunati dal piacere di raccontare con forte realismo e con la manifesta salacità della fabula milesia. 
La prima traduzione dal latino in volgare fu fatta da Matteo Maria Boiardo, che ricavò dal romanzo di Apuleio la struttura narrativa del suo Orlando innamorato. La traduzione del Boiardo fu rielaborata da Agnolo Firenzuola col titolo L’asino d’oro, così come già l’opera era conosciuta da Sant’Agostino ( De civitate Dei XVIII).
Le Metamorfosi sono un romanzo d’avventura, in cui il protagonista è lo stesso narratore delle vicende e delle peripezie cui va incontro. Non sono certe le fonti dell’opera. A Luciano di Samosata, contemporaneo di Apuleio, è attribuita un’operetta dal titolo Lucio o l’asino d’oro. Sennonché dal  patriarca Fozio IX (secolo d. C.) apprendiamo che l’opera attribuita a Luciano deriva dal romanzo Racconti vari di Lucio di Patre, di cui non c’è pervenuto nulla. Pertanto, non è possibile stabilire a quale delle due fonti Apuleio abbia attinto o se, come è probabile, abbia rimaneggiato entrambe, arricchendole con altre storie inventate e soprattutto aggiungendo come del tutto originale il libro XI, quello in cui si assiste al ritorno di Lucio-asino alle fattezze umane.
Il protagonista è un giovane greco di nome Lucio, le cui avventure cominciano in Tessaglia, nella casa in cui viene ospitato. La Tessaglia era nota nell’antichità come terra di incantesimi e di stregonerie. In quella casa Lucio di nascosto assiste alla metamorfosi della moglie del suo ospite in gufo e chiede alla serva di lei, Fotide, che era diventata sua amante, di aiutarlo a provare la medesima esperienza. Questa però sbaglia unguento e Lucio viene tramutato in asino. La graziosa amante lo consola informandolo che gli basterà assaggiare delle rose per riacquistare la figura umana. Ma l’irruzione improvvisa di alcuni ladri dà inizio alle peripezie di Lucio-asino. Questi briganti, infatti, lo portano via come animale da soma nel loro covo montano. Da qui, dopo essersi rifocillati, partono per nuove razzie e dopo breve tempo conducono in ostaggio una bella fanciulla di nobile aspetto, Carite. La giovane piange e si dispera perché è stata rapita proprio alla vigilia delle sue nozze con l’amatissimo cugino. Nel tentativo di consolarla una vecchia, madre dei briganti le racconta la favola di Amore e Psiche, che occupa la parte centrale del romanzo, dalla metà del quarto alla metà del sesto libro. Questo racconto nel racconto è il più celebre e il più bello della storie narrate nel romanzo. L’incipit della favola diventerà un topos letterario dei narratori che verranno: Erant in quadam civitate rex et regina … Essa, inoltre, presenta una delicata struttura allegorica e filosofica. È descritto l’iter terreno dell’anima umana che, dopo l’esperienza del peccato, viene sottoposta a numerosi sacrifici, dolori, espiazioni per redimersi e aspirare all’ascesi celeste. In questa novella, che si distacca dallo spirito lascivo e libertino presente in tanti episodi, lo scrittore è come se volesse alleggerire la sua anima dal carico delle passioni e anticipare quell’ansia di redenzione che occuperà tutto il libro XI.  Psiche era una fanciulla bellissima, la più bella di tre sorelle. La sua bellezza suscitò la gelosia di Venere, che mandò suo figlio Cupido per farla innamorare di un essere umano brutto. Ma Cupido se ne innamorò e di nascosto alla madre condusse la giovane in un palazzo meraviglioso, dove Psiche era accudita da tanta servitù che però non vedeva. Di notte Cupido andava a trovare la sua innamorata, alla quale aveva proibito di tentare di vederlo. Le sorelle invidiose della condizione pressoché divina in cui viveva Psiche, le fecero credere che l’amante con cui si univa di notte era un mostro che l’avrebbe divorata. Pertanto, le consigliarono di accendere una lucerna di notte e di uccidere il suo mostruoso compagno mentre giaceva addormentato accanto a lei. Una notte  Psiche si decise a mettere in atto il piano suggerito dalle sorelle. Ma una goccia d’olio bollente della lucerna cadde sula spalla di Cupido, il cui splendore aveva profondamente scosso l’incauta fanciulla. Il dio, adiratosi con Psiche, abbandonò per sempre quella dimora incantata. Psiche, tormentata dal rimorso, cercò per tutta la terra il suo amante, finché giunse nel regno di Venere che la sottopose a prove sovrumane (c’è un chiaro rapporto analogico tra queste prove di purificazione con il rito penitenziale cristiano cui il fedele è sottoposto dal sacerdote per ottenere l’assoluzione e l’accesso alla comunione con la divinità). Finalmente Giove, commosso dalle preghiere di Cupido, il cui amore per Psiche era rimasto intatto, acconsentì alle loro nozze e Psiche fu accolta nel coro degli dei. Il romanzo prosegue con la liberazione di Carite da parte del suo innamorato, che si era finto un pericoloso brigante ed era stato accolto dai malfattori nella loro banda. Per Lucio l’odissea non è finita. Così passa da un mugnaio ad un ortolano, da un pasticciere ad un cuoco, finché finisce sotto le scudisciate di un liberto, che lo ammaestra a mostrarsi al pubblico in atteggiamenti aggraziati e con movenze lussuriose. Durante uno di questi spettacoli, una distinta e ricca signora provò tanto gusto alle lussuriose movenze dell’asino, che fu presa da una strana libidine e, come novella Pasife, volle godere dell’amplesso con l’animale. Lucio non venne meno ai doveri del coito, anzi riuscì a soddisfare pienamente l’accesa libidine della sua amante. Ma quando il padrone gli organizzò un nuovo amplesso da consumare nel circo dinanzi ad un vasto pubblico con una donna assassina condannata dal governatore alle bestie, disgustato di tutto quel mondo corrotto, riuscì a fuggire. Giunto al golfo di Sarònico, si adagiò sulla spiaggia e poté dare ristoro al corpo sfinito. L’undicesimo libro rappresenta una svolta rispetto alla narrazione precedente. Cambia stile ed argomento e rappresenta il momento della catarsi e dell’ascesa al divino. Si apre con la descrizione dell’incanto lunare e prosegue con la preghiera di Lucio alla regina del cielo: ' Regina del cielo – o che tu sia l’alma Cerere, la prima inventrice delle messi … o che tu sia Venere celeste, che agli inizi del mondo generasti l’Amore … o che tu sia la sorella di Febo, che lenisci il dolore dei parti … o che tu sia Proserpina … vieni in soccorso a questi miei estremi mali, cambia la mia sorte e, dopo aver patito tanto, concedimi pace e riposo. Fa’ scomparire questo mio orrido aspetto e rendimi al Lucio che sono. Mi sia almeno concesso morire se non mi è lecito vivere'. È un chiaro esempio del sincretismo religioso dominante nei culti misterici in auge nei primi secoli dell’impero romano. In comune essi hanno la medesima vocazione al trascendente e alla conquista di una vita ultraterrena che innalzi l’uomo al divino. La regina del cielo invocata da Lucio è la Luna (chissà se Pirandello ebbe presente questa pagina quando scrisse la novella Ciaula scopre la luna, anch’essa carca di valori simbolici), epifania luminosa della dea Iside.
Il culto della dea Iside si era diffuso in tutto il mondo greco-romano in età ellenistica. Era una delle principali divinità dell’Antico Egitto, considerata genitrice di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, prima tra i Celesti. Iside è moglie e sorella di Osiride, il più venerato tra gli dei egizi, e madre di Oro, corrispondente all’egiziano 'Har' = bambino, simbolicamente espressione del Sole, generatore di vita. Dopo la morte di suo padre, ucciso e fatto a pezzi dal fratello Seth, Iside raccolse i resti straziati di Osiride, li seppellì e con il figlio Oro si vendicò del malvagio Seth. Il culto di Oro divenne popolare a partire dal quarto secolo a. C. e veniva rappresentato come un bambino che tiene un dito sulle labbra, ad indicare mistero e segretezza. I Romani lo ritenevano il dio del silenzio. L’icona di Iside che allatta il figlioletto Oro, da lei concepito senza un vero e proprio rapporto con Osiride, ha influenzato la rappresentazione della Vergine Maria nell’iconografia cristiana.
Dopo aver così pregato, Lucio fu vinto dal sonno. Aveva appena chiuso gli occhi, quand’ecco una figura divina gli apparve, una immagine luminosissima che emergeva a poco a poco con tutto il corpo dal mare. La dea indossava una veste di lino sottile, dal colore cangiante, che ora appariva tutto un abbagliante candore, ora sembrava gialla come il fiore del croco, ora vivida dei rossi riflessi della fiamma. Nel tessuto luccicavano qua e là delle stelle e al centro la luna piena lanciava fiammanti bagliori. La dea reggeva nella destra un sonaglio di bronzo, che rendeva un suono argentino, dalla sinistra lasciava pendere un piccolo recipiente d’oro a forma di barchetta, sul cui manico levava alta la testa un aspide. La dea, quindi, ingiungeva a Lucio di assistere ad una processione a lei dedicata e di mangiare le rose che un sacerdote, già da lei ammonito in sogno, avrebbe portato nella mano destra insieme con il sistro.  Stupito dall’apparizione della potente dea, Lucio si asperse con l’acqua marina e, fuggita l’oscurità della notte, notò che si era formata una gran folla esultante. Qua e là girovagavano soggetti mascherati allo scopo di creare spasso tra la gente. Alle maschere seguiva la solenne processione. Il corteo era preceduto da alcune donne festosamente abbigliate ed inghirlandate di corone floreali, che spargevano petali e fiorellini lungo il percorso. Altre recavano sulle spalle nitidi specchi rivolti verso la dea. Altre invece fingevano di pettinare e acconciare con pettini d’avorio la regale chioma; altre ancora versavano lungo la via un balsamo delizioso a goccia a goccia. Seguiva una gran folla di uomini e donne che portavano ceri, lucerne, fiaccole, e una schiera di giovani splendidamente vestiti che intonavano melodiose armonie. La processione degli iniziati ai divini misteri era formata da uomini e donne di ogni età, gli uni rasati, le altre col capo coperto da un trasparente velo; a questi seguivano i sommi sacerdoti avvolti in bianche e attillate vesti di lino, strette alla vita e lunghe fino ai piedi. Essi recavano alte le insegne delle divinità, tra cui il modello di una mano sinistra con la palma aperta a raffigurare l’equità. Un oggetto simile, in filigrana d’argento, era considerato un amuleto apotropaico dai nostri nonni. Intanto, si avvicinava il sacerdote che recava nella mano destra il sistro e la corona di rose. la salvezza di Lucio. Il sacerdote ad un tratto si fermò e, tesa la destra, pose innanzi alla bocca di Lucio la corona. Appena la ghirlanda intrecciata di splendide rose fu avidamente divorata, l’ignobile figura di asino cominciò gradualmente a cedere il posto alle fattezze umane, tra lo stupore della folla, che assisteva meravigliata a quella miracolosa metamorfosi. Lucio, rifatto uomo, si fece iniziare ai misteri di Iside ed Osiride. La prima forma d’iniziazione consistette nel bagno termale di purificazione. Quindi il sacerdote lo condusse al tempio e dinanzi alla statua della dea gli diede in segreto alcuni consigli, mentre a voce alta lo ammoniva di astenersi per dieci giorni dai piaceri della tavola, dalla carne e dal vino. Il giorno destinato al compimento del processo iniziatico, verso sera, tra larghe schiere di fedeli osannanti, Lucio fu introdotto dal sacerdote nel più segreto recesso del santuario, dove i riti solenni durarono fino all’alba. Recatosi a Roma, Lucio ricevette la seconda iniziazione, quella ai sacri misteri del dio Osiride.
Il racconto di Lucio interpreta l’esigenza dei classe intellettuale di giungere attraverso forme di sincretismo filosofico-religioso, soprattutto tra le dottrine platoniche e quelle pitagoriche, alla vera conoscenza, attraverso un processo di purificazione, che porti alla visione di Dio.
Questo atteggiamento manifestava 'lo sfinimento della potenza e della cultura pagana' (C. Marchesi, Apuleio, Introduzione al De Magia, Bo, 1969) già avvertito da Lucrezio, da Virgilio e, soprattutto da Seneca. L’Olimpo dei Greci e dei Romani non era più in grado di dare nuove risposte alla crisi degli antichi valori. 'Dalla Siria, dall’Egitto, dalla Palestina, dai territori degli antichi fenici debellati e assoggettati, veniva l’enorme, l’irreparabile invasione a cui Roma non poteva opporre più né consoli né imperatori; era invasione di fantasmi, di spiritati, di trasognati, … tutti per la prima volta nella storia, sospinti da una potenza invisibile contro tutte le potenze reali. L’Asia conquistava l’Europa nel nome di Dio' (C. Marchese, ib.).   
Lector, intende, laetaberis: lettore stai attento e ti divertirai, scrive nel prologo Apuleio. Il lettore accoglie l’invito e non rimarrà certo deluso, ammaliato dall’abilità del narratore, che inanella una storia dietro l’altra, in una sorta di antico Decameron. Le vicende sono sempre avvincenti vuoi per la drammaticità del racconto, vuoi per il lato lascivo, vuoi per la crudezza dei particolari. È probabile che l’eleganza stilistica, l’originalità della lingua e la leggiadria della prosa abbiano suggerito a Sant’Agostino, nato due secoli dopo, l’attributo aureus, preferendo il titolo Asinus aureus a Metamorfosi.
Ma al contempo non sfugge al lettore che le Metamorfosi di Apuleio sono ben altra cosa rispetto alle Metamorfosi ovidiane. Qui è evidente l’intento di trasmettere ai posteri la mitologia degli antichi in chiave eziologica ; nella realtà romanzesca della vita di Lucio si gusta invece il sapore del nuovo che avanza e che farà vacillare la stessa sopravvivenza dell’impero romano.   Antonino Tobia


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